Il ritratto
L'orgoglioso prete ambrosiano. Vita e opere di Mario Delpini
La storia dell’arcivescovo di Milano che quando fu nominato disse: “Sapete tutti che sono inadeguato”. Dalla incredibile designazione alle polemiche per l’omelia ai funerali del Cav. L’obiettivo: farsi capire dall’uditorio e andare all’essenziale
Quando, al principio dell’estate del 2017, il cardinale Angelo Scola diede lettura della missiva con cui il nunzio apostolico annunciava che il suo successore, per volontà papale, sarebbe stato Mario Delpini, vicario generale della diocesi ambrosiana e vescovo ausiliare, il parterre de roi convenuto in arcivescovado per udire la notizia scattò in un applauso. Si fa sempre così, sia quando non si sa chi sia il prescelto sia nei casi (non rari) in cui il subentrante sia ben noto e poco apprezzato da chi ne ha sperimentato carattere, idee, punti di vista sul destino della Chiesa e del mondo. Delpini lo conoscevano tutti, dopo l’arcivescovo c’era lui, in ordine gerarchico. E lui sembrò farsi piccolo piccolo mentre Scola lo chiamava accanto a sé. Si fece apparentemente serio e dopo i ringraziamenti di rito “per gli elogi”, disse: “Io sento la mia inadeguatezza e questo già si vede dal nome. I vescovi di Milano hanno tutti nomi solenni, a partire da Angelo... Dionigi... Carlo Maria... Giovanni... Giovanni Battista... Alfredo Ildefonso... Ecco ora voi direte, Mario che nome è? Un po’ banale e già si capisce, però è quello che mi hanno dato mio papà e mia mamma e non è che si possa discutere. La mia inadeguatezza, poi, è una valutazione molto condivisa, tutta la mia vita è stata qui a Milano, tutti mi conoscono e si saranno fatti un’idea. Penso che dicano, come io penso, che sono un brav’uomo, ma arcivescovo di Milano... sarò all’altezza?”.
Mario, insomma. Altro che successore d’Ambrogio e di Carlo Borromeo! Altro che arcivescovo metropolita della diocesi più grande del mondo e capo rito! Risate dagli astanti, sopracciglia che si levavano a Roma fra chi non capiva quella strana designazione. Chi ne doveva scrivere articoli per i giornali andava a compulsare il curriculum, scorrendo l’elenco delle pubblicazioni. E non vi trovava niente. O meglio, qualcosa c’era: “Con il dovuto rispetto. Frammenti di saggezza all’ombra del campanile” (2011), “E la farfalla volò” (Ancora, 2016). Nel primo caso, recita la quarta di copertina, “con stile affettuoso e ironico l’autore racconta un mondo che ben conosce, quello che gravita attorno alla chiesa, alla canonica, all’oratorio con tutti i suoi attori e comprimari: il parroco e gli altri sacerdoti, i giovani, i membri del consiglio parrocchiale, i volontari, le catechiste, i devoti zelanti. Un mondo con tanti difetti, perché fatto da persone diverse e con i propri limiti, ma ricco di umanità e aperto a tutti”.
Le prime parole dopo la nomina, nel 2017: “I vescovi di Milano hanno nomi solenni. Ecco, voi direte: Mario che nome è?”
Nel secondo “il libro contiene 52 brevi apologhi attraverso i quali l’autore stimola il lettore a guardare dentro e fuori di sé, riscoprendo il gusto poetico della fiaba, alla ricerca di scintille di spiritualità evangelica”. Poca roba per stendere eulogie di novelli arcivescovi, di solito firmatari di dissertazioni teologiche o canonistiche e di qualche libello dedicato a un paio di santi particolarmente amati. Non sapendo che scrivere, si andava a cogliere gli aspetti che fanno il vescovo un uomo come noi: Delpini va in bicicletta, veste comodo, le sue radici sono a Jerago con Orago, l’unico paese della diocesi di Milano che inizia con la j. Hombre del pueblo, dunque. Masticava amaro chi sperava di ridare linfa alle cattedre dei non credenti martiniane, Bibbia in una mano, incenso nell’altra e Verbo sulle labbra. Restava perplesso chi aspettava la rinuncia di Scola per riannodare quel filo che s’era interrotto un quindicennio prima, quando da Roma avevano trasferito lì Dionigi Tettamanzi da Renate, che smessi in fretta i panni di ex segretario generale della Cei di marchio ruiniano, tentò – e in parte gli riuscì – di farsi delfino e prosecutore dell’epopea del gesuita che ogni dieci anni mandava a Giovanni Paolo II la lettera di dimissioni, sempre respinta.
Delpini no, lui che come stemma episcopale si era scelto un pino (richiamo al cognome) e si fa chiamare “don Mario”, non è fatto per le dotte e interminabili omelie dal respiro alto che trasportavano il fedele – quello attento – sulle sponde del lago di Tiberiade o tra i vicoli di Gerusalemme. Lo si è visto al funerale di Silvio Berlusconi, in Duomo. Due paginette scarse in Word, tre paragrafi, niente note a piè di pagina né riferimenti lirici o evangelici. Solo agganci al reale basati su tre evidenze del defunto, un uomo che ha voluto vivere, che ha amato e si è fatto amare, che è stato politico. E che ora, nell’ora fatale, si trova disarmato al cospetto di Dio. L’omelia ha diviso, da una parte gli entusiasti, dall’altra gli intellò – accompagnati da quelli che in chiesa non ci mettono mai piede perché non credono alle “favole” (sic), sono superiori e però pretendono di sapere come si fanno le prediche – che lamentano la banalità di quanto pronunciato all’ambone. Tutto qui? Sì, tutto qui. Le omelie, come insegnano i vecchi e saggi preti di campagna, devono essere fatte per essere capite. Devono essere ortodosse, certo, ma è utile che il messaggio raggiunga l’uditorio. Delpini ha ritratto l’uomo, lasciando a Rosy Bindi e amici i giudizi moralistici. E’ stato, il suo, un rispettoso sic transit gloria mundi, che non ha niente di vergognoso o di “gelido”, come pure le gazzette manettare hanno titolato gaudenti in presa diretta. Una volta, quando il Papa veniva incoronato, per tre volte al suo passaggio veniva intonato in San Pietro il “Pater sancte, sic transit gloria mundi”, mentre si spegneva un batuffolo di stoppa precedentemente acceso. Ma basta leggersi i discorsi alla città letti alla vigilia di Sant’Ambrogio, per capire il taglio che dà Delpini ai suoi messaggi.
“Ho l’impressione che l’ironia sia quasi proibita, che bisogna essere seri. Evidentemente i media si aspettano che la Chiesa parli in modo noioso”
E’ un classicista, si è laureato in Lettere alla Cattolica con una tesi su “La didattica del latino come introduzione alla Esegesi dei classici”, è stato insegnante di greco e patrologia, ha conseguito il diploma in Scienze teologiche e patristiche. Insomma, i numeri li ha, la formazione pure. Ma non smania per apparire, non cerca l’occasione utile per dare sfoggio di sapienza ed eloquenza. “Non mi ritrovo nella figura del protagonista”, disse al Corriere della Sera tempo fa: “Io sono solo un servo. In particolare mi piacerebbe essere a servizio dell’unità della Chiesa, una comunità in cui tutte le componenti sono irrinunciabili e devono assumersi le loro responsabilità. Una Chiesa unita è la comunità che deve generare laici preparati, onesti, autorevoli per entrare nello spazio pubblico ed essere amministratori lungimiranti e capaci, politici dediti al bene comune per l’oggi e per il futuro. Laici cristiani a servizio del bene comune. Neppure a loro piace la figura del protagonista”.
Un anno fa, circolò un video in cui prendeva in giro mons. Oscar Cantoni, appena insignito della porpora cardinalizia. Diceva, Delpini, davanti ai presuli lombardi parati da messa, che chissà perché s’era andati a fare cardinale il vescovo di Como anziché quello di Milano, ma forse il Papa aveva scelto così avendo il confratello comasco tanto tempo libero. Ci fu chi vide la protesta pubblica per il mancato riconoscimento purpureo, non tanto a lui ma alla diocesi di Ambrogio e vi fu chi paventò provvedimenti papali in arrivo. Lui, Delpini, se ne rammaricò: “Da questa vicenda traggo l’idea che l’ironia sia quasi proibita, che in questo contesto mediatico bisogna essere seri, parlare il meno possibile e soprattutto annoiare. Perché se uno fa una battuta in pubblico si scatena tutto questo. Evidentemente i media si aspettano che la Chiesa parli sempre in modo noioso. Dopodiché sono del tutto d’accordo col Papa, ne condivido le scelte e i criteri, e non vedo alcuno smacco se una città ha un vescovo che non è cardinale”. Lui parla, fa le battute, non ha la classica aura arcivescovile: è appunto don Mario, prete in tutto ambrosiano, con quell’ironia che aveva Giacomo Biffi, da Milano catapultato a Bologna per volontà di Wojtyla.
A Carlo Maria Martini deve molto, ma più che dedicarsi alle conferenze e alle dissertazioni bibliche lui ha preferito scrivere libri per bambini
Prete e “i preti sono di quelli che si alzano ogni mattina e si domandano: che cosa posso fare oggi per seminare speranza? E pregano. Poi cominciano a pensare: che cosa c’è da fare oggi? Allora vedono nell’agenda a che ora è il funerale. Le nostre comunità hanno fatto troppi funerali e perciò c’è un po’ un’aria da funerale”, diceva appena la pandemia allentò la morsa, lasciando per un po’ a regnare il disorientamento e la conta dei danni, materiali, fisici e spirituali. Prete che parla ai preti che conosce meglio di chiunque altro, essendo stato per una vita rettore dei seminari. Parla a loro, come ha fatto lo scorso maggio in occasione della Festa dei Fiori al Seminario di Venegono, quando decise di usare il tempo dell’omelia per leggere una lettera: “Ho informatori affidabili che mi dicono che siete preti contenti di essere preti. Mi dicono che ogni sera si può ascoltare in ogni parte della diocesi l’innalzarsi di un cantico stupefacente di cui il mondo intero si sorprende: l’anima mia magnifica il Signore, e io il mio spirito esulta in Dio mio salvatore. Mi dicono, addirittura, che il giorno anniversario della ordinazione è celebrato da voi come una festa e che in quei giorni passate delle ore in qualche chiesa a ringraziare il Signore di essere preti e avete tanti motivi per ringraziare che il tempo non basta mai. Mi dicono anche che vi capita di essere così contenti che ogni tanto andate a far visita ad altri preti per condividere la vostra gioia o anche per sostenere, incoraggiare, consolare un confratello che vive momenti di tristezza e di desolazione. L’ammirazione e lo stupore mi inducono a scrivervi queste poche righe. Vorrei chiedervi: quale è il segreto della vostra gioia? Avete forse qualche ricetta segreta?”.
Le polemiche per l’omelia ai funerali di Berlusconi. L’obiettivo, uno soltanto: farsi capire dall’uditorio e andare all’essenziale
Mario Delpini è l’opposto del vescovo-manager, dell’organizzatore che passa – più sconfortato che gaudente – da un piano pastorale all’altro, da una conferenza con la locale federazione dei costruttori edili al collegamento televisivo con il talk-show serale. Non è Martini, cui pure era legato, visto che fu proprio l’austero gesuita torinese a dargli un incarico dopo l’altro nei seminari diocesani. Delpini è un vescovo che qualcuno ha definito fuori posto, non per volergli male, ma per sottolineare quanto diverso, quanto estraneo sia dalla metropoli colta e frenetica. Lontano dalle luci della mondanità, non avvezzo a comparire sui giornali con interviste o condivisione delle sue idee su quel che accade nel globo e nella Chiesa. Georges Bernanos probabilmente sarebbe rimasto estasiato da questo don Mario messo sulla cattedra di Ambrogio in un’epoca come questa in cui la fede, alle latitudini nostrane, è affare per pochi e sovente disturba chi ha fretta, corre e non sempre sapendo verso quale meta. Giovannino Guareschi ci avrebbe fatto almeno un libro, magari indugiando sul momento in cui, in pieno Covid, l’arcivescovo salì fin tra le guglie del Duomo, guardando la Madonnina e chiedendole di intercedere per il bene della città e dei suoi abitanti. “O mia bela Madunina che te dominet Milan”, recitò, “conforta con la tua presenza coloro che più soffrono nei nostri ospedali e nelle nostre case: invoca ancora per tutti il dono dello Spirito consolatore che ti ha consolato”.
Delpini è il coltissimo curato diventato arcivescovo, scelta perfettamente bergogliana ma al contempo naturale e scontata come poche: il numero due dell’uscente che diventa numero uno. Si dice che Papa Francesco si sia pentito della scelta e anche per questo gli avrebbe negato la porpora. Chi lo sa, in questo decennio s’è capito che una logica nelle scelte cardinalizie non esiste, se non quella della volontà di stupire e scardinare consuetudini che parevano immutabili perché radicate nella Storia. Lui, l’arcivescovo capo rito, pare dorma benissimo anche senza la mozzetta rossa riservata ai principi della Chiesa. Gli basta rivendicare, nel chiuso della sua stanza e dal pulpito, l’orgogliosa diversità del prete di lassù, custode del magistero “ricchissimo, sereno e rasserenante” che fu di sant’Ambrogio.