modello ungherese

Il viaggio del Papa a Budapest consolida un'intesa insospettabile che va ben oltre il dramma ucraino

Matteo Matzuzzi

Il Vaticano esalta il paese di Orbán e marca la distanza da Bruxelles, in particolare con il riconoscimento che l’Ungheria è uno dei paesi che più fa sul fronte migratorio

Da oggi e fino a domenica, il Papa sarà in Ungheria. Due giorni e mezzo di incontri, omelie e annunciati bagni di folla a Budapest. E’ la seconda volta in due anni che Francesco si reca nella capitale ungherese. La prima, nel settembre del 2021, fu in occasione del Congresso eucaristico internazionale, quando si limitò a presiedere la celebrazione della messa conclusiva. In tale occasione diede l’arrivederci e oggi, tornando, mantiene la promessa fatta. In questi mesi, fin da quando è stato annunciato il viaggio, molto si è discusso su una presunta vicinanza a Viktor Orbán, il tutto calato nel dramma del conflitto ucraino. L’equazione, mediaticamente parlando, è stata semplice: Orbán e il Papa dicono le stesse cose, entrambi vogliono la fine della guerra e sono contrari al continuo invio di armi a Kyiv. Una narrazione che il premier ungherese ha usato a proprio vantaggio più volte.

   
“Io e il Papa siamo gli unici a parlare di pace”, diceva Orbán non appena gli alleati della Nato lo redarguivano per la sospetta equidistanza in materia bellica, qualcuno accusandolo pure d’essere l’uomo di Putin nel cuore d’Europa. Da Budapest, rispondevano: se accusate noi di essere putiniani, accusate di fatto pure il Papa. E dunque, ora che il Pontefice va in Ungheria, tornano i discorsi sulla mediazione della Santa Sede, che potrebbe contare su un terreno amico e tutt’altro che ostile per Mosca (dopotutto è a Budapest che si cercò di far incontrare Francesco e Kirill).

  

Nonostante il quadro favorevole, le speranze sono destinate a restare tali. E il primo a dirlo, un po’ per prudenza un po’ per constatazione realistica, è il segretario di stato, il cardinale Parolin: il viaggio è la prosecuzione dell’impegno preso nel 2021, si affronterà il tema della guerra come il Papa ha sempre fatto in ogni occasione utile. Non ci sono sorprese nel cassetto, insomma. Anche se ci fossero, comunque, di certo non verrebbero sbandierate, considerata la serie di incidenti non irrilevanti che anziché avvicinare Roma e Mosca (Vaticano e Patriarcato) in quest’anno di conflitto le ha allontanate, e non di poco. Ma la diplomazia d’oltretevere è antica e, nonostante qualche intemperanza verbale papale – il “chierichetto Kirill” non deve aver prodotto risate in Segreteria di stato – lavora a fari spenti.

 

Però il tema è un altro, legato a questo viaggio: il riconoscimento che l’Ungheria è uno dei paesi che più fa sul fronte migratorio; riconoscimento che pone la Santa Sede in posizione opposta a quella di Bruxelles. Intervistato dai media vaticani il cardinale Parolin lo dice in modo chiaro: “Stiamo vivendo in Europa la più grande crisi di rifugiati a partire dalla Seconda guerra mondiale: più di 8 milioni di rifugiati ucraini hanno attraversato l’Unione europea. E l’Ungheria, in questa situazione si è impegnata a mantenere le sue frontiere aperte alle persone in fuga dalla guerra in Ucraina e oltre 4 milioni di persone sono passate per l’Ungheria, o direttamente dall’Ucraina o dalla Romania. E sebbene siano rimasti in pochi – le cifre danno circa 35 mila – la Chiesa cattolica locale, attraverso soprattutto la Caritas, ma anche con l’aiuto del governo – ha fatto del suo meglio per accoglierle e prendersi cura di questi rifugiati mentre continuano il loro viaggio verso altri paesi europei. E parte di questo lavoro è stato anche quello di evitare che le donne e i bambini in particolare non cadano vittime della tratta di esseri umani”.

 

Una promozione a tutto tondo, per un popolo dalla “fede viva e ammirevole”, una fede “anche che è stata esemplarmente testimoniata da figure recenti: pensiamo ai diversi martiri e confessori della fede legati al periodo della persecuzione ateista – come non ricordare qui l’emblematica figura del venerabile cardinale József Mindszenty! Una fede, dunque, forgiata dalla sofferenza e praticata per anni da una Chiesa nascosta che, come un seme poi è germogliata e fiorita dopo anni di repressione”. Ad Acistampa, il cardinale arcivescovo Péter Erdo ha detto che Francesco “voleva fare una visita pastorale, voleva incontrare il popolo e la Chiesa ungherese, una grande manifestazione di attenzione e di simpatia verso di noi”.


 Insomma, l’Ungheria come modello da imitare, sembra d’intuire. Un po’ come la Slovacchia, visitata sempre nel 2021 e assai simile, quanto a partecipazione religiosa, al paese dove oggi sarà ospite. Una distanza sempre più evidente dalle grandi “potenze” d’Europa, ignorate da un decennio. Non è un caso che il Papa, confermando il viaggio a Marsiglia del prossimo settembre per gli incontri del Mediterraneo, abbia voluto specificare in più di una occasione che lui si recherà  solo “a Marsiglia, non sarà un viaggio in Francia”.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.