La riflessione
Verificare la credibilità del cristianesimo, fenomeno da vivere più che da analizzare
Nel nuovo libro di Ezio Prato si affronta il problema a cui nessuno può sfuggire: "Credibilità". Attraverso il caso di Cristo, l'autore viaggia fino alle radici più profonde della fede per approfondire il "problema dei problemi"
C’è un problema a cui nessuno sfugge. Non i politici, non gli analisti, non gli intellettuali, nemmeno i commercianti e gli influencer, io stesso e ognuno di noi ci dobbiamo fare i conti quotidianamente. Il titolo di un bel libro di Ezio Prato – scritto in un italiano chiaro e lineare pur affrontando un tema complesso – lo sintetizza icasticamente: “Credibilità” (Cittadella Editrice, 178 pagine, euro 14,90). È il problema dei problemi, la questione metodologica di fondo di ogni vita associata, sia questa la società civile, la comunità scientifica, il vituperato “palazzo”, la Chiesa cattolica, la comunità internazionale, l’Europa o un’associazione di categoria.
Non c’è vera possibilità di conoscenza – dice sostanzialmente il professor Prato – se non attraverso una comunità che conquista la nostra fiducia. Non solo, lo sviluppo della conoscenza – fattore indispensabile per ogni progresso, ogni crescita, ogni sviluppo (economico, scientifico, tecnologico, medico, morale) si fonda sull’accettazione della testimonianza consegnataci da persone a cui decidiamo di dar credito dopo averne vagliato criticamente la veridicità storica e il valore. Prato non lo dice con la grevità semplificatrice con cui io lo riassumo, ma noi non aderiamo automaticamente alla scienza per la sua evidenza in sé, noi crediamo agli scienziati, in specie ad alcuni scienziati (ad esempio a Pasteur e non ai suoi colleghi dell’Accademia delle scienze che non volevano rassegnarsi alla validità dei suoi esperimenti perché mettevano in discussione la loro fama, reputazione e carriera).
Insomma, in ogni campo dell’agire umano, e più in generale nella vita stessa con il problema che essa pone a chi ne è protagonista (perché? A che scopo? Con quale utilità?) c’è un dato che ci viene affidato e che dobbiamo mettere alla prova vagliando la credibilità di chi ce lo porge. Come diceva Goethe: “Ciò che avete ereditato dai vostri antenati, guadagnatevelo, in modo da poterlo possedere”. La credibilità non si acquista a basso prezzo e mai una volta per tutte.Questo il tema. Per svolgerlo Ezio Prato (che di mestiere fa il docente di Teologia fondamentale a Milano) ha scelto il problema più sottoposto a critica, a verifiche storiche, archeologiche, filosofiche, linguistiche, ermeneutiche da duemila anni a questa parte: Cristo e il cristianesimo sono credibili?
Il caso Cristo è il più emblematico, il più arduo, il più discusso, quindi il più adatto per conoscere e capire le condizioni che rendono un fatto, e le testimonianze che ne conseguono, credibile. Se noi sottoponessimo – e qui sono sempre io che semplifico – ogni personaggio storico al setacciamento critico a cui sono stati sottoposti Gesù Cristo, gli evangelisti e i cristiani dei primi secoli, arriveremmo a dubitare dell’esistenza di Ponzio Pilato, piuttosto che di Paul Revere o di Manco Cápac. Con l’acribia del teologo che sa di storia, di antropologia, di filosofia, e con l’apertura che contraddistingue le menti veramente razionali, il professore comasco sottopone alla nostra verifica un’ipotesi documentata e invero interessante: è credibile solo ciò che è bello. Prato attinge a Hans Urs von Balthasar e spiega pagina dopo pagina come e perché l’estetica teologica costituisca l’osservatorio più comprensivo di tutti i problemi e tutte le domande sollevate dalla intollerabile pretesa cristiana: un uomo che si identifica con Dio, contravvenendo al principio base della religiosità, la distanza infinita fra Dio e l’uomo. Non a caso, annota Prato in uno dei suoi passaggi, la prima accusa “politica” ai cristiani fu quella di ateismo.
Un paradosso, ma il paradosso (ciò che va contro la doxa, contro l’opinione dei più, contro la mentalità dominante) è il cuore del cristianesimo, e anche della realtà. In ogni evento, e massimamente in quello di Cristo, c’è un dato storico e un dato che sfugge all’immediatezza della presa d’atto, ma la cui presenza è anch’essa storicamente documentabile. Ogni avvenimento porta con sé il suo significato, se non altro nella forma di domanda. Si può raccontarlo in due modi: con una fotografia o con un ritratto d’autore. I Vangeli sono ritratti d’autore.
Nel caso di Cristo la domanda è apparentemente paradossale per chi lo vedeva agire, eppure ragionevolissima, tant’è che è stata posta: chi è costui? Domanda che, a ben pensarci, ci facciamo di fronte a chiunque, comprese le persone che riteniamo di conoscere meglio. Di fronte all’incredibilità di Cristo – dice Prato – scopriamo ciò che è valido per ogni vera conoscenza, cioè che in ogni incontro (la conoscenza è sempre un incontro altrimenti è un già saputo) c’è qualcosa che coincide con ciò che attendavamo e qualcosa che eccede il nostro desiderio: una conferma e una novità, una corrispondenza e una sorpresa, una continuità e una discontinuità, una razionalità e una verità ragionevole che la ragione da sola non avrebbe saputo raggiungere. Un imprevisto che l’intellettualismo moderno, chiuso nella sua autoreferenzialità, ha fatto fatica a cogliere nella sua razionalità. Un imprevisto ragionevole a cui stenta ad accedere il cogito emozionale post-moderno che dell’intellettualismo ha preso il posto. Siamo passati – scrive Prato – dal “cogito ergo sum” al “sento ergo sum”. Un culto dell’emozione su cui Prato mette in guardia, ma che non condanna aprioristicamente perché vi intravede lo spiraglio per cui uomini e donne di oggi possano avventurarsi in una conoscenza che non è solo questione di comprensione logica (anche se capire è più che vedere) ma una questione vitale. Ci sono eventi che non si possono capire solo analizzandoli, occorre viverli, la loro comprensione avviene solo dall’interno. Il cristianesimo è uno di questi, anzi lo è per antonomasia. La sua credibilità si verifica nella vita personale, nella storia, nell’incidenza sociale, nei tentativi politici che ne sorgono… (Prato documenta questo elenco passando in rassegna le varie scuole teologiche che hanno sottolineato or l’uno or l’altro di questi criteri). Ma il cristianesimo è paradigma del fenomeno della conoscenza umana: non è comprensibile solo intellettualisticamente anche, ad esempio, l’esperienza della paternità e della maternità. Ricordo una discussione sull’aborto in cui una donna così argomentava contro Giuliano Ferrara: Taci. Che ne sai tu dei figli che non ne hai. È vero – rispose lui (vado a memoria) – ma lo so e ne parlo perché io sono figlio, faccio l’esperienza della paternità attraverso il mio essere figlio. Non una deduzione, un’esperienza.
Ma torniamo alla bellezza – “la nostra parola iniziale si chiama bellezza” (Balthasar) – e all’ipotesi che sia il criterio di giudizio a cui sottoporre il cristianesimo. C’è un’obiezione con cui fare seriamente i conti: dov’è il bello della guerra che dopo la promessa di pace lanciata duemila anni fa ancora ci tormenta? Non c’è in Prato presunzione di risposta teorica – “La fede cristiana non è un sistema. Non può essere presentata come un edificio teorico chiuso. È una via, e una via si riconosce solo imboccandola e percorrendola”, dice usando parole di Joseph Ratzinger –, piuttosto il rilancio della scommessa e del paradosso cristiano: il “Dio capovolto”. La bellezza era l’ideale greco, la cultura della ragione che il cristianesimo scelse come interlocutore al posto delle altre religioni, ma la bellezza del Cristo non è l’armonia greca, la contempla e insieme la supera, la bellezza è tale se genera amore (Cristo sì me trae tutto, tanto è bello!”, Jacopone da Todi). Ancora il cristianesimo conferma e stravolge: il sacrificio (pratica di ogni religione) non è dell’uomo a Dio, dell’uomo che muore per Dio, ma di Dio che si dona all’uomo e muore per lui. E’ una bellezza rovesciata nel volto sofferente di un uomo agonizzante in croce; una bellezza di cui Paolo di Tarso parlò all’Areopago di Atene in concordanza con la religiosità del pensiero greca (“quel Dio ignoto che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio”), e che a Corinto divenne contrapposizione (“Cristo crocifisso […] stoltezza per i pagani”). E Paolo si è rivelato estremamente credibile.
Non il dubbio sistematico, che porta all’impossibilità della conoscenza), ma la fiducia accordata a testimoni non contraddittori, eppur torchiati con ogni tipo di indagine, permette di verificare la credibilità del cristianesimo. Lo si fa da duemila anni con metodi intellettualmente a volte anche disonesti. So che non è una prova, ma nuotare duemila anni controcorrente ed esserci ancora qualche dubbio (categoria ratzingeriana, vedi “Introduzione al cristianesimo”) dovrebbe insinuarlo.
Il cristianesimo non è utopia