(foto Getty)

La tormentata alleanza fra Israele e il Vaticano

Le dure accuse del governo alla Santa Sede, le dichiarazioni del segretario di stato, le aperture del Papa. Prospettive di una relazione buona ma mai davvero eccellente

Matteo Matzuzzi

La strage dei kibbutz riporta alla luce vecchie tensioni fra la Santa Sede e lo Stato d'Israele. Un rapporto in cui si mischiano politica, fede e antichi pregiudizi. Al di là delle intese ufficiali, restano forti i sospetti reciproci

Getta acqua sul fuoco l’ambasciatore d’Israele presso la Santa Sede, Raphael Schutz, che ad Avvenire fa sapere quanto gradita sia la “netta condanna di Hamas” pronunciata dal cardinale Pietro Parolin, segretario di stato. Aggiunge che i contatti con gli uffici d’oltretevere sono costanti, che si apprezzano parole e opere. Fino a un certo punto, però: “Quello che auspichiamo è una maggiore comprensione. Il nostro obiettivo è eradicare la presenza di Hamas nella Striscia di Gaza. Per questo ci vorrà tempo. Il che vuol dire che, a nostro modo di vedere, non è ora il momento di parlare di ‘de escalation’ o di pace”. Quindi, i paragoni: “Nessuno nel 1945 ha parlato di de escalation o di pace prima della liberazione dell’Europa. Hamas è come Hitler, vuole sterminare tutti gli ebrei e, per raggiungere i suoi obiettivi, sacrifica anche i suoi civili usandoli come scudi umani, si differenzia solo perché, fortunatamente, ha meno potenza militare della Germania nazista”.

 

Ma è proprio questo il problema: come può la Santa Sede non invocare la pace? Significherebbe andare contro la sua stessa natura, contro il cuore del messaggio evangelico. Sono stati giorni di tensione, a conferma di un rapporto – tra il Vaticano e Israele – da sempre complesso. Poche ore dopo il massacro nei kibbutz, sabato 7 ottobre, l’Ambasciata presso la Santa Sede avvertiva: “L’uso di ambiguità linguistiche e di termini che alludono a una falsa simmetria dovrebbe essere deplorato. Ciò che è successo oggi non può portare a una guerra, è già una guerra. La risposta di Israele in queste circostanze non può essere descritta altro che come un diritto di legittima difesa. Certamente non può essere descritta come aggressività. Tracciare parallelismi dove non esistono non è pragmatismo diplomatico, è semplicemente sbagliato”. Il giorno dopo, i Patriarchi e i Capi delle Chiese di Gerusalemme diffondevano un comunicato in cui si invocavano “pace e amore per tutta l’umanità”: “La Terra Santa, un luogo sacro per innumerevoli milioni di persone in tutto il mondo, è attualmente teatro di violenza e sofferenza a causa del prolungato conflitto politico e della deplorevole assenza di giustizia e rispetto dei diritti umani. Noi, Patriarchi e Capi delle Chiese di Gerusalemme, abbiamo ripetutamente lanciato appelli sull’importanza di rispettare lo status quo storico e giuridico dei santuari”. Ancora, “condanniamo inequivocabilmente qualsiasi atto che prenda di mira i civili, indipendentemente dalla loro nazionalità, etnia o fede. Tali azioni vanno contro i princìpi fondamentali dell’umanità e degli insegnamenti di Cristo, che ci ha invitato ad ‘amare il prossimo tuo come te stesso’”. Quindi, l’appello affinché “tutte le parti coinvolte prestino ascolto a questo appello per una cessazione immediata della violenza. Imploriamo i leader politici e le autorità a impegnarsi in un dialogo sincero, cercando soluzioni durature che promuovano la giustizia, la pace e la riconciliazione per la popolazione di questa terra, che ha sopportato il peso del conflitto per troppo tempo”.

 

Ventiquattr’ore dopo, ecco la risposta dell’Ambasciata, con un’altra Nota, assai più dura nei toni del primo: “Nel nostro precedente comunicato abbiamo menzionato l’immoralità dell’uso dell’ambiguità linguistica. Molti non hanno avuto difficoltà a capirlo e hanno condannato l’orrendo crimine, nominando i suoi autori e riconoscendo il diritto fondamentale di Israele a difendersi da queste atrocità. In questo contesto è estremamente deludente e frustrante leggere il testo pubblicato dai Patriarchi e capi delle Chiese di Gerusalemme. Tale comunicato è affetto dalla stessa immorale ambiguità linguistica sopra menzionata. Dalla sua lettura non si riesce a capire cosa sia successo, chi fossero gli aggressori e chi le vittime. E’ particolarmente incredibile che un documento così arido sia stato firmato da persone di fede”. Quindi la chiosa, estranea al bon-ton diplomatico: “Non è fuori contesto che oggi avrà inizio presso l’Università Gregoriana un convegno di tre giorni sui documenti del pontificato di Papa Pio XII e sul loro significato per le relazioni ebraico-cristiane. A quanto pare, qualche decennio dopo, c’è chi non ha ancora imparato la lezione del recente passato oscuro”.

 

Eppure, proprio il principale esponente della gerarchia cattolica in Terra Santa, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca latino di Gerusalemme, era stato chiarissimo nella condanna di quanto accaduto il 7 ottobre: “Sono barbarie ingiustificabili, inaccettabili, moralmente da rifiutare. Esprimiamo solidarietà alle famiglie che hanno perso queste persone condannando in maniera inequivocabile una cosa del genere che non ha comprensione in un contesto cristiano e soprattutto umano”, aveva detto a Tv2000, il canale televisivo della Cei. Ma Pizzaballa si era spinto anche oltre, quando alla domanda se si potesse qualificare il massacro come terrorismo islamico, aveva risposto che “c’è qualcosa nel mondo islamico che nutre un pensiero di questo genere. Lo abbiamo visto in Siria e Iraq. Pensavamo di non vederlo qui ma invece è accaduto. C’è certamente una dimensione di odio profondo da parte di Hamas nei confronti di Israele e tutto ciò che è ebraico. Ma questo non è giustificabile. Il dolore dei palestinesi non può giustificare una cosa del genere”. E fin da subito anche il Papa è stato chiaro, arrivando a dire – dopo aver chiesto l’immediata liberazione degli ostaggi rapiti – che “è diritto di chi è attaccato difendersi”. Restava però un’insoddisfazione da parte israeliana, perché accanto alla condanna chiara di quanto accaduto per mano dei terroristi di Hamas, veniva espressa la preoccupazione “per l’assedio totale in cui vivono i palestinesi a Gaza, dove pure ci sono state molte vittime innocenti”. E’ il riferimento alla sofferenza di chi nella Striscia ci vive che non andava bene. O meglio, è l’inserire tale riferimento nella stessa frase in cui si denuncia l’azione del 7 ottobre.

 

Ha fatto rumore la nota del ministro degli Esteri, Eli Cohen, che poche ore dopo aver avuto una conversazione telefonica con il segretario per i Rapporti con gli Stati, mons. Paul Richard Gallagher, faceva pubblicare un comunicato durissimo in cui contestava la posizione della Santa Sede: “Ci aspettiamo che la Santa Sede esprima una inequivocabile e chiara condanna degli atti omicidi terroristici perpetrati dai terroristi di Hamas che hanno causato gravi danni a bambini, donne e anziani solo perché ebrei e israeliani. E’ inconcepibile che un annuncio che esprima preoccupazione soprattutto per gli abitanti di Gaza venga diffuso nello stesso momento in cui Israele seppellisce 1.300 cittadini assassinati e una vasta popolazione vive sotto continui attacchi missilistici. Israele sta combattendo una guerra che gli è stata imposta e continuerà a combattere Hamas finché non rappresenterà più una minaccia per i cittadini israeliani. Questo viene fatto a beneficio del mondo intero”. La Segreteria di stato, però, ha mantenuto ferma la linea, che poi è quella di sempre: condanna immediata e assoluta del terrorismo e appello per risparmiare sofferenze ai civili.

 

Non è cerchiobottismo, quanto realismo (se non si vuole leggere la vicenda con mero spirito evangelico): tra gli arabo-israeliani ci sono cristiani e tra questi anche cattolici, non animati da intenzioni violente. I rapporti, buoni ma mai davvero eccellenti, si sono complicati dopo l’insediamento del nuovo governo israeliano, cui è seguita quella che la Custodia di Terra Santa ha definito una “sequenza crescente di gravi atti di odio e di violenza” e – specificava – “non è un caso che la legittimazione della discriminazione e della violenza nell’opinione pubblica e nell’attuale scenario politico israeliano si traduca poi anche in atti di odio e di violenza contro la comunità cristiana”. Gli episodi, dopotutto, sono numerosi. All’inizio dell’anno un “estremista ebreo” – così fu definito – entrò nella chiesa della flagellazione, nella Città vecchia di Gerusalemme, e gettò a terra la statua di Cristo, accanendosi su di essa. Pochi giorno dopo, un gruppo di ebrei ortodossi aveva trasformato il quartiere cristiano in un campo di battaglia, scagliando sedie e tavoli in strada. Poi era stato vandalizzato un cimitero cristiano, quindi sul muro perimetrale del monastero armeno era apparsa la scritta “Morte ai cristiani”. Il tutto intervallato da manifestazioni, insulti, cori blasfemi. Fino agli sputi della settimana scorsa, secondo alcuni conformi a presunte disposizioni religiose che obbligavano a insultare i cristiani; regole che il rabbino capo d’Israele, David Lau, ha smentito, condannando ogni offesa ai leader religiosi e assicurando che “continueremo a pregare per loro e a rispettare tutte le nazioni che vengono a onorare la Città santa di Gerusalemme. Questi fenomeni immorali non hanno nulla a che fare con la legge ebraica”. Lo stesso ministro degli Esteri, Cohen, chiariva: “Condanno il brutto fenomeno dello sputare sui cristiani e del nuocere a qualsiasi persona a causa della sua religione o del suo credo”. Sono tutti elementi che hanno portato un attento osservatore delle questioni d’oltretevere come l’americano John Allen a scrivere su Crux che “le tensioni tra Israele e i leader cristiani della regione sono inevitabili, dato che la popolazione cristiana è in gran parte araba e palestinese, e quindi tende a considerare le politiche israeliane allo stesso modo della più ampia popolazione palestinese”. Allen va oltre ed è convinto che, man mano che il conflitto andrà avanti, “la posizione del Vaticano diventerà sempre più allineata con quella dei patriarchi, anche perché lo stesso cardinale Pizzaballa ha fatto notare che ‘molte case cristiane sono state distrutte a Gaza non come obiettivo primario, ma come cosiddetto danno collaterale”. Il punto è che, ha aggiunto, “semplicemente il Vaticano non è gli Stati Uniti, dove il sostegno a Israele è una pietra miliare bipartisan della politica estera. Storicamente, il Vaticano ha sempre sostenuto una soluzione a due stati per il conflitto israelo-palestinese e, in qualità di più piccolo stato del mondo, ha sempre provato una naturale simpatia per i palestinesi”.

 

Eppure la questione dei due stati era stata messa in dubbio non più tardi di un anno fa da un argomentato articolo scritto dal gesuita David Neuhaus (docente al Pontificio Istituto biblico di Gerusalemme) pubblicato sulla Civiltà Cattolica. Scriveva Neuhaus che “a 75 anni dalla decisione di ripartire la Palestina, ci si pone la domanda: la soluzione dei due stati è ancora plausibile?”. Oggi, proseguiva, “sembra poco realistica. Se nella realtà odierna non è possibile ritagliare due stati vitali, sovrani e sicuri, la ripartizione non porterà alla giustizia e alla pace, tanto desiderate, tra israeliani e palestinesi”. Dopotutto, faceva notare, già “nel maggio del 2019 i vescovi cattolici di Terra Santa hanno proposto una visione del futuro che non si limiti all’idea della ripartizione: ‘Chiamiamo i cristiani in Palestina-Israele a unire le loro voci con ebrei, musulmani, drusi e tutti coloro che condividono questa visione di una società basata sull’uguaglianza e sul bene comune, e a invitare tutti a costruire ponti di mutuo rispetto e amore”. Ma è stato il segretario di stato della Santa Sede pochi giorni a fa a escludere mutamenti alla linea vigente, in un’intervista concessa ai media vaticani: “A me sembra che la maggiore giustizia possibile in Terra Santa sia la soluzione di due stati, che permetterebbe a palestinesi e israeliani di vivere fianco a fianco, in pace e sicurezza, venendo incontro alle aspirazioni di gran parte di essi. Questa soluzione, che è prevista dalla Comunità internazionale, ultimamente è sembrata ad alcuni, sia da una parte che dall’altra, non più realizzabile. Per altri non lo è mai stata. La Santa Sede è convinta del contrario e continua a sostenerla. Adesso, però, cosa è giusto? E’ giusto che gli ostaggi vengano riconsegnati subito, anche quelli che Hamas detiene dagli scorsi conflitti”.

 

Non è un compito facile, quello della Segreteria di stato, che si trova a dover da un lato preservare i rapporti diplomatici stretti trent’anni fa e dall’altro a dover prestare ascolto alla voce delle Chiese locali che sottolineano la difficile condizione dei propri fedeli (palestinesi). Vent’anni fa, il cardinale Achille Silvestrini, già prefetto della congregazione per le Chiese orientali, diceva che “non è facile discutere il tema delle relazioni tra Israele e il Vaticano. Da un lato, ovviamente, è una relazione internazionale e diplomatica. D’altra parte, le due parti sono uniche: il rapporto tra i due non può essere paragonato ad esempio al rapporto tra Francia e Spagna. Stiamo parlando della Santa Sede, che è l’espressione della più alta autorità della Chiesa cattolica (una realtà religiosa). E stiamo anche parlando dello Stato di Israele: uno stato che a livello internazionale è uno stato come un altro, ma che allo stesso tempo ha un carattere speciale nella misura in cui la sua nascita era collegata al ritorno del popolo ebraico nella sua terra ancestrale (di nuovo, una realtà religiosa). Anche solo sulla base dell’unicità delle due parti si può intuire la complessità del loro rapporto, di cui il rapporto diplomatico è l’atto formale e conclusivo, ma un atto che è stato preceduto da una lunga storia”. Vent’anni fa, sulla rivista “Diritto e Libertà”, Vittorio Emanuele Parsi si soffermava sulle relazioni bilaterali: “La politica vaticana nei confronti del conflitto mediorientale si può davvero definire imparziale? Pur riconoscendo che persistono pregiudiziali pro arabe in taluni esponenti anche di spicco delle gerarchie pontificie, mi pare che sarebbe più opportuno partire dal concetto di equilibrio invece che da quello di imparzialità. Riguardo al conflitto arabo-israeliano-palestinese la linea politica del Vaticano è stata e resta orientata da un principio cardine e ampiamente sperimentato nella tradizione della Chiesa: ovvero l’attenzione ai popoli e non ai governi. Non può sfuggire a nessuno, ed evidentemente non sfugge alla Santa Sede, che la situazione attuale è caratterizzata dall’esistenza di uno stato ebraico e dall´inesistenza di uno stato palestinese”. Aggiungeva che “a rendere lontane le posizioni del Vaticano e di Israele non è tanto la questione del punto di arrivo di un processo di pace che ambedue le parti ritengono necessario. Neppure a Gerusalemme si ricorre più a elaborati giri di parole per riconoscere che, presto o tardi, accanto allo stato ebraico dovrà prendere forma lo stato palestinese. Ciò che divide sono soprattutto le modalità attraverso le quali raggiungere un tale auspicabile risultato, e gli interlocutori che Israele ritiene ‘validi’ e ‘collaborativi’”. Un quarto di secolo più tardi, poco sembra essere cambiato.

Di più su questi argomenti:
  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.