la nomina

Fernández al Sant'Uffizio archivia Ratzinger e segna il trionfo del relativismo

La nomina del nuovo prefetto del dicastero per la Dottrina della fede chiude la lunga stagione segnata da Benedetto XVI

Matteo Matzuzzi

Le idee del nuovo prefetto sono chiare, da tempo. "Per molti secoli, la Chiesa ha inconsapevolmente sviluppato un’intera filosofia e morale piena di classificazioni, per classificare le persone... Questo può ricevere la comunione, questo no... Questo può essere perdonato, questo no. Terribile che sia successo”

Sabato mattina, alle 12, il bollettino della Sala stampa vaticana ha dato conto di quella che con ogni probabilità è la nomina più rilevante del pontificato bergogliano: il Papa ha scelto come nuovo prefetto del dicastero per la Dottrina della fede l’arcivescovo argentino Víctor Manuel Fernández detto “Tucho”, titolare della diocesi di La Plata. Anni fa, al principio del pontificato, Fernández era una delle stelle che brillavano nel firmamento: lui fu la prima nomina episcopale del neoeletto Pontefice, che sanò quello che anni prima ritenne uno sgarbo personale (a lui e a Fernández): il Vaticano, infatti, aveva bocciato la nomina del teologo a rettore dell’Università cattolica d’Argentina, salvo poi cedere nel 2009: a proporlo era pur sempre il cardinale primate del grande paese sudamericano. Il motivo? Non aveva i titoli e certo le pubblicazioni puntigliosamente elencate nel comunicato diffuso dalla Sala stampa vaticana aiutano un po’ a comprendere le ragioni del diniego. Il vaticanista americano John Allen, descrivendo Fernández come il Ratzinger di Giovanni Paolo II, ha saggiamente invitato su Crux a non fare paragoni tra i due custodi dell’ortodossia cattolica.  La teologia di Fernández non è debole, commentavano all’epoca teologi di fama e curriculum corposo, è che proprio non c’è. Acqua di rose, si direbbe in modo spiccio: pensierini buoni per accompagnare il fedele stordito e in cerca di qualcosa: il baciare, appunto, la tenerezza, la felicità. In realtà, Fernández non è mai stato uno sprovveduto: ad Aparecida, nella celebre Conferenza dell’episcopato americano che vide proprio il cardinale Bergoglio protagonista (era il segretario dell’assemblea), nel 2007, contribuì in modo sostanziale alla stesura del testo finale. Fu uno dei protagonisti “occulti” del Sinodo sulla famiglia del biennio 2014-15, dichiaratamente aperto ad andare anche oltre la mediazione finale sul riaccostamento alla comunione dei divorziati risposati, è sua la mano che stese Amoris laetitia, ma soprattutto è sua la penna che impresse su carta il grande programma del pontificato: l’Evangelii gaudium. Sulla stampa lo si descriveva come il consigliere teologico di riferimento del Papa e si preconizzava per lui la chiamata al Sant’Uffizio non appena il mandato di Gerhard Ludwig Müller sarebbe cessato (o fatto cessare). Non andò così, perché nel 2017 la scelta cadde sul gesuita Luis Francisco Ladaria, segretario uscente e dal profilo moderato – ma, a differenza del predecessore – meno mediatico e assai parco in considerazioni pubbliche, interviste e pubblicazioni e Fernández dovette consolarsi con la seconda più importante diocesi argentina, La Plata, dove andò a prendere il posto di mons. Héctor Rubén Aguer, il grande oppositore di Bergoglio ai tempi in cui i due facevano parte della Conferenza episcopale del paese sudamericano. A Roma, infatti, viveva ancora Joseph Ratzinger e nominare una personalità come Fernández sarebbe stato forse troppo per l’anziano emerito che soggiornava nei Giardini vaticani. Morto Benedetto XVI, sono cadute – e in modo legittimo, chiaramente – le remore e le delicatezze nei confronti del nonno saggio, potendo procedere alla nomina del teologo argentino, che prenderà servizio a metà settembre. 

 

Non è una nomina come le altre, benché la nuova costituzione apostolica Praedicate evangelium abbia reso meno rilevante – anche solo formalmente – il ruolo dell’ex Suprema. E’ una nomina che segna la fine di un’epoca lunghissima, quella segnata dalla presenza di Joseph Ratzinger. Ha ragione la grande rivista cattolica Tablet quando definisce l’evento “un terremoto”. Dal 1981 fu l’indiscusso titolare dell’ortodossia cattolica in qualità di prefetto della congregazione per la Dottrina della fede, quindi Papa dal 2005 al 2013. E anche dopo la rinuncia, Francesco si avvalse prima della collaborazione di Müller e poi – quando decise di non rinnovare l’incarico al cardinale tedesco, nel 2017 – dal gesuita spagnolo Ladaria, che Benedetto XVI aveva nominato segretario della congregazione. Ora, la svolta, chiara e decisa, come denota la lettera che Francesco ha scritto al nuovo prefetto, pubblicata dalla Sala stampa vaticana: “Sappi che la Chiesa ‘ha bisogno di crescere nell’interpretazione della Parola rivelata e nella comprensione della verità’, senza che ciò implichi l’imposizione di un unico modo di esprimerla. Perché ‘le diverse linee di pensiero filosofico, teologico e pastorale, se si lasciano armonizzare dallo Spirito nel rispetto e nell’amore, possono far crescere anche la Chiesa’. Questa crescita armoniosa conserverà la dottrina cristiana più efficacemente di qualsiasi meccanismo di controllo”. Altro che condanna del relativismo. “Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero… La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde – gettata da un estremo all’altro”, disse Ratzinger nel 2005 predicando ai cardinali che stavano per entrare in Conclave. Oggi, diciotto anni dopo, il Papa dice l’opposto: ben vengano tutte le “diverse linee di pensiero” che si respirano nell’orbe cattolico, perché “possono far crescere la Chiesa”.

 

Basta con le censure, le condanne e le reprimende: “Il dicastero che presiederai in altre epoche è arrivato a utilizzare metodi immorali. Furono tempi dove più che promuovere il sapere teologico si perseguivano possibili errori dottrinali”.  “Quello che mi aspetto da te è senza dubbio qualcosa di molto diverso”, scrive Francesco, di fatto mostrando pollice verso nei confronti di tutti i titolari del Sant’Uffizio che hanno preceduto mons. Fernández. Il che potrà provocare qualche imbarazzo non solo in curia, ma anche tra le file dei grandi accademici cattolici contemporanei, che con Ratzinger sono cresciuti e da lui si sono abbeverati. Che ne penserà, tanto per fare un nome, il cardinale Christoph Schönborn, definito anni fa dal Pontefice regnante come il migliore teologo su piazza ma che è stato il più stretto collaboratore di colui che sarebbe divenuto Benedetto XVI negli anni in cui si lavorava al nuovo Catechismo? Le idee del nuovo prefetto sono chiare, da tempo. Solo pochi mesi fa, in un’omelia pronunciata nella sua cattedrale, diceva che “per molti secoli, la Chiesa ha inconsapevolmente sviluppato un’intera filosofia e morale piena di classificazioni, per classificare le persone... Questo può ricevere la comunione, questo no... Questo può essere perdonato, questo no. Terribile che sia successo”. Nel comunicato con cui dava conto della chiamata in curia – che per lui potrebbe essere abolita, visto che anni fa disse che i dicasteri potevano essere distribuiti nei vari continenti – ha dichiarato che ora dovrà occuparsi di “incoraggiare la riflessione della fede, l’approfondimento della teologia, promuovere un pensiero che sappia dialogare con ciò che vive la gente, incoraggiare un pensiero cristiano libero, creativo e con profondità”. Purissima teologia liquida, trionfo del relativismo. Che può piacere o no, ma così è.

 

Di certo, e finalmente, la nomina di Fernández con il pacchetto di disposizioni che il Papa gli ha consegnato, smentisce una volta per tutte la favola della continuità tra i pontificati; favola eretta a dogma per evitare – si diceva e pensava – spaccature, lotte intestine e disorientamento nel Popolo di Dio. Si raccontava che Francesco non era Benedetto, ovviamente, ma che la linea era unica e che era solo questione di carattere e temperamento diversi. La realtà, che era evidente già un minuto dopo l’apparizione di Jorge Mario Bergoglio alla Loggia centrale della Basilica vaticana, ora diviene palese. Nessun dramma né delitto di lesa maestà, nella storia della Chiesa è successo già infinite volte senza cataclismi conseguenti. Ma il taglio netto c’è e va sottolineato. Si chiude la lunghissima stagione che ha visto Ratzinger plasmare la teologia della Chiesa cattolica, una rotta intrapresa nel 1981 e proseguita ben oltre la sua rinuncia, nel 2013. Università, documenti, forma mentis. Anche chi non amava il teologo bavarese e la sua impostazione era costretto a farvi i conti. Non sarà più così, almeno in questo scorcio di tempo. La sterzata “rivoluzionaria” che tanti osservatori avevano profetizzato un decennio fa, Francesco ha deciso di avviarla ora che è anziano e fisicamente debilitato. Ha scelto di imprimere una svolta nell’atto finale – breve o lungo che sia – del suo pontificato. Di sicuro un ennesimo processo è stato avviato, la Barca è stata messa in mare e veleggia verso il largo. Per capire la rotta e la destinazione, ci vorrà tempo.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.