Pechino si sceglie i vescovi? Per il prof. Giovagnoli va bene così
Lo storico juniore di Sant'Egidio ci ricasca. Anni fa suggerì ai dimostranti di Hong Kong di smetterla perché il loro destino "è la Cina", oggi plaude all'imposizione del vescovo di Shanghai
In un articolo, lo storico della Cattolica cita le affermazioni del segretario di stato a sostegno dell'Accordo segreto. Non tutte però. Si dimentica dei passaggi in cui Parolin critica apertamente l'atteggiamento della Parte cinese
Roma. Il professor Agostino Giovagnoli è da sempre uno dei più ferventi sostenitori dell’intesa tra la Santa Sede e la Cina. Non è solo un osservatore attento a quel che accade in oriente, ma un simpatizzante della causa di Pechino. Anni fa, era l’autunno del 2019, dinanzi alle violenze nelle strade di Hong Kong (i dimostranti chiedevano solo di non finire sotto il tacco del regime comunista, volevano il mantenimento della libertà di cui avevano sempre goduto, non reclamavano colpi di stato né assaltavano vetrine di rinomati brand di moda) scrisse su Cattolica News che sì, quei giovanotti destavano simpatia, ma insomma, il destino di Hong Kong è la Cina e sarebbe stato opportuno che si rassegnassero all’ineluttabilità dei fatti. Ora, sul sito Formiche, Giovagnoli contesta chi ha osservato che il Papa ha proceduto alla nomina del vescovo di Shanghai tre mesi dopo che quest’ultimo era stato scelto e installato dalle autorità comuniste, dando un brevissimo preavviso a Roma – quasi di cortesia, insomma – come peraltro osservò il direttore della Sala stampa vaticana, lamentando un certo fastidio per quanto accaduto. La tesi del professore è che Giuseppe Shen Bin (il vescovo nominato) “è un pastore stimato”, secondo la definizione data dal cardinale segretario di stato, Pietro Parolin. “La Santa Sede, dunque – prosegue lo storico juniore di Sant’Egidio – ne ha un buon giudizio e non sembra forzato pensare che non sia contrara alla sua scelta come vescovo di Shanghai”. Quindi, la sentenza: “Se si guarda alla persona, insomma, non si vede la vittoria di Pechino sulla Santa Sede”.
Non importa dunque se mons. Shen Bin è stato scelto e messo a Shanghai dal Partito, lasciando al Papa solamente l’alternativa drammatica o firmi o spacchi tutto, no. Conta che il vescovo è un brav’uomo. Certo, scrive lo storico, “in questo trasferimento unilaterale c’è stato un problema di grande rilevanza per i rapporti tra le due parti, ma in primo luogo non è senza significato che il Papa abbia poi nominato Shen Bin vescovo di Shanghai”. E quindi? Si torna al punto di partenza: cosa avrebbe dovuto fare Francesco? Rifiutare la firma mandando al macero l’Accordo da lui voluto a tutti i costi anche quando la Segreteria di stato auspicava modifiche e aggiustamenti perché non fosse totalmente sbilanciato dalla parte di Pechino? E’ il campo dell’irrealtà. I fatti sono semplici: il Partito ha scelto, la Santa Sede ha obtorto collo ratificato. “La nomina è stata ben accolta”, nota compiaciuto Giovagnoli. E ci mancherebbe altro, visto l’iter. Il suggerimento dato dallo storico è di lasciar perdere i princìpi, perché “l’esperienza insegna che spesso le rivendicazioni astratte di sovranità sono sterili e controproducenti. Meglio puntare a un obiettivo concreto, come indicato dal cardinale Parolin nell’intervista: convincere la controparte a non imporre più unilateralmente simili trasferimenti, anche perché non risponde al vero interesse cinese”.
E il fatto che mons. Shen Bin sia stato nominato inizialmente dal Collegio dei vescovi cattolici cinesi, che la Santa Sede non riconosce perché emanazione del Partito? Nessun problema, anzi: “La Sala stampa vaticana lo cita in un documento ufficiale. La spiegazione si trova nella parte dell’intervista in cui il card. Parolin dice: ‘La Santa Sede desidera veder crescere la responsabilità dei vescovi nella guida della Chiesa in Cina, e per questo è necessario che is possa riconoscere quanto prima una Conferenza episcopale dotata di statuti adeguati”. Per Giovagnoli, ecco il punto: la conferenza c’è già, e pazienza se è quella dei maggiorenti comunisti: “Come in altri casi, creando questo ‘Collegio’ le autorità cinesi hanno cercato di prevalere sulla Santa Sede. Ma di fatto, senza volerlo, hanno posto le fondamenta di un organismo che va nella direzione auspicata da Roma: quella che i vescovi cinesi guidino la Chiesa in Cina”. E “anche se realizzata attraverso un percorso a dir poco irregolare, la costituzione di una vera Conferenza episcopale – e cioè “con altri statuti” – sarebbe una vittoria per entrambe le parti, senza nessun perdente”.
Quel che il professore non dice, pur tra le mille citazioni del segretario di stato – che a ogni occasione utile non fa mistero della precarietà dell’Accordo tanto da averne auspicato più volte modifiche e aggiustamenti – è che secondo Parolin “questo modus procedendi pare non tenere conto dello spirito del dialogo e della collaborazione instauratisi tra la Parte vaticana e la Parte cinese negli anni e che ha trovato un punto di riferimento nell’Accordo”.