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Il passo falso di Papa Francesco
Era dai tempi dell'Humanae vitae di Paolo VI che non si registrava un'insurrezione così forte verso un documento approvato dal Papa, stavolta "Fiducia supplicans"
La disinvoltura del prefetto del dicastero per la Dottrina della fede, il cardinale Víctor Manuel Fernández, ha creato più di un problema in questa fase del pontificato. Non è solo l'Africa a ribellarsi contro il via libera alla benedizione delle coppie omosessuali, ma anche tanti vescovi che chiedono solo più calma e meno caos
La domanda che più d’un vescovo italiano si fa, a qualche settimana di distanza dalla pubblicazione di Fiducia supplicans, è quante siano davvero le coppie che cercano una benedizione in chiesa alla loro unione. La domanda è retorica perché la risposta è scontata: poche, pochissime. E dunque, l’interrogativo conseguente che sorge naturale è se ci fosse davvero bisogno di un documento del genere in questo particolare momento, che ha avuto l’effetto di dividere ulteriormente una Chiesa già divisa, palesando fratture per lo più note, ma che non erano emerse tutte in superficie. L’elenco delle Conferenze episcopali che hanno dichiarato di non voler dare attuazione alla Dichiarazione si allunga giorno dopo giorno, fotografando la situazione sulla mappa geografica: l’Africa è in subbuglio, l’Europa orientale pure. Ma quel che rende più evidente la spaccatura è il commento, pubblico, di vescovi che fino a oggi erano considerati allineati al programma di Papa Francesco.
In questo senso, la posizione che merita d’essere sottolineata perché lontana da slanci ideologici e rivendicazioni di un conservatorismo muscolare sopravvissuto quasi solo negli Stati Uniti, è quella di mons. Daniel Sturla, arcivescovo di Montevideo. Sessantaquattrenne, salesiano, è stato creato cardinale da Francesco nel 2015. Intervistato dal País, Sturla ha detto: “Non credo che fosse un argomento da portare fuori a Natale. Ha davvero attirato la mia attenzione, perché è una questione controversa e sta creando divisioni all’interno della Chiesa. E’ chiaro che un prete benedice tutte le persone. Se la gente viene a chiedermi la mia benedizione, la do sempre. Un’altra cosa è benedire una coppia omosessuale. Lì non è più la benedizione delle persone, ma della coppia, e l’intera tradizione della Chiesa, anche un documento di due anni fa, dice che non è possibile farlo”. Fiducia supplicans, ha aggiunto, “crea confusione perché dice che si può benedire, ma non per mezzo di un rito. In breve, quello che credo è che le persone possono essere benedette, ma coppie come le coppie non possono. E’ un no ma sì, e un sì ma no. Lo stesso documento dice che non cambia la dottrina della Chiesa. Data la mancanza di chiarezza del documento, nella mia lettura, capisco che la pratica che la Chiesa ha avuto fino ad ora deve essere continuata, che è quella di benedire tutte le persone che chiedono una benedizione ma non di benedire le coppie dello stesso sesso”. In sostanza, “se quello che vuoi è avvicinarti alle persone e far sentire gli omosessuali parte della Chiesa, per me va bene. Perché la Chiesa è per tutti. Ma ci sono alcune regole. Inoltre, non benedici una coppia non sposata. Le unioni che la Chiesa stessa dice non sono in conformità con il piano di Dio non possono essere benedette”. Toni ben più duri dalle Chiese africane, come mostrano le parole di mons. Martin Mtumbuka, vescovo di Karonga, in Malawi: “Noi in questa parte della Chiesa non avremo nulla a che fare con questa follia, secondo cui la conversione può essere promossa promuovendo l’omosessualità. Non seguiremo i nostri fratelli pastori, che come Giuda tradiscono Gesù oggi. Non abbiamo scelta, non possiamo permettere che una dichiarazione così offensiva e apparentemente blasfema venga attuata nella nostra diocesi. E’ molto triste per me che, per la prima volta nella storia della Chiesa, venga pubblicato un documento della Santa Sede, firmato dal Santo Padre, pubblicamente rifiutato”.
Più prudente, ma la sostanza non cambia, il cardinale Jean-Pierre Kutwa, arcivescovo di Abidjan, in Costa D’Avorio (anche lui creazione bergogliana, anno 2014), che ha vietato nella sua diocesi l’implementazione della Dichiarazione. E tanti altri nomi si potrebbero citare, la lista è lunga e tocca – ironia della sorte – per lo più quelle periferie esistenziali, sociali e culturali che Francesco ha messo in cima al suo programma di pontificato fin dal 2013. Non è un caso che i primi e più entusiasti sostenitori di Fiducia supplicans siano stati gli episcopati dell’Europa centrosettentrionale, quella dove i cattolici sono ormai minoranza fra le minoranze (dove ancora presenti) o del tutto secolarizzati. L’Italia, con la sua corposa Conferenza episcopale cuor di leonessa, ha scelto come sovente le capita il bassissimo profilo: qualche commento qua e là, magari infilato in un’omelia a margine del Te Deum di fine anno, vescovi che hanno parlato a titolo personale, note sui siti diocesani e poco più.
In generale, però, probabilmente neppure in Vaticano ci s’attendeva una reazione così veemente e – soprattutto – pubblica, tant’è che si è andati alla ricerca di qualche vescovo dal profilo conservatore che si dichiarasse favorevole al documento. E’ il caso di mons. Stefan Oster, vescovo tedesco di Passau e uno dei pochissimi contrari al Cammino sinodale tedesco, che sull’Osservatore Romano ha argomentato il suo giudizio positivo rispetto alla Dichiarazione. Oster è pragmatico e soprattutto molto prudente: pur essendo un conservatore, ha sempre evitato l’esposizione mediatica, già all’epoca del doppio sinodo sulla famiglia. Comportamento, questo, che gli è valso l’apprezzamento di Papa Francesco, che non a caso più volte l’ha ricevuto in udienza. Ha scritto mons. Oster: “La novità di fatto sta nella differenziazione di ciò che si può intendere come ‘benedizione’. Già nella dichiarazione del 2021 era stato detto che si trattava di una benedizione in senso liturgico; una benedizione per una coppia nell’ambito di una messa, una benedizione che potrebbe far pensare, anche solo lontanamente, a un matrimonio. Ciò non è possibile. E su questo rimane fermo anche il nuovo documento. Anche sotto questo aspetto i due testi non si contraddicono: nessuna modifica della dottrina, nessuna forma liturgica – e su questo il cardinale Fernández è ancora più esplicito: non esisteranno modelli rituali da seguire, ovvero non ci sarà un cosiddetto rituale per la messa. C’è però una cosa che il cardinale Fernández introduce come vera innovazione: sviluppa la dottrina della benedizione espressamente al di fuori delle celebrazioni liturgiche. Per esempio: quando mi muovo pubblicamente, come sacerdote o vescovo, le persone continuano a chiedermi spontaneamente una benedizione: chiedono se posso benedire loro o il loro bambino, i familiari che non sono presenti o qualche oggetto. In questo senso non ho mai negato una benedizione – formulata come preghiera libera – e non mi avrebbe mai nemmeno sfiorato l’idea di informarmi se la persona che chiede tale benedizione ne è degna”.
Si è determinata una rincorsa all’interpretazione del documento, con presuli e commentatori e teologici che estrapolano dal contesto una parte per giustificare e argomentare il proprio parere favorevole o contrario. Il cardinale Fernández prima dice che chi parla di sdoganamento delle unioni omosessuali non ha capito bene il testo o non l’ha letto, quindi dice che è legittimo che i vescovi scelgano se dare attuazione o no a Fiducia supplicans in base alla situazione particolare del contesto in cui si trovano a operare. In molti paesi africani l’omosessualità è reato e dunque – è il ragionamento – non possono che esprimersi in modo prudente o contrario all’apertura de facto contenuta nella Dichiarazione. Due sono le obiezioni alla linea del prefetto: intanto, i commenti dei presuli africani vanno ben oltre la mera prudenza diplomatica; in secondo luogo, il già citato parere del cardinale Sturla (arcivescovo della capitale del paese più laico e laicista dell’America latina) e di tanti altri vescovi dove le coppie omoaffettive sono libere di fare quel che vogliono, fa capire che la frattura è ben più ampia di un semplice tatticismo “politico”.
Rivolgendosi alla curia per gli auguri natalizi, il Papa ha chiesto di superare le vetuste categorie di “progressista” e “conservatore”, ma la situazione della Chiesa odierna è proprio quella fotografata dalla spaccatura fra progressisti e conservatori. Anche i media molto vicini a Francesco, e quindi in teoria più sensibili al suo invito a evitare categorizzazioni del passato (tra cui si segnala Austen Ivereigh, l’autore della più approfondita biografia di Jorge Mario Bergoglio), da giorni rispondono ai critici di Fiducia supplicans compilando liste di vescovi che invece lodano il documento approvato dal Pontefice lo scorso 18 dicembre. I primi a ricorrere agli schemi deplorati dal Papa sono insomma proprio i suoi principali “alleati” mediatici. La sensazione è che tanti in Vaticano siano stati colti di sorpresa, da qui il fortino eretto a protezione del Papa, chiedendo perfino un parere a Rocco Buttiglione, chiamato in causa ogni qualvolta c’è da sottolineare il benestare di un autorevole conservatore a un documento discusso di Papa Francesco (accadde così anche per Amoris laetitia). E non sono pochi quanti rilevano che la “destabilizzazione” abbia acquisito forza dopo la nomina, lo scorso 1° luglio, di mons. Víctor Manuel Fernández a prefetto del dicastero per la Dottrina della fede. Fin dal primo giorno, e ancor prima di entrare in carica, il presule argentino ha concesso un’intervista dietro l’altra dando la sua opinione sui più svariati temi all’ordine del giorno (in pochi mesi ne ha date più di quante ne abbia concesse Joseph Ratzinger in ventiquattro anni di permanenza al Sant’Uffizio), arrivando anche a fornire (excusatio non petita) le prove della sua ortodossia, ricordando che lui a La Plata era solito organizzare momenti di adorazione, recite di rosari e quant’altro riconducibile a momenti di seria devozione. Presente ovunque e ogni giorno sui media, profilo ben diverso rispetto a quello dell’immediato predecessore, il rigoroso gesuita spagnolo Luis Ladaria, le cui esternazioni si contano sulle dita di mezza mano. Immediatamente è cambiato anche il modus operandi, sul sito del dicastero a scadenza regolare sono pubblicate risposte a dubbi presentati da vescovi d’ogni parte del mondo: si possono conservare in casa le ceneri del caro defunto? E i trans possono fare da padrini/madrine ai battesimi? Il tutto ottiene una risposta tramite cartella dattiloscritta e pubblicata online, senza troppe consultazioni. E’ il prefetto, insomma, che di fatto determina la linea.
Ed è proprio il cardinale Fernández a essere al centro dell’attenzione: chi lo vede come colui che finalmente interpreta il nuovo corso (iniziato però quasi undici anni fa) e chi lo ritiene come l’elemento che sta determinando il caos attraverso una gestione disinvolta dell’incarico che il Papa gli ha affidato, che paradossalmente contraddice proprio l’idea che Francesco ha sempre avuto sul profilo dei propri collaboratori. Bergoglio ha sempre chiesto – esplicitamente – che i funzionari di curia parlassero poco e lavorassero molto. Non ha tollerato le dichiarazioni del cardinale Raymond Burke e anche quelle del cardinale Gerhard Ludwig Müller, che non a caso è stato “pensionato” anzitempo. L’incedere disinvolto del cardinale Fernández, già mente di Amoris laetitia come è del tutto evidente dalla sovrapponibilità stilistica e formale di Fiducia supplicans, sta mettendo in difficoltà Francesco, cui deve tutto. Deve l’incarico di rettore dell’Università cattolica argentina, quando a Roma lo ritenevano inadeguato e dovette intervenire l’allora arcivescovo di Buenos Aires; deve l’episcopato (fu nominato vescovo il 13 maggio del 2013, due mesi dopo l’elezione di Jorge Mario Bergoglio al Soglio petrino); deve la cattedra della diocesi di La Plata (2 giugno 2018); deve la porpora cardinalizia. Il risultato dei suoi sei mesi di opera in curia è la rivolta di mezzo orbe cattolico, ed è la prima volta che accade da decenni, almeno dai giorni in cui diversi episcopati si ribellarono all’enciclica Humanae vitae promulgata da Paolo VI nel 1968. Con la crisi della fede che dilaga da oriente a occidente, il prefetto per la Dottrina della fede ha dato priorità a battaglie ideologiche molto mainstream ma che sul piano pratico riguardano ben pochi cattolici, minando indirettamente il pontificato di Francesco e disorientando migliaia di sacerdoti che devono ancora capire come benedire i singoli all’esterno di un rito liturgico senza benedire l’unione.
La sensazione che si avverte, anche in ambienti tutt’altro che lontani dall’idea di Chiesa di Papa Francesco – quella delle periferie e dell’ospedale da campo – è che sul banco degli imputati, nelle congregazioni generali del pre Conclave (quando sarà) stavolta finirà proprio il prefetto del dicastero per la Dottrina della fede. Se nel 2013 la mala sorte toccò al cardinale Tarcisio Bertone, interrogato da mezzo collegio cardinalizio su manovre finanziarie, scandali vari, corvi e incidenti diplomatici, la prossima volta il redde rationem ruoterà attorno al ruolo del cardinale Fernández, il Tucho che Francesco ha eretto a proprio Ratzinger, sottovalutando che anche in un Vaticano silenzioso e apparentemente amico, gli slanci vanesi dei propri collaboratori finiscono nei promemoria per il futuro dei cardinali elettori. Anche di quelli delle periferie che chiedono ordine e meno caos.
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