Il Papa e la "rivoluzione culturale" che attende la Chiesa
Francesco accelera il piano della sua grande riforma. Basta prudenze e compromessi, a governare ora sono i fedelissimi
Al Pontefice interessava fare uscire la Chiesa dalla comfort zone occidentale che l’aveva resa immobile, custode di cenere. “Capirete tutto dalle nomine”, avvertiva il cardinale Maradiaga più di un anno fa. Aveva ragione
Aspettate le nomine e vedrete la portata della grande riforma, avvertiva sempre sorridente il cardinale Oscar Maradiaga, poco più di un anno fa, quando osservatori ed esperti di affari vaticani s’interrogavano e interrogavano le eminenze che contano sulla portata della nuova costituzione apostolica destinata a ridisegnare la curia romana. Aspettate e vedrete. La profezia di Maradiaga s’è realizzata, anche perché il cardinale honduregno è da sempre uno dei più stretti collaboratori di Francesco, che lo volle alla guida del Consiglio dei Nove (nel suo originario assetto) chiamato a fornire aiuto e suggerimenti circa il governo della Chiesa universale. Un anno e pochi mesi dopo, il Papa ha sterzato come mai aveva fatto prima d’ora, almeno sul piano dei suoi “ministri”. Si diceva che a lui tutto sommato poco importava, che non tollerava i mediatori: bastava lui e il popolo, il pueblo. Senza filtri, segretari, cardinali “lecca calze” (citazione d’autore) e unti dal Signore che si ergevano a portavoce del Pontefice massimo. Si governa con quel che c’è, l’importante è che a funzionare sia la cabeza, la testa, della Chiesa e quindi del Papa. E’ andata avanti così per anni, Francesco si limitava a sostituire i pensionandi, lasciando fin alla soglia degli ottant’anni pure porporati messi lì da Benedetto XVI, e allorché ha dato loro il benservito, non li ha rimpiazzati con profili opposti. Un esempio su tutti: decidendo di non rinnovare il mandato al cardinale Müller, al suo posto al Sant’Uffizio mise il numero due, il gesuita Luis Ladaria, rigoroso professore della Gregoriana dal profilo moderato e assai apprezzato da Ratzinger. I settori più tradizionalisti hanno lamentato la nomina di Arthur Roche al Culto divino, ma dopotutto anche questi era stato nominato segretario del medesimo dicastero da Benedetto XVI.
Solo nell’ultimo anno Francesco ha cambiato registro, un po’ perché forse avverte che ineluttabilmente il pontificato è entrato nella sua fase conclusiva, quella in cui s’infittiscono i conciliaboli cardinalizi sul “dopo” – “c’è chi mi vuole morto” – e si scruta ogni segno visibile di malattia e/o fatica sul volto del Pontefice. Un po’, forse, perché ha capito che la mole di processi avviati, gli scossoni dati alla Chiesa, i Sinodi convocati non hanno fin qui prodotto quel risultato che in tanti – e lui stesso – s’attendevano. Certo, gli ostacoli sono stati e sono ancora molteplici, le resistenze pure. Ma sarebbe errato riproporre il solito e stantio refrain che vuole i cattivi conservatori intenti quotidianamente a minare il corso del pontificato che altrimenti sarebbe sgombro di trappole, libero di incedere nella serenità, in un clima bucolico. Le minacce più serie, in questi ultimi tempi, le ha date quel mondo cattolico che chiede – e in qualche caso pretende – rivoluzioni più che riforme, nonché il ribaltamento del sistema che segna la Chiesa da secoli.
La Germania con il suo Cammino sinodale è l’avanguardia, con sempre meno battezzati ma ricca e rumorosa, di questa falange che però conta battaglioni un po’ ovunque nel mondo: America latina, Australia, Europa occidentale. Francesco ha lanciato altolà come ha potuto, lettere lunghissime e nette, dichiarazioni a mezzo stampa che in qualche caso hanno irritato i vertici dell’episcopato tedesco, ultimatum affidati a curiali di alto rango, mediazioni ispirate da cardinali fedeli e per nulla ostili al disegno sinodale prodotto sulle sponde del Reno. Tutto vano. La Chiesa di Germania va avanti secondo i suoi programmi e dopotutto “non sarà Roma a dirci cosa dobbiamo fare qui”, assicurava nel 2015 il cardinale Reinhard Marx: era un altro Sinodo, erano altri tempi ma la sostanza era uguale e poco è cambiato. Francesco in un decennio ha dato scosse, Amoris laetitia, il Sinodo sull’Amazzonia, le discussioni sui viri probati, le commissioni sulle diaconesse, le richieste categoriche alla Chiesa italiana (Firenze, Convegno ecclesiale di otto anni fa) di archiviare Loreto 1985 e di farsi più pastora tra le pecore smarrite. Liti furibonde tra prelati, votazioni all’ultima scheda per capire se l’ostia sarebbe stata ridata o no ai divorziati risposati, spaccature sempre più profonde, cardinali riottosi che non si presentavano più in San Pietro per polemica. Altri che, per mostrare fedeltà al Vicario, penosamente accorrevano a comprare croci pastorali uguali a quella del Papa, riponendo in cassetti con maniglie d’avorio le loro d’oro e tempestate di pietre preziose. I risultati di tutto questo agitarsi? Scarsi.
E il Papa lo sa, consapevole com’è che non avrebbe potuto rivoluzionare nulla, che spesso sono stati i media – anche quelli che l’hanno idolatrato – a descriverlo fin dalla prima apparizione sulla Loggia delle Benedizioni quasi alla stregua di un secondo alter Christus, e non solo per il nome pontificale scelto. L’uomo che avrebbe dovuto riparare la Chiesa turbata da scandali e chiacchiere, dall’influenza di certe lobby e di potentati che ci sono sempre stati ma che negli ultimi anni avevano preso forse troppo piede nei Sacri palazzi. Gli chiedevano di chiudere lo Ior – e le missioni in Africa le pagate voi? rispondevano quelli che si opponevano al paragrillismo che pure s’era intrufolato alla stregua del fumo di Satana scorto da Paolo VI, oltretevere. Gli domandavano di fare le cardinalesse, di bastonare i cardinali infedeli – con il povero padre Lombardi costretto a smentire certe conversazioni private – di vendere le ville pontificie e di far sposare i preti.
Alla fine, a lui, interessava far cambiare la prospettiva alla Chiesa. Farla uscire dalla comfort zone occidentale che l’aveva resa immobile, custode di cenere in un mondo circostante che s’avvizziva sempre di più, tra secolarizzazione, crisi di fede e soprattutto disinteresse marcato. Spazio alle periferie, allora, esempio del poliedro su cui ogni realtà è diversa dall’altra e merita rispetto e considerazione. Niente genuflessioni ai potentati yankee, ma ammiccamenti più o meno concreti con gli altri poli dei reggitori globali, dalla Cina alla Russia, con benedizioni e saluti a Putin. Ma anche qui la realtà, che è davvero sempre superiore all’idea, ha fatto ben presto venir meno questi punti d’appoggio, già di per sé fragili: la Cina che gestiva a modo suo lo storico accordo relativo alla nomina dei vescovi e la Russia che invadeva l’Ucraina con il via libera esplicito del Patriarca “chierichetto” Kirill, colui che nel 2016 aveva abbracciato il Papa di Roma a Cuba, firmandoci pure una solenne Dichiarazione. Tanti processi avviati, insomma. Tante scosse date a una Chiesa che da decenni anziché vedere la primavera fa i conti con le crisi, grandi o piccole che siano (“Ma quale Pentecoste!”, ha tuonato irritato il cardinale Müller). Cresce l’Africa, si sottolinea ogni tanto. E mentre l’Africa cresce con la sua giovane fede, l’antica culla europea si conta le piaghe e misura lo strato di polvere depositato sui banchi delle vecchie e splendide chiese.
Francesco ha scelto di fare a modo suo, ora che gli anni si fanno sentire sulle sue spalle. Basta mediazioni e ricerca di soluzioni mediane, compromissorie di corto respiro. Alla riforma serve il carburante giusto, gli uomini adatti che possano attuarla senza tentennamenti o dubbi di sorta. Soprattutto, che in questo viaggio dalla meta sconosciuta ci credano davvero. Così, alla Dottrina per la fede ci va il fedelissimo Víctor Fernández, il cui cursus honorum inizia con l’elezione di Francesco: vescovo, arcivescovo, prefetto di curia. Redattore dei più significativi documenti del pontificato, consigliere teologico dalle idee novatrici e creative, ostile a tutto ciò che il Sant’Uffizio ha fatto per secoli, fino all’altro ieri: basta condanne, sì alle aperture. Basta moralismi, sì alla misericordia tout-court. Fernández non è di certo uno sprovveduto parvenu (benché non gli giochino a favore quanti da giorni pubblicano sui social network le classifiche di vendita in Argentina dei suoi saggi per dimostrarne la profondità di pensiero e il seguito). Scrive molto, anche su Facebook, dove s’è fatto prendere la mano accusando chi lo critica di mirare in realtà in alto, al Papa in persona. Parla moltissimo, rivendicando in un’intervista – la prima dopo la nomina – di essere colui che più si oppone all’aborto in tutta America latina, di predicare su confessione messe e adorazione e di essere convinto che il matrimonio sia solo tra uomo e donna. Certo, se le coppie gay chiedono una benedizione, la si può dare, ammesso che non ci sia “confusione”. Il biografo di Bergoglio, nonché suo amico, Sergio Rubin, ha scritto che lui, Fernández, potrà dar luogo a quella che non ha remore nel definire “rivoluzione culturale”, con brividi maoisti annessi. Esagerazioni a parte, Rubin non sbaglia: è proprio quel che si cerca e si vuole, una rivoluzione nel modo di pensare prima ancora di agire. E Fernández non è che la punta di diamante dell’operazione che probabilmente alcuni elettori di Francesco avrebbero voluto già un decennio fa, soprattutto i settori che chiedevano di far entrare aria nuova nelle stanze vaticane.
Solo nell’ultimo mese, il Papa ha nominato il nuovo arcivescovo di Buenos Aires, poi quello di Madrid, infine il titolare della diocesi di Bruxelles. Tutte e tre le designazioni sono accomunate da due fattori: la relativa giovane età dei vescovi (sotto i sessant’anni) e l’orientamento fortemente “novatore”. Tradotto con le categorie dei nostri giorni, si direbbero “pastori con l’odore delle pecore”, “bergogliani”, perfettamente allineati con l’agenda del Pontefice regnante. E’ il segno che Francesco vuole far cambiare velocità alla Barca, in modo che possa veleggiare più spedita verso il largo, lontano dalle secche dove la frenano gruppi d’interesse, vecchi conservatori moralisti e rigidi, convinti assertori che il cristianesimo sia un pacchetto di dogmi e comandi. Lo si capisce anche dall’inusuale lettera che il Papa ha scritto al nuovo prefetto per la Dottrina della fede, allegata nel bollettino che ne annunciava la nomina. Inusuale per i metodi, la franchezza del testo e le citazioni usate: tutte tratte dai documenti del pontificato corrente.
E’ il ribaltamento della linea ratzingeriana, la sconfessione di quel solenne e fragoroso monito che l’allora decano diede ai cardinali in San Pietro poco prima di chiudere la porta della Sistina per il Conclave di diciotto anni fa. La Barca che va di qua e di là, sballottata dai venti di dottrina, il relativismo che s’insinua minaccioso. Fine della storia, si cambia. Francesco scrive chiaramente che possono essere godibili anche questi refoli apparentemente ostili e fastidiosi, che non bisogna avere paura di ciò che sembra brutto e minaccioso. E’ tutto legittimo, non c’è un assalto al depositum fidei. Semplicemente c’è una svolta, una delle tante che la Chiesa ha già conosciuto nella sua bimillenaria storia. Certo, Fernández fa sapere che gestirà le cose “a modo mio”, e ciò può inquietare, visto che non si tratta della gestione di un albergo, ma della dottrina della fede. Il problema è: svolta per andare dove? Si dice – e il Papa l’ha scritto nella lettera d’incarico pubblicata contestualmente all’annuncio della nomina del titolare del fu Sant’Uffizio, che è tempo di abbandonare i “metodi immorali” del passato, che bisogna archiviare le rigidità che hanno allontanato tante persone da Madre Chiesa, spesso sconcertando e deludendo il Popolo di Dio, infallibile in credendo. Abbracciare, curare, rendere dogma l’ospedale da campo che cura i malati e non i sani. Il tutto è evangelico, semplice, giusto. La realtà, però, dimostra che proprio laddove più la Chiesa s’è mostrata dedita ai maquillage, ai cambiamenti per rendersi più “attraente”, annacquando non di rado il Messaggio come sempre è stato trasmesso (la fede dei piccoli, sì, ma anche quella delle nonne e delle bisnonne), la sofferenza è maggiore. Si torna sempre lì, al punto che più minaccia Roma: la Germania. L’esodo dei fedeli ha raggiunto cifre record, vuoi per lo scandalo degli abusi, vuoi per l’insostenibilità della tassa per i battezzati. Ma la Chiesa del Cammino sinodale che vorrebbe avvicinarsi alla gente, benedicendo le coppie omosessuali, rivalutando il celibato sacerdotale e aprendo all’ordinazione delle donne, sta seguendo la strada già intrapresa decenni fa dal luteranesimo. La strada che porta prima alla marginalizzazione, poi all’insignificanza (numerica e di ruolo), infine all’estinzione. Siamo proprio sicuri che il Popolo di Dio, oggi, voglia una Chiesa che si diluisce nel mondo e che assume, sempre meno a macchia di leopardo nei diversi contesti territoriali, le sembianze di quella “ong” tanto deprecata dal Papa? In questo senso, molto lo dirà il grande Sinodo sulla sinodalità che aprirà la sua fase romana in autunno. Un Sinodo che, quanto a vastità del programma e delicatezza dei contenuti, pare in tutto un mini Vaticano III chiamato a determinare – o a cercare di farlo – una rotta per i decenni che verranno.
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