Prospettive
L'Italia senza preti
Seminari chiusi e vocazioni in calo. È finito il modello del sacerdote amato e temuto, consigliere e confessore. Ma non c’è tempo per disperarsi, nuove idee maturano e si fanno largo per far fronte alla crisi e tornare alle origini
“Non dire: ‘Come mai i tempi antichi erano migliori del presente?’, perché una domanda simile non è ispirata a saggezza” (Qoelet 7,10)
“La mia parrocchia non si distingue in niente dalle altre parrocchie. Tutte si assomigliano. Le parrocchie dei giorni nostri, s’intende. La mia parrocchia è divorata dalla noia, è proprio ‘noia’ la parola giusta. Come tante altre parrocchie! La noia le divora sotto i nostri occhi e noi guardiamo impotenti. Un giorno forse ne subiremo il contagio, scopriremo dentro di noi questo cancro. Si può vivere molto a lungo con una roba così”. Sono le prime, sconsolate pagine, del Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos. Noia, noia, noia. Le giornate tutte uguali, i fedeli sempre gli stessi che dicono sempre le solite cose. Che tedio, sembra di perdere tempo, quasi di veder scappare via la propria esistenza terrena in attesa di quella, si spera gloriosa, nel più alto dei Cieli. La cristianità iniziava già a dare segni di cedimento, nel nord Europa già si facevano sentire i primi refoli di quel vento che sarebbe stato impetuoso più tardi, dopo la Seconda guerra mondiale, ma insomma: preti e cappellani erano presenti in ogni parrocchia, anche la più piccola in mezzo ai campi. Il prete confessore e consigliere, autorità massima insieme al medico, punto di riferimento ineludibile, per cattolici ferventi e pure, sotto sotto, per i mangiapreti.
Nel 2040, e non è neppure la previsione più pessimistica, nella diocesi di Milano i presbiteri saranno 1.055 rispetto ai 1.694 del 2022
Un secolo dopo, il quadro è diverso. Nel 2040, e non è neppure la previsione più pessimistica, nella diocesi di Milano i presbiteri totali saranno 1.055 rispetto ai 1.694 del 2022. Quelli sotto i quarant’anni – cui di norma è affidata la pastorale giovanile, cioè dove si cerca sovente disperatamente di non far scappare i neo cresimati – 84, con un calo del 56,7 per cento rispetto al 2022. Il numero di per sé non è bassissimo – altrove va assai peggio – ma è il segno che qualcosa non va, l’avviso che qualcosa è da cambiare in quella che il teologo Luca Bressan ha definito una “Chiesa obesa”, piegata da strutture e burocrazie che l’appesantiscono e rendono spesso infernale la vita del povero prete, che non è più il Don Abbondio di manzoniana memoria che aveva tempo per interrogarsi su chi fosse Carneade.
“Non vorremmo che emergesse l’idea di una Chiesa in ritirata, mesta, sulla difensiva, incapace di far trasparire la gloria dell’Altissimo. Tutt’altro”, scrivono don Martino Mortola e don Paolo Brambilla in Un popolo e i suoi presbiteri. La Chiesa di Milano di fronte alla diminuzione dei suoi preti (Ancora), una fotografia chiarissima dello stato della Chiesa ambrosiana e sulle sue traiettorie future, ma che vale per gran parte dell’Italia, che sempre più s’avvicina ai numeri dell’Europa continentale. Insomma, niente campane a morto né profezie di sventura imminente: non è ancora il momento di vedere Milano trasformata nella Praga senza Dio con le sue magnifiche chiese trasformate in sale da concerto o, peggio, con i portoni perennemente chiusi. Però qualcosa va fatto. Di che cosa si parli lo fa capire bene Mortola invitando e auspicando un “discernimento necessario”. Scrive: “Se un prete di Milano fosse partito nel 2006 per la missione e ritornasse nel 2023, troverebbe molti cambiamenti. Molto probabilmente nella propria parrocchia non abita più il parroco, perché nel frattempo è stata creata una comunità pastorale; il prete di ritorno dalla missione non può più fare tesoro delle sue precedenti omelie perché è entrato in vigore un nuovo lezionario; il seminario in cui si è formato nel biennio teologico ora svolge altre funzioni e l’edificio dove ha svolto la formazione dopo l’ordinazione è diventato un lussuoso albergo e ospita le maggiori case di moda. Partecipando alla messa in parrocchia rimarrebbe sorpreso di come i volti siano cambiati poco. Probabilmente le stesse persone che lo avevano visto partire ora sono, con qualche capello bianco in più, quelle che partecipano alla messa e i posti vuoti di chi ormai vive nella gloria di Dio non sono stati riempiti da persone più giovani. Sul sagrato al termine della messa, quelle stesse persone gli racconterebbero che la vita della comunità non è più come prima, che il prete è sempre stanco e oberato di impegni, e che si è perso, specialmente nei più giovani, il senso di appartenenza”. Cristiani in diaspora, senza più punti di riferimento stabili. Che fare, dunque?
Il problema è la “Chiesa obesa”, piegata da strutture e burocrazie che l’appesantiscono e rendono spesso infernale la vita del povero prete
Gli autori presentano dati, stime, grafici, ipotesi: uno studio scientifico rigoroso, ma poi usano esempi pratici, affinché tutti possano prendere coscienza della situazione, anche al di fuori delle aule accademiche o dei saloni curiali: “Immaginiamo che il popolo di Dio della diocesi di Milano arrivasse oggi, da lontano, in terra ambrosiana e si stabilisse qui per vivere. Lo immaginiamo senza pastori, su un territorio che non ha alcuna struttura ecclesiale, cercando di vivere la sua fede. Se dopo qualche mese arrivassero gli attuali 1.600 presbiteri, sarebbero anzitutto accolti come un grande dono di Dio. Inoltre, con la fantasia e l’intraprendenza che li hanno sempre caratterizzati, inizierebbero a predicare, accompagnare e organizzare parrocchie e iniziative”. In una tale situazione “non si riproporrebbe certamente tutto quello che è stato fatto finora, ma il popolo di Dio non avrebbe da lamentarsi. Soprattutto, però, si realizzerebbe uno spazio di generatività. Dove si vedono passi possibili, dove si può pensare e sognare, dove si hanno energie da impiegare e si intravede che qualcosa può essere creato, la vita fiorisce. Fiorisce la vita della Chiesa e può fiorire la vita dei preti”.
Nessuna capitolazione della fede: semmai, “si tratta di prendere coscienza della fine di alcuni modi in cui è stata possibile la vita di fede finora”
Il paradosso, scrivono, “è che questa ricchezza la Chiesa la possiede già, insieme a tante, forse troppe, strutture e tradizioni”. E’ una “pellegrina impegnata in un lungo cammino, stanca del viaggio e con uno zaino da trenta chili sulle spalle. La donna è bella e atletica, ma lo zaino non le lascia scampo: tutte le energie sono consumate per portare le tante cose utili e belle raccolte lungo la strada”. E non ha che un desiderio: liberarsi di questo zaino. Metafora chiara: via le strutture fuori dal tempo, alleggerire per rendere la Chiesa più dinamica e presente, perché l’attuale strutturazione non è sostenibile. Bella e pure romantica, l’immagine del prete tridentino immerso nel popolo del piccolo centro abitato è superata. Non da bizze delle gerarchie, ma dal contesto sociale e demografico in cui siamo immersi: spopolamento di interi territori, nascite ridotte, popolazioni sempre più anziane e meno attive, calo inesorabile delle vocazioni. Ma la soluzione spesso tirata fuori dal cilindro, sostengono Mortola e Brambilla, e cioè l’accorpamento delle parrocchie affidandole a un parroco unico, è stata sì la più semplice e velocemente realizzabile, ma forse la più faticosa. C’è un ufficio, un prete che garantisce le celebrazioni (messe domenicali e funerali) e stop. Con la conseguente frustrazione del popolo fedele, che il prete di fatto non lo vede più. Un popolo che dovrebbe pure fare discernimento, “depurarsi” e riflettere sul fatto che il prete così come concepito dal Concilio di Trento è qualcosa non più attuabile nella società odierna. Il prete immerso tra la gente, presente da mane a sera, che conosce tutti dalla nascita alla morte. Presenza viva e attiva, uno di famiglia, insomma. Quadro idilliaco, pure romantico se si vuole. Ma buono per i libri di storia. Serve realismo. Non si tratta di vedere tutto nero, di deprimersi e di gridare ancora una volta al tramonto della fede, battendosi il petto e stabilendo che tutto è perduto e finito. No, scrivono Mortola e Brambilla: “Si tratta di rendere consapevole il popolo di Dio che non stiamo andando verso una capitolazione della fede”, semmai si tratta di prendere coscienza della fine di alcuni modi in cui è stata possibile la vita di fede finora”, anche perché “sono innumerevoli i periodi in cui la Chiesa ha visto, durante la propria storia, una contrazione”.
Ogni proposta torna sempre alla responsabilizzazione dei laici. Ma chi sono i laici? Da sessant’anni se lo chiedono tutti, con risposte variegate
Il lavoro presentato dai due giovani sacerdoti ambrosiani è originale perché non propone un cambiamento (o riforma, se si vuole) dovuto alla necessità di ridefinire le funzioni del laicato – ammesso che, finalmente, si riesca a definire cosa realmente sia – o, più aulicamente, di sviluppare una nuova “missionarietà”.
Qui c’è da fare i conti con la riduzione progressiva dei preti. Ce ne sono pochi e ce ne saranno sempre meno. Che fare allora? Aspettare che si giunga al punto di non ritorno quando neanche le messe domenicali potranno essere più garantite? Meglio di no. In sintesi: laddove è possibile, il parroco abbia un’unica parrocchia, grande e formata dall’unione di più parrocchie precedenti. Dove però questo non sarà possibile, si dovranno studiare forme di presenza alternative, fino alla possibilità che alcune comunità si gestiscano in modo autonomo. E qui l’idea è innovativa, sicuramente traumatica per un’Italia ancora abituata ad avere la chiesa sotto casa (anche se poi ci si entra solo a Natale e forse a Pasqua). Si tratta infatti, di trasformare le parrocchie rimaste senza parroco in comunità non parrocchiali ma ugualmente vive e presenti sul territorio. “Sarebbe questa la vera sfida per il laicato, chiamato non a sopperire alla mancanza dei presbiteri facendo in qualche modo ‘le cose del prete’, ma a vivere una vita evangelica che diventa missionaria in modo diverso dalla forma tipicamente parrocchiale”. Esperimento rischioso, tant’è che servono regole precise e progetti chiari per evitare derive, perché da decenni – almeno in Italia – si tenta di delineare e definire la figura del laico: importantissima, necessaria, perfino vitale. Ma che non s’è capito ancora bene cosa sia e di cosa si debba occupare. E’ il sacrestano? Il direttore del coro? Il responsabile delle letture durante la messa? Si banalizza, ma neppure troppo. Dopotutto, anni fa, l’ex presidente dell’Azione Cattolica, Paola Bignardi, scriveva che “il laicato, come l’insieme di coloro che vivono secondo lo stesso stile spirituale – il Concilio direbbe secondo la stessa vocazione – non esiste più”. Tranchant che più non si potrebbe.
In sostanza, i laici nelle parrocchie sono pronti a diventare reali collaboratori oppure devono accontentarsi di restare dei semplici esecutori? I preti italiani sono in grado di assumere il ruolo di registi, capaci di ascoltare, accogliere e valorizzare le diverse figure di laici presenti oppure è ancora egemone dentro di loro una concezione rigidamente gerarchica e clero-centrica?, si domandano gli autori. Certo, la soluzione più facile è posticipare. Lasciare alle future generazioni le valutazioni su quel che andrà fatto, probabilmente – ed è una profezia abbastanza facile – la constatazione di una struttura non più sostenibile. Tanto, si dice, per adesso ce la si fa, in qualche modo. Restare fermi, “attendendo che sia la storia a fare i cambiamenti”, appunto. Con il “rischio di giungere a situazioni così critiche in cui le trasformazioni saranno inevitabili e verranno attuate senza sufficiente riflessione”.
Insomma, scrivono gli autori a conclusione della loro accurata indagine, “a noi pare che sia ormai giunto il momento di rinunicare a ciò che non riusciamo più a sostenere, anche per attenzione verso i presbiteri, la cui fatica pastorale” è evidente. “La situazione è già complessa per molti di loro, e questo rende difficile generare alla fede e rischia di non mostrare come desiderabile il ministero ordinato”.
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