“Il processo di dissoluzione della concezione cristiana della morale negli anni ’60 ha conosciuto una radicalità come mai c’era stata prima di allora” (foto Olycom) 

I macigni di Ratzinger

Matteo Matzuzzi

“Contro di me un vociare assassino”, ha scritto Benedetto XVI nel  libro postumo pubblicato dopo la morte. Al centro di tutto, la crisi della fede nella sua Germania, epicentro del terremoto che scuote la Chiesa di Roma

Il Vaticano, a tutti i massimi livelli, dice ai maggiorenti della Chiesa tedesca che si devono fermare, che quel che stabilisce il Cammino sinodale locale (che da biennale qual era in origine, di fatto si sta trasformando in permanente o semi permanente, con richieste ultimative recapitate a Roma che crescono in tono e sostanza di mese in mese) non è valido e che di certo non possono istituire “Consigli sinodali” con la partecipazione di laici che arriverebbero a sovrintendere pure alle faccende ora in capo alla Conferenza episcopale. Il Papa, in una delle periodiche interviste che concede, ha sentenziato che quel che avviene in Germania “non è utile e non aiuta. Il dialogo va bene, ma non è un Sinodo, non è una vera e propria via sinodale. Lo è solo di nome, ma è guidato da un’élite e il Popolo di Dio non è coinvolto”. Dal Reno replicano con ringraziamenti rituali ma confermano che si andrà avanti così come stabilito, nonostante il tentativo ormai dichiarato di Roma di far confluire – diluire, si potrebbe dire senza il rischio di sbagliare – le istanze locali nel grande Sinodo che si celebrerà tra la fine di quest’anno e il prossimo all’ombra di San Pietro. Dopotutto, la gerarchia della Chiesa tedesca è compatta: la resistenza, pur combattiva, è ridotta a cinque vescovi, capitanati dall’ammaccato cardinale di Colonia, Rainer Maria Woelki. Gli altri sono quasi tutti titolari di diocesi bavaresi, la grande enclave cattolica a nord delle Alpi, benché anche qui la secolarizzazione si faccia ormai sentire. Prima ancora che una lotta con Roma, lo è contro i gruppi partigiani che non vogliono saperne di riforme e maquillage, di ristrutturazioni calate dall’alto (come dice Francesco) che puntano in ultima istanza a fare della Chiesa cattolica un qualcosa di nuovo, cogestito a livello orizzontale, senza più piramidi con al vertice poche figure chiamate a dare la linea. Progetti antichi, non è certo questione degli ultimi anni ma che oggi hanno trovato terreno fertile nella scelta del Papa regnante di demandare alle Chiese locali autorità anche in campo dottrinale (e figurarsi, quindi, in quello pastorale). Francesco, di quel paragrafo contenuto nella Evangelii gaudium del 2013 forse un po’ se ne è pentito, se è vero che nei mesi scorsi diceva di non volere in Germania un’altra Chiesa protestante, ma di volerla cattolica. Forse, chissà, ne avrà parlato con Benedetto XVI, ricordato in queste settimane come il presidio di saggezza che poteva essere interpellato a proposito di questioni non certo secondarie. E quanto avviene nella Chiesa tedesca, secondario certamente non lo è. 

 

Forse anche Francesco, date le ultime sue dichiarazioni, s’è pentito di non aver fermato sul nascere il Cammino sinodale tedesco 

 
Dopotutto, se c’è uno che sapeva bene interpretare i venti vecchi e nuovi che spiravano da nord, questi era proprio Joseph Ratzinger. Lo testimoniano anche i suoi ultimi scritti, quelli postumi. “Da parte mia, in vita, non voglio più pubblicare nulla. La furia dei circoli a me contrari in Germania è talmente forte che l’approvazione di ogni mia parola subito provoca da parte loro un vociare assassino. Voglio risparmiare questo a me stesso e alla cristianità”, scriveva il 13 gennaio 2021 Benedetto XVI a Elio Guerriero, autore di una biografia in italiano su Ratzinger e da quest’ultimo conosciuto e stimato “per la sua competenza teologica”. Il Papa emerito si diceva disposto a sistemare gli scritti su cui aveva meditato negli anni del ritiro, immerso tra i suoi libri nei Giardini vaticani. Però chiariva che nulla sarebbe dovuto andare in libreria prima della sua morte. Lo mise nero su bianco in modo tassativo, firmando la prefazione a Che cos’è il cristianesimo (Mondadori, 2023) il 1° maggio del 2022. “In Germania alcune persone cercano da sempre di distruggermi”, aveva già detto al suo biografo, Peter Seewald, nelle Ultime conversazioni, del 2016. Dalla Germania, cioè da casa sua, arrivava quel vociare assassino che lo accompagnava da decenni, almeno fin da quando fu sancita la presunta “svolta” del teologo Ratzinger, che da pupillo dell’intellighenzia progressista – dopotutto era pur sempre il giovane perito che il cardinale Frings si portò al Concilio e che festeggiò con partecipazione, seppur sobriamente, l’inizio della grande assemblea convocata a Roma da Giovanni XXIII – divenne tutto d’un tratto il rigido conservatore che sarebbe stato poi portato da Giovanni Paolo II sul trono di defensor fidei, prefetto di quella che un tempo era la Sacra Inquisizione. Lui ha sempre smentito che vi siano stati “due” Ratzinger, prima uno che voleva riforme e progresso e poi uno che, traumatizzato dal 1968, volse lo sguardo all’indietro: “Certo che ero progressista. A quei tempi progressismo non significava rompere con la fede, ma imparare a comprenderla meglio e a viverla in modo più giusto, ripartendo dalle sue origini”, disse. Dopotutto, a ben guardare quel che diceva sessantatré anni fa, si capisce che la linea era una sola: “Ciò che conta è ridare vita alle asserzioni di fede, rimuovendone la rigidità sistematica, ma senza intaccare ciò che in esse è veramente valido, riportandole alla loro vivacità originaria”. Erano gli anni delle dispute in patria, le università facevano la conta di quanti studenti andavano ad ascoltare un professore piuttosto che l’altro, Von Balthasar guardava quella nuova generazione e dava pagelle, trasmettendole poi all’amico De Lubac: “Küng è un birbante, lo conosco molto bene. A Tubinga è così insopportabile che il suo collega J. Ratzinger, che vale cento volte più di lui, per sfuggire alla sua presenza si è ritirato nella piccola facoltà di Ratisbona”. Con buona pace di Umberto Eco, che al Berliner Zeitung disse di non ritenere Ratzinger “né un grande filosofo né un grande teologo, anche se generalmente viene rappresentato come tale”. 

 

Anche da emerito, B-XVI guardava alla sua patria e agli scontri con i teologi locali: “In Germania alcune persone cercano da sempre di distruggermi” 

 

Di certo, il problema tedesco non ha mai abbandonato questo gigante del pensiero occidentale. Si riprendano gli appunti del 2019, quelli che per pura pigrizia intellettuale e sciatteria giornalistica passarono alla storia come l’attacco “ai club omosessuali”, cercando legami inverosimili e inesistenti con il presente, con il torbido degli abusi e le malefatte clericali. Niente di tutto questo. 

 
Benedetto XVI, emerito, ricordava la situazione degli anni Sessanta, quella da lui sperimentata sul campo: “Il processo di dissoluzione della concezione cristiana della morale, da lungo tempo preparato e che è in corso, negli anni ’60, come ho cercato di mostrare, ha conosciuto una radicalità come mai c’era stata prima di allora. Questa dissoluzione dell’autorità dottrinale della Chiesa in materia morale doveva necessariamente ripercuotersi anche nei diversi spazi di vita della Chiesa. Nell’ambito dell’incontro dei presidenti delle Conferenze episcopali di tutto il mondo, interessa soprattutto la questione della vita sacerdotale e inoltre quella dei seminari. Riguardo al problema della preparazione al ministero sacerdotale nei seminari, si constata in effetti un ampio collasso della forma vigente sino a quel momento di questa preparazione. In diversi seminari si formarono club omosessuali che agivano più o meno apertamente e che chiaramente trasformarono il clima nei seminari. In un seminario nella Germania meridionale i candidati al sacerdozio e i candidati all’ufficio laicale di referente pastorale vivevano insieme. Durante i pasti comuni, i seminaristi stavano insieme ai referenti pastorali coniugati in parte accompagnati da moglie e figlio e in qualche caso dalle loro fidanzate. Il clima nel seminario non poteva aiutare la formazione sacerdotale”. 

 

Il post Concilio e il 1968 furono per lui un trauma, ma non ci fu mai un Ratzinger che da “progressista” si trasformò di colpo in “conservatore”

  
Il problema fondamentale, il cuore di tutto, era solo uno: la mancanza di fede. Non a caso, sempre in quegli appunti, aggiungeva che “una società nella quale Dio è assente – una società che non lo conosce più e lo tratta come se non esistesse – è una società che perde il suo criterio. Nel nostro tempo è stato coniato il motto della ‘morte di Dio’. Quando in una società Dio muore, essa diviene libera, ci è stato assicurato. In verità, la morte di Dio in una società significa anche la fine della sua libertà, perché muore il senso che offre orientamento. E perché viene meno il criterio che ci indica la direzione insegnandoci a distinguere il bene dal male. La società occidentale è una società nella quale Dio nella sfera pubblica è assente e per la quale non ha più nulla da dire”. 

 
Ratzinger ricordava tutto, come fosse stato uno choc; e ricordava anche quanto accadde decenni dopo, quando lui era già a Roma e a Colonia nel 1989 quindici teologi firmavano la Dichiarazione in cui si criticava il rapporto fra il magistero e i compiti della teologia. Si ricordava anche di quanti – per lui sorprendentemente e forse incomprensibilmente – annunciavano reazioni “fortissime” se Giovanni Paolo II avesse scritto un’enciclica per dire che ci sono azioni sempre malvagie. Tutto, per Ratzinger, rientrava nell’inesorabile processo di dissoluzione della concezione cristiana della morale, connessa senza dubbio alla dissoluzione dell’autorità dottrinale della Chiesa in materia morale. E vedeva proprio nella sua Germania l’epicentro di tale processo, il terreno su cui veniva costruito il forte che si preparava alla grande battaglia contro Roma. Lo sapeva bene, un po’ perché in Germania sono più bravi a discettare di teologia, un po’ perché lì hanno i mezzi per sostenere battaglie (politiche e mediatiche) come da nessun’altra parte al mondo, a parte gli Stati Uniti. Fede e soldi, un binomio che fa da sfondo a ogni discorso su riforme più o meno radicali, sulle rive del Reno. La Kirchensteuer, l’esosa tassa che ogni battezzato deve versare al fisco, è un’arma a doppio taglio: riempie i forzieri delle diocesi (le entrate annue nei conti della Chiesa tedesca sono stimate sui 5-6 miliardi di euro) ma cala inesorabilmente se le persone scelgono di non essere più cristiane. Procedura per cancellare la propria iscrizione tutt’altro che semplice, tra l’altro: è necessario firmare un atto davanti alle competenti autorità civili. Chi se ne va, è automaticamente fuori da tutto, sacramenti inclusi. E per rimpinguare la cassa, è più conveniente rendersi appetibili a nuovi potenziali ingressi, a un nuovo pubblico. Incuriosendo, ammiccando, proponendo qualcosa che possa intercettare le generazioni cresciute nel mondo della post cristianità. In Ultime conversazioni, Benedetto XVI diceva di avere “grossi dubbi sulla correttezza del sistema così com’è. Non intendo dire che non ci debba essere una tassa ecclesiastica, ma la scomunica automatica di coloro che non la pagano, secondo me, non è sostenibile. (…) In Germania abbiamo un cattolicesimo strutturato e ben pagato, in cui spesso i cattolici sono dipendenti della Chiesa e hanno nei suoi confronti una mentalità sindacale. Per loro la Chiesa è solo il datore di lavoro da criticare. Non muovono da una dinamica di fede. Credo che questo rappresenti il grande pericolo della Chiesa in Germania: ci sono talmente tanti collaboratori sotto contratto che l’istituzione si sta trasformando in una burocrazia mondana. (…) Mi rattrista questa situazione, questa eccedenza di denaro che poi però è di nuovo troppo poco, e l’amarezza che genera, il sarcasmo delle cerchie di intellettuali”. 

 

Il pensiero, anche quando era a Roma, tornava sempre alla Germania. Qualcuno ha detto che era “una questione irrisolta”

  
A Friburgo, nel 2011, disse che “da decenni assistiamo a una diminuzione della pratica religiosa, constatiamo un crescente distanziarsi di una parte notevole di battezzati dalla vita della Chiesa. Emerge la domanda: la Chiesa non deve forse cambiare? Non deve forse, nei suoi uffici e nelle sue strutture, adattarsi al tempo presente, per raggiungere le persone di oggi che sono alla ricerca e in dubbio?”. Capito subito dove l’allora Pontefice voleva andare a parare, il presidente della Conferenza episcopale tedesca, mons. Robert Zollitsch, si premurò di assicurare che il Papa non stava parlando della tassa, ma che il suo discorso era più ampio. Vero, ma come dimostrano le successive dichiarazioni rese a Seewald, Benedetto XVI aveva presente proprio quel tema. Ogni volta che pensava alla sua patria, non poteva fare a meno di ricordare gli attacchi subiti, perfino “la menzogna” montata contro di lui quando si trattò di cambiare la preghiera del Venerdì santo contro i “perfidi giudei”. E se ne ricordò anche quando rifiutò di scrivere un testo d’accompagnamento per gli undici “volumetti” (sic) sulla teologia di Papa Francesco tra i quali vi era anche quello di Peter Hünermann, il teologo che “fondò un’organizzazione in opposizione al magistero papale” e che “durante il mio pontificato si è messo in luce per avere capeggiato iniziative antipapali”. Con il vecchio professor Hünermann la disfida era antica: quest’ultimo, già cattedratico a Tubinga, definì Ratzinger un uomo “cresciuto nella vecchia epoca, con la vecchia teologia precedente il Concilio” e chiamato a dire quale fosse per lui il più grande lascito del pontificato ratzingeriano, non ebbe dubbi a dire “il fatto di essersi ritirato”. Hünermann firmava appelli (con l’amico Küng) chiedendo di ordinare le donne e gli uomini sposati, di far partecipare i laici alla scelta dei vescovi e dei parroci, di non escludere i divorziati risposati e quanti vivono in un’unione tra persone dello stesso sesso. Lamentò il “governo autoritario di Giovanni Paolo II” e invocava “libertà di coscienza”. Oltre al vociare in Germania per il j’accuse del Papa emerito, si sollevò anche quello della Società europea di Teologia, che parlando di Hünermann, ne ricordava “lo zelo per una fedeltà genuinamente ecclesiale che allo stesso tempo riconosce e facilita una pluralità di validi approcci teologici cattolici”.
Qualcuno ha notato che i ripetuti accenni in vita alla situazione tedesca siano il sintomo di una questione irrisolta in Ratzinger, il non essere riuscito a mettere da parte diatribe risalenti agli anni in cui disputava da cattedratico con colleghi che si trovavano per lo più su opposizioni opposte alle sue. Questioni che l’esperienza romana, prima da prefetto e poi da Pontefice, avrebbero dovuto essere quasi dimenticate. Invece, no. Fino all’ultimo scritto, quello consegnato solo nove mesi fa, in cui ha condiviso l’amarezza per il “vociare assassino” contro di lui. Un messaggio, chi lo sa, destinato anche a chi sarà chiamato a gestire il caso tedesco quando a Roma, tra meno di un anno, s’inizierà a tirare le somme. 

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.