La Cina viola di nuovo l'Accordo sempre più traballante con il Vaticano
Il Partito manda un fedelissimo a Shanghai, sede vacante da dieci anni. La Santa Sede informata solo pochi giorni fa
Il nuovo vescovo ha assicurato fedeltà allo Stato e al processo di sinizzazione del cattolicesimo cinese. Non proprio una mano tesa a Roma, sempre più debole rispetto alle volontà di Pechino
Roma. La Cina ha violato nuovamente l’Accordo relativo alle nomine episcopali stipulato con la Santa Sede nel 2018 (e rinnovato due volte, l’ultima lo scorso autunno). La violazione, stavolta, è di quelle importanti perché il Consiglio dei vescovi cinesi – organismo non riconosciuto dalla Santa Sede e diretta emanazione del Partito comunista cinese – ha provveduto alla nomina del vescovo di Shanghai, la più importante diocesi del paese. La Santa Sede, come ha detto il suo portavoce martedì pomeriggio, era stata informata “solo pochi giorni fa” e l’ufficializzazione dell’investitura del nuovo vescovo è giunta poche ore prima della cerimonia d’ingresso. L’Accordo sino-vaticano è segreto ma una delle poche certezze è che prevede la condivisione circa le nomine dei nuovi pastori chiamati a guidare le diocesi. Aspetto, quest’ultimo, che Pechino fa fatica a mettere in pratica: lo scorso novembre, infatti, la Santa Sede usava toni durissimi circa la nomina del vescovo ausiliare di Jiangxi. Nel comunicato diffuso, si leggeva infatti che “tale evento non è avvenuto in conformità allo spirito di dialogo esistente tra la Parte vaticana e la Parte cinese e a quanto stipulato nell’Accordo Provvisorio sulla nomina dei vescovi, il 22 settembre 2018. Per di più, il riconoscimento civile di Mons. Peng è stato preceduto, secondo le notizie giunte, da lunghe e pesanti pressioni delle autorità locali. La Santa Sede auspica che non si ripetano simili episodi, resta in attesa di opportune comunicazioni in merito da parte delle autorità e riafferma la sua piena disponibilità a continuare il dialogo rispettoso, concernente tutte le questioni di comune interesse”. Speranze vane.
Era stato il sito AsiaNews a dare conto dell’imminente cerimonia d’insediamento del nuovo vescovo di Shanghai, mentre da Oltretevere non trapelava nulla di ufficiale, se non la conferma sussurrata che la nomina era avvenuta senza il placet papale. La scelta del Consiglio dei vescovi cinesi è ricaduta su mons. Giuseppe Shen Bin, dal 2010 vescovo di Haimen e uno dei volti più conosciuti della Chiesa cinese. Se è vero che mons. Shen fu riconosciuto da Roma all’atto dell’ordinazione episcopale, è altrettanto assodata la sua vicinanza al Partito, ed è anche per questo che le autorità di Pechino non hanno avuto troppi dubbi sul suo profilo. Tra l’altro, il presule è pure presidente della Conferenza episcopale cinese, neppure questa riconosciuta da Roma. Shanghai era vacante da un decennio, dalla morte cioè dell’ordinario mons. Aloysius Jin Luxian. Inoltre, il vescovo ausiliare riconosciuto dalla Santa Sede, mons. Taddeo Ma Daqin, è agli arresti domiciliari dopo la sua decisione di dimettersi dall’Associazione patriottica. Nonostante un successivo “ravvedimento”, il governo non l’ha perdonato. Ora inizia l’èra di Shen, che nella sua prima uscita pubblica ha ribadito la sua fedeltà alla Patria, ai “princìpi di indipendenza e autogoverno” e la sua piena adesione al processo di sinizzazione del cattolicesimo in Cina.
“Durante la cerimonia è stata citata la Conferenza episcopale cinese ma non sono stati fatti riferimenti al Papa e alla Santa Sede”, ha dovuto riconoscere su Avvenire lo storico Agostino Giovagnoli, esponente di rilievo di Sant’Egidio da sempre schierato per l’abbraccio di Roma alla Cina di Xi Jinping. Nel novembre del 2019, davanti ai moti di piazza a Hong Kong, scrisse che “il futuro di Hong Kong è la Cina, non l’occidente”, pur manifestando “simpatia” per i giovani scesi in strada. Tanto per capire la linea. In ogni caso, quanto accaduto a Shanghai conferma lo squilibrio che domina l’Accordo sino-vaticano, con la Santa Sede in posizione di svantaggio e con pochi margini di manovra. I risultati, a quattro anni e mezzo dalla prima firma, sono limitati a sei nuove ordinazioni episcopali e al riconoscimento da parte delle autorità comuniste di sei vescovi clandestini. Le diocesi vacanti sono una quarantina. Un percorso accidentato che non sorprende chi, anche in Vaticano, ha lavorato per anni al dossier cinese. Forse, però, non così accidentato come la realtà sta dimostrando.
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