Nella nebbia neopagana è incerta la rotta della barca di Pietro
Il bilancio provvisorio del papato di Bergoglio è sinistro. non tanto per la Chesa, quanto per il mondo laico, per l’occidente, che ha perso un contraddittorio decisivo
Nel bilancio dei dieci anni di Bergoglio bisogna forse mettere anche l’aborto iscritto come diritto universale femminile nella Costituzione francese, imminente, il riconoscimento legislativo dell’aiuto a morire che fa grandi passi a Parigi, il disastro polacco con l’aggressione postuma al “santo protettore dei pedofili” Wojtyla e l’uso politico della pedocriminalità arrivato a accuse e identificazioni con il suicidio di un ragazzino, Mikolaj Filiks, figlio di una deputata, per la vergogna di essere stato abusato, il dilagare culturale e civile della gender theory, lo scisma strisciante dell’episcopato tedesco, la confusione teologica su questo Dio non più cattolico nemmeno per gli evangelizzati, il Dio del meticciato più generico, la liquidazione dei movimenti invisi ai gesuiti, uno scacco doloroso per generazioni di cristiani e cattolici del risveglio novecentesco, l’obliquità sulla guerra in Europa, la compravendita del credo in terra di Cina, la devastante introduzione di una finzione di giustizia temporale nel Vaticano, lo sconcerto dell’episcopato americano, e tante altre cose che hanno imbarbarito i dintorni e forse il cuore del cristianesimo.
Si può essere meno severi e pensare che non c’era alternativa al papato pastorale, all’inclinazione verso il mondo com’è, alla fluidificazione della presenza istituzionale della Chiesa nel concetto conciliare di popolo di Dio assolutizzato e cristallizzato in nuovo idolo, si può pensare che l’ecologia e la teologia del popolo compensano la grande ritirata cattolica dal teatro e dalla liturgia della fede, dalla cultura della ragione e della verità come credenza e conoscenza, in favore di una resa al modello mondano vincente, che il Papa re e il Papa maestro avevano irrigidito la cattolicità, doveva arrivare un pastore universale capace di tagliare con la tradizione del giudizio etico, della guerra al relativismo, per recuperare i famosi duecento anni di ritardo dei preti sui chierici della rivoluzione francese, versione Martini. Si vedrà come va a finire, i gesuiti ne sanno una più del diavolo, ma il bilancio provvisorio è sinistro, ammettiamolo.
Non tanto per la Chiesa, che ha una sua sapienza e una tendenza a perdurare oltre il sipario calato, quanto per il mondo laico, per l’occidente, che ha perso un contraddittorio decisivo, un controllo spirituale e morale, uno specchio in cui rimirare per opposizione e realismo le sue deformità, le smorfie di una civilizzazione impazzita di sé, senza particolare spirito censorio ma anche senza lassismi e bellurie popolari perché facili, ammirate e lodate “francescanamente” perché somiglianti al famoso Io e alle sue voglie, che paradosso. Il fattore più tremendo però a me sembra la grande noia, la grande bonaccia: si è esaurito il vento che dai combattimenti conciliari all’Humanae vitae, fino all’elezione polacca e poi bavarese aveva soffiato con sentimenti di paura, di dubbio, di attenzione anche morbosa ai palazzi apostolici, alla tradizione rivendicata e interpretata, ma non abbandonata a sé stessa, la vela si è afflosciata, sbatte sulla barca di Pietro, la rotta è incerta, il rallentamento dei sensi e l’allungamento delle distanze colpisce, si procede in una nebbia fitta neopagana. Posso sbagliarmi, Francesco aveva scommesso sulla tenerezza e la rassicurazione sentimentale di Pietro Favre, voleva far pace col Turco e con l’Imperatore in nome di una cura d’anime affidata alla benevolenza, il risultato però sembra strascicato, e il rilancio del Vangelo una cosa da professorini.
Vangelo a portata di mano