Pechino decide, il Papa esegue
La nomina del vescovo di Shanghai mostra la debolezza dell'Accordo segreto fra Vaticano e Cina
il Pontefice ha proceduto alla nomina di mons. Giuseppe Shen Bin, che si era già installato nella più importante diocesi cinese da tre mesi, quando la sua nomina fu decisa unilateralmente dal Consiglio dei vescovi cinesi
Che l’Accordo provvisorio relativo alla nomina dei vescovi stipulato nel 2018 fra la Santa Sede e la Cina fosse precario, non è un mistero. La Segreteria di stato, stando a quanto più volte detto dal suo titolare, il cardinale Pietro Parolin, avrebbe voluto qualche modifica nel quadriennio che ha portato al suo secondo rinnovo, lo scorso ottobre. Ma a premere sull’acceleratore è stato il Papa in persona, da sempre il più tenace sostenitore dell’intesa: “L’accordo va bene e mi auguro che a ottobre si possa rinnovare”, aveva tagliato corto Francesco un anno fa intervistato dalla Reuters. E così è andata.
Sabato scorso, la Sala stampa vaticana ha comunicato che il Pontefice ha proceduto alla nomina del nuovo vescovo di Shanghai, mons. Giuseppe Shen Bin, trasferendolo dalla sede di Haimen, nello Jiangsu. Mons. Shen, in realtà, era già installato nella più importante diocesi cinese da tre mesi, quando la sua nomina fu decisa unilateralmente dal Consiglio dei vescovi cinesi, organismo che la Santa Sede non riconosce. Roma era stata informata solo pochi giorni prima, come ammise il direttore della Sala Stampa vaticana, manifestando l’irritazione vaticana. Ora è il Papa stesso a certificare la nomina.
Mons. Giuseppe Shen Bin è una figura organica al Partito, tanto da essere presidente della Conferenza episcopale cinese, emanazione anch’essa del governo comunista. Che la ratifica papale sia problematica lo dimostra l’intervista che i media vaticani hanno realizzato con il cardinale Parolin ontestualmente all’annuncio della nomina. Il segretario di stato dice che se è vero che ci sono problemi, “le ragioni del dialogo sembrano a me ancora più forti. In effetti, il dialogo tra la Parte vaticana e la Parte cinese resta aperto e io credo che si tratta di un cammino in qualche modo obbligato”. Tuttavia, riconosce che la ratifica papale, stavolta, è sì fatta nello spirito del dialogo, ma che è forzata: “Questo modus procedendi pare non tenere conto dello spirito del dialogo e della collaborazione instauratisi tra la Parte vaticana e la Parte cinese negli anni e che ha trovato un punto di riferimento nell’Accordo”. Anche perché, nello scorso autunno, Pechino aveva proceduto all’installazione di mons. Giovanni Peng Weizhao, vescovo di Yuijang, come ausiliare di Jiangxi. Trasferimento che era avvenuto senza consultare Roma. Nel caso di Shanghai, il Papa ha deciso – dice Parolin – “di sanare l’irregolarità canonica creatasi a Shanghai, in vista del maggior bene della diocesi”. L’intenzione di Francesco è “fondamentalmente pastorale” e finalizzata a promuovere la comunione ecclesiale. Però, e il segretario di stato lo sottolinea, “noi speriamo che egli possa, d’intesa con le autorità, favorire una soluzione giusta e saggia di alcune altre questioni pendenti da tempo nella diocesi”. Insomma, non pare proprio che l’accordo vada bene, come assicurò il Papa un anno fa. Però, il bene superiore è la volontà di non rompere con Pechino. Il ragionamento di Roma è semplice: se si vuole porre le basi di un dialogo fattivo con la Cina, non si può prescindere da concessioni alla controparte. Che non è mai parsa molto interessata al parere del Papa. Ancora una volta, quella della Santa Sede è una politica realista. Si lamenta ancora una certa distanza, tant’è che Parolin auspica “l’apertura di un ufficio stabile di collegamento in Cina” che “favorirebbe non solo il dialogo con le autorità civili, ma contribuirebbe pure alla piena riconciliazione all’interno della Chiesa cinese e al suo cammino verso una desiderabile normalità”. La speranza, però, è che Pechino faccia il suo, ricordandosi che nel 2018 ha firmato un Accordo che le impone precisi obblighi.