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Il Papa re toglie casa e stipendio ai cardinali “divisivi”, ma il risultato sarà di dar fuoco alle polveri
L'effetto boomerang dopo la "punizione" comminata al cardinale Burke è dietro l'angolo, soprattutto in quegli Stati Uniti dove la frattura fra conservatori e progressisti è sempre più ampia e dolorosa. E in curia c'è anche chi dice: "E se domani un Papa di diverso orientamento facesse lo stesso con quelli che oggi sono in auge?"
Roma. Nei giorni scorsi il Papa ha confermato, tramite il suo biografo Austen Ivereigh, di aver deciso di sanzionare il cardinale Raymond Leo Burke, togliendogli casa e stipendio perché reo di usare tali fondi “per dividere la Chiesa”. La comunicazione l’ha data Francesco in persona, al termine della riunione interdicasteriale del 20 novembre (una sorta di Consiglio dei ministri della curia vaticana), senza dare ulteriori spiegazioni. Quel che ha voluto rimarcare, però, è di non aver mai definito Burke “mio nemico”, come apparso su diversi media. Il cardinale Burke, canonista di rango, fu chiamato a Roma da Benedetto XVI quattordici anni fa: per lui la carica di prefetto della Segnatura apostolica e la porpora cardinalizia. Francesco, poco tempo la sua elezione, prima lo escluse dall’allora congregazione per i Vescovi di cui era membro – durante il pontificato ratzingeriano la sua opinione era molto ascoltata per quanto riguardava le nomine episcopali negli Stati Uniti – quindi lo trasferì dalla Segnatura al poco più che onorifico incarico di sovrano patrono dell’Ordine di Malta. Da qui fu esautorato già nel 2017, in seguito a una battaglia interna all’Istituzione, con il Papa che gli impedì di fare alcunché nonostante avesse deciso di non rimuoverlo formalmente. Solo sei anni dopo, al compimento del settantacinquesimo anno d’età, fu data notizia della nomina del nuovo patrono, il cardinale ottantunenne Gianfranco Ghirlanda. Burke è quindi un emerito, fuori dai giochi di governo della curia, ma resta un punto di riferimento centrale per le realtà tradizionaliste e conservatrici.
Soprattutto negli Stati Uniti, dove gode di un seguito notevole e “rumoroso”, non solo tra i fedeli cattolici ma anche tra tanti vescovi che condividono con lui idee sullo stato della Chiesa e – in non pochi casi – gli devono anche l’elevazione all’episcopato. Proprio questo elemento fa sorgere la prima domanda sulla mossa di Francesco: non rischia di allargare ancora di più la frattura che c’è nel cattolicesimo americano, tra una Chiesa che segue “l’agenda” papale e una che fatica anche solo a riconoscere in Jorge Mario Bergoglio il successore di san Pietro? Roma ha scelto una linea chiara: chi divide la Chiesa, è fuori. Un mese fa è toccato al vescovo di Tyler, Joseph Strickland, sollevato dalla guida pastorale della diocesi dopo essersi rifiutato di lasciare spontaneamente. Ora la mannaia cade sul cardinale Burke, con un provvedimento che – data la scarsità di spiegazioni, affidate per lo più a confidenti e biografi – sa molto di vendetta personale. Sarebbe bastato, forse, spiegare in modo articolato la genesi delle scelte e la loro ragione canonica. Anche perché la punizione sarà, nel caso, esclusivamente simbolica: Burke non avrà alcun problema a trovare un alloggio e fondi in grado di sopperire ai mancati introiti vaticani. Anzi, ha detto alla Nación il professor Massimo Faggioli, “Burke ora riceverà ancora più donazioni private dalle ricche famiglie cattoliche americane”. Di più, il rischio è che diventi un martire della “persecuzione”, il simbolo più importante di una Chiesa relativista che punisce chi dissente e – sempre nella lettura che in America sta già prendendo piede – vuole restare fedele alla dottrina di sempre. Un boomerang, dunque. Anche in curia, non sono in pochi quanti sono rimasti perplessi: se – come ha riportato la giornalista argentina Elisabetta Piqué, vicina al Papa – diversi cardinali hanno detto che il Papa è stato fin troppo buono e che avrebbe dovuto agire prima e con più durezza.
E cioè privando Burke dei diritti connessi al cardinalato, come capitato al confratello Giovanni Angelo Becciu. Altri la mettono su un piano diverso, più logico: e se un domani un Gregorio XVII togliesse casa e stipendio a un cardinale che promuove la benedizione delle coppie omoaffettive in aperto contrasto con il suo magistero? Insomma, il rischio è che il cardinalato diventi materia di contesa sulla base degli orientamenti papali: un po’ come nelle squadre di calcio quando un nuovo proprietario fa tabula rasa di allenatore e dirigenti. Se però si prende per buona la motivazione consegnata a Ivereigh, e cioè la necessità di punire chi mina l’unità della Chiesa, viene naturale domandarsi se non vi sia una sproporzione tra l’atteggiamento perennemente dialogante con i vescovi tedeschi manifestamente disobbedienti all’autorità papale e quanto invece deciso su Burke. Americani conservatori e tedeschi progressisti “terranno conto che se critichi il Papa ti guadagni il licenziamento, mentre un’apparente disobbedienza dottrinale merita solo una dura lettera” di rimprovero, ha scritto sul New York Times Ross Douthat. Il risultato più probabile sarà un ulteriore irrigidimento dei fronti sulle rispettive posizioni. I vescovi rimossi godranno di seguito sui social, scriveranno libri, parleranno ovunque. E la minoranza si sentirà perseguitata, e per di più dal Papa che qualcuno oltretevere, paragonandolo a Pio XI, noto per il suo carattere a tratti irascibile, definisce “Rex tremendae maiestatis”. Non sono più i tempi del cardinale Louis Billot, che “invitato” a rinunciare alla dignità cardinalizia nel 1927, visse gli ultimi anni della sua vita da tranquillo prete gesuita a Galloro.
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