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Ha senso una Chiesa che si fa ambientalista e crocerossina?
I giovani non sono atei, ma indifferenti al fatto religioso. Che Dio esista o meno, non è un loro problema. Il problema di trovare la fede in una Chiesa che, tra lotta ambientalista e umanitaria, offre quel che già dà loro il mondo
Sui tavoli dei vescovi s’affastellano studi, ricerche e sondaggi: il refrain è lo stesso da tempo – da qualche decennio, va detto per evitare subito d’essere penosamente infilati nella lista nera dei cosiddetti antibergogliani –, la gente in chiesa non ci va più. Le messe si diradano e se una volta le parrocchie rivedevano orari e funzioni perché “non ci sono preti”, adesso il ragionamento si fa più sofisticato: si tagliano celebrazioni perché non ci sono più fedeli. D’inverno fa freddo, almeno al nord, e non ha senso tenere aperte chiese e pagare salate bollette del riscaldamento per i cinque-sei anziani che partecipano alle messe feriali. Quelle domenicali resistono, ma sempre più si accorpano, una volta qui e una volta là all’interno di foranie, decanati e vicariati. E’ di moda lo slogan “meno messe, più messa”, per dire che ormai non ha più senso celebrare per una decina di persone senza coro, senza lettori adeguatamente formati, senza chierichetti. Meglio una celebrazione in meno ma più curata che faccia davvero sentire quel sensus ecclesiae auspicato e auspicabile.
I numeri sono noti, ogni indagine approfondita negli ultimi anni non fa che ribadire quanto già si sa ma che è sempre utile ribadire per comprendere fino in fondo la portata della questione. Secondo, ad esempio, un’indagine del Timone pubblicata in estate, in Italia i non credenti sono ormai più di un terzo della popolazione (il 37 per cento), mentre i praticanti – cioè quelli che, credendo, vanno a messa – sono il 13,8 per cento. La tendenza è in calo costante. Non va meglio per gli altri sacramenti: tra i credenti che dicono di partecipare all’eucaristia almeno una volta al mese, si confessa almeno una volta all’anno solo il 33 per cento, mentre il 32 per cento non conosce il significato dell’eucaristia. L’ignoranza domina, perché meno di sei praticanti su dieci sanno cos’è la confessione e il 66 per cento non sa spiegare il significato di “resurrezione della carne”. Il peccato, poi, secondo il 20 per cento degli intervistati credenti, è “un semplice torto fatto agli altri”. Un’inchiesta simile del periodico cattolico Il Regno ha stimato che se a messa ci va il 40 per cento circa degli over 75, la cifra si contrae al 10 per cento degli under 30. Il paradosso – che entrambe le ricerche sottolineano – è che la grande maggioranza degli italiani prega, ogni giorno. Il problema è che lo fa fuori dalle chiese.
Sono dati interessanti perché offrono una prospettiva che va oltre la mera constatazione sul calo dei praticanti, problema che affonda le prime timidissime radici già alla fine degli anni Cinquanta – non c’entra il Concilio, bensì il rapido e per certi versi traumatico cambio di mentalità e di “mondo”, con la fine della cristianità segnata da rituali sacri che organizzavano la giornata profana. A emergere è l’ignoranza di fondo su quelli che possono essere definiti i “fondamentali” della fede. L’arrivo della tv in ogni casa, la riduzione delle distanze tra centro e periferie, la progressiva secolarizzazione che ha avvicinato l’Italia ai paesi dell’Europa centro settentrionale, che già da tempo vivevano situazioni di crisi – è sufficiente rileggere quanto scriveva il cardinale Suhard nel 1947 (“Essor ou déclin de l’Église”). Sono crollate le evidenze, la religione è diventata sempre più marginale fino a ridurre il catechismo a qualcosa di necessario prima per poter fare la prima comunione, poi qualcosa per ottenere la cresima e quindi fare da madrine/padrini e/o sposarsi in chiesa. Poi stop. E i corsi di catechismo con giochi, cartelloni da colorare, canzoni da cantare. Preghiere da mandare a memoria, poche. Un po’ come a scuola: anni fa ai bambini delle elementari veniva chiesto di studiare e ripetere l’Infinito leopardiano, ovviamente senza capirne una riga. Però quelli che l’hanno studiata decenni fa, la poesia se la ricordano ancora oggi.
Come riconquistare le giovani generazioni, dunque? La domanda ogni tanto torna fuori, se la fanno i bravi parroci che vedono solo teste canute davanti a loro la domenica e constatano che i bambini che girano in oratorio sono lì per lo più “depositati” dai genitori che non sapevano a chi affidarli. Al Sinodo sulla sinodalità di cui tutto si è parlato, dalla poligamia ai ministeri ordinati, il problema non sembra avere trovato ampio spazio, anche perché – va detto – ai giovani era stato dedicato un Sinodo ad hoc nel 2018. Che non pare però aver prodotto chissà quali risultati. In questi anni diversi sacerdoti si sono interrogati in merito, chi proponendo di andare a cercarli là dove vivono la loro quotidianità, chi dicendo che la Chiesa deve cambiare linguaggio, adattandosi anche a trovare spazio nella galassia di internet, sui social. Dopotutto, s’argomenta, Gesù ai pastori parlava di pecore, ai pescatori di pesci. Qualcosa è stato fatto, anche se la grande capacità degli esseri umani di dimenticare le cose brutte ha fatto sì che tanta dell’attenzione rivolta alla religione durante i mesi della pandemia ha prevalso. Il fatto fondamentale è che le nuove generazioni – ma, stando ai dati, anche quelle un po’ più mature, fino ai quarant’anni, non si dicono atee: si dicono indifferenti al fenomeno religioso. Il che è ben più grave. Colui che si definisce ateo, quantomeno si è interrogato sull’esistenza o meno di Dio. L’indifferente non sa che farsene di Dio: che ci sia o no, gli cambia poco. Lo si vede già in gran parte d’Europa e ora, com’è naturale che sia, anche l’Italia inizia ad adeguarsi al “comune sentire”.
Quel che manca nella ricerca delle gerarchie, nei convegni e cenacoli dove si fa teologia e pure sociologia, è una domanda: ma perché un ragazzo o una ragazza dovrebbe essere attratto da una Chiesa che offre loro quel che già offre il mondo? Un giovane che partecipa a una messa in cui l’omelia ruota attorno al cambiamento climatico, alla neve che in Sicilia non scende più, alle primavere secche di Roma, ai fiumi che prima mostrano i carri armati del primo conflitto mondiale e poi si gonfiano d’acqua e trascinano a valle rami e tronchi, cosa potrebbe trovare di nuovo e “diverso” in quel luogo? Argomenti interessanti, certo, ma che si sentono già dappertutto. La ricerca di senso – che pure tante indagini testimoniano come essere vera e diffusa – che possibilità ha di trovare risposte leggendo l’esortazione apostolica Laudate Deum, in cui Cristo salvatore non è mai menzionato e si citano uno dopo l’altro documenti dell’Onu sullo scioglimento dei ghiacciai e sul mezzo grado di temperatura in più rispetto ai secoli passati? A quel punto, anziché sorbirsi una messa di quarantacinque minuti, un ragazzo ancora tentennante prende in mano la borraccia di cartone dei Fridays for future. E avrebbe ragione.
Papa Francesco ammonisce fin dal principio del pontificato che la Chiesa non è una organizzazione non governativa: “La Chiesa non è un negozio, non è un’agenzia umanitaria, la Chiesa non è una ong, la Chiesa è mandata a portare a tutti Cristo e il suo Vangelo; non porta se stessa – se piccola, se grande, se forte, se debole, la Chiesa porta Gesù e deve essere come Maria quando è andata a visitare Elisabetta. Cosa le portava Maria? Gesù. La Chiesa porta Gesù: questo è il centro della Chiesa, portare Gesù!”, disse nell’ottobre del 2013, in un’udienza generale. Cita spesso Benson, il suo “Padrone del mondo”, come in Ungheria, lo scorso aprile. Un libro questo, che descrive un mondo in cui “ovunque si predica un nuovo ‘umanitarismo’ che annulla le differenze, azzerando le vite dei popoli e abolendo le religioni. Abolendo le differenze, tutte. Ideologie opposte convergono in una omologazione che colonizza ideologicamente”. Ma poi lo stesso Papa andrà a Dubai ai primi di dicembre come capo di stato, in occasione della Cop28. Domenica scorsa, al termine dell’Angelus, ha invitato a “pregare per la Conferenza sul clima”. Intervistato dal direttore del Tg1 Gian Marco Chiocci, ha detto: “Ricordo che quando sono andato a Strasburgo, al Parlamento europeo, e il presidente Hollande ha mandato la ministra dell’ambiente Ségolène Royal a ricevermi e lei mi ha chiesto: ‘Ma lei sta preparando qualche cosa sull’ambiente? Lo faccia prima dell’incontro di Parigi’. Io ho chiamato alcuni scienziati qui, che si sono affrettati, è uscito Laudato sì che è uscito prima di Parigi. E l’incontro di Parigi è stato il più bello di tutti. Dopo Parigi tutti sono andati indietro e ci vuole coraggio per andare avanti in questo. Dopo Laudato si’ hanno chiesto appuntamento cinque funzionari importanti nel campo petrolifero. Tutti per giustificarsi… ci vuole coraggio. Un paese che è un’isola nell’oceano Pacifico sta acquistano terre in Samoa per traslocarsi perché in venti anni non esisteranno più perché il mare cresce. Ma noi non crediamo a questo. Siamo ancora in tempo a fermarci. E’ in gioco il nostro futuro. Il futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti”. Parla della plastica nei mari, scrive che la causa antropica dei cambiamenti climatici non può essere discussa, elevando di fatto a dogma un parere su cui non v’è neppure l’assoluta e unanime concordanza degli scienziati. Ma è compito della Chiesa intestarsi battaglie sul cambiamento climatico, entrando in discussioni integralmente scientifiche?
Così facendo, la Chiesa non si presta proprio all’accusa di essere nulla di più o di diverso da una delle tante ong che si occupano del tema? Si torna alla domanda di prima: come fa un giovane a trovare la fede (e a farla maturare) se dai pulpiti si parla di tutto ciò che fa parte del dibattito extra ecclesiale? Di ghiacciai e pioggia ne discute Greta Thunberg, si fanno anche interessanti simposi, vi sono encomiabili associazioni. La Chiesa non dovrebbe puntare a salvare anime e a diffondere il Vangelo, specie in periodi di prova come questo? La replica è che è dovere dell’uomo custodire il creato, il che è vero. Fino al punto da giustificare le azioni dei “gruppi detti ‘radicalizzati’” che “in realtà occupano un vuoto della società nel suo complesso, che dovrebbe esercitare una sana pressione, perché spetta ad ogni famiglia pensare che è in gioco il futuro dei propri figli” (Laudate Deum, paragrafo 58)? Rémi Brague già da tempo guarda con sospetto questa “ecologia profonda che sogna di sacrificare l’uomo alla Terra, assurta a una sorta di divinità”. Oggi nelle diocesi, per rimanere solo a quelle italiane, si organizzano marce tra gli alberi, incontri con Carlin Petrini. In Vaticano si ricevono settemila bambini e con loro si canta “Bellomondo”, canzone che ricorda a tutti quanto grave sia la situazione: “Fabbriche chimiche sputano fumo / Il cielo si ammala ed è sempre più scuro / Mentre gli aerei sorvolano la città / Stufe che bruciano quando fa freddo / Quando fa caldo mi metto il cappotto / Tutta quest’aria malata ci ucciderà / Le api che muoiono negli alveari / I ciclamini son sempre più rari / Compri e ricompri ma cosa ti resterà? / L’aria si scalda ed il cielo si arrabbia / Venti furiosi, tempeste di sabbia / Casca la terra, che cosa succederà? In che cosa si distingue dunque la Chiesa da una ong? Se manca il riferimento a Cristo, che cosa resta? Si possono fare mille e più indagini, si possono studiare riforme burocratiche di diocesi e parrocchie, ma se non si parla di Gesù, è complicato pensare che il tiepido adolescente del XXI secolo possa innamorarsi del fatto cristiano.
La Chiesa di oggi è impegnata in mille e più faccende, tutte serie: il clima, le guerre, il dialogo ecumenico (un po’ meno) e interreligioso, i poveri e i migranti. Ma la sua ragion d’essere? Qual è la risposta al bisogno di senso che c’è e che aspetta d’essere scoperto e ascoltato? Diceva tre anni fa mons. Franco Giulio Brambilla, teologo e vescovo di Novara: “La Chiesa di domani sarà forse apprezzata come crocerossa dei mali dell’umanità, ma il Vangelo di Gesù le chiede molto di più: di essere casa e scuola della comunione, spazio dei liberi legami, tessuto di fraternità, dove uno è accolto per camminare insieme e costruire un destino di vita nella casa comune. Sulla soglia del terzo decennio del secolo XXI s’impone una pausa di riflessione per riprendere con lena la strada”.