La lunga battaglia per il dopo Francesco
Se il piano era di garantire al pontificato di Papa Bergoglio un'eredità all'insegna della continuità, il sospetto è che si vada nella direzione opposta
La mossa del cardinale Fernández ha dato un’ulteriore scossa alla Chiesa, alimentando la confusione in una situazione già tesa, fra la spinta della Conferenza episcopale tedesca da una parte e le resistenze dei vescovi statunitensi dall’altra, ciascuna delle due parti con episcopati-satellite che – più o meno silenziosamente – tifano per la vittoria del proprio gruppo
Roma. In attesa del prossimo “importante” documento del dicastero per la Dottrina della fede annunciato in una nuova intervista dal cardinale Víctor Manuel Fernández – “sulla dignità umana che non include solo questioni sociali, ma anche una forte critica alle questioni morali come il cambiamento di sesso, la maternità surrogata, le ideologie di genere” –, la questione aperta da Fiducia supplicans e dal suo repentino “chiarimento” è ancora al centro del dibattito ecclesiale. Al di fuori delle mura vaticane ma, ed è quel che conta soprattutto, al loro interno. Non è possibile derubricare la vicenda a errore di comunicazione né farla rientrare nel “consueto” argomentare antibergogliano. Fiducia supplicans è il primo documento approvato da un Pontefice rigettato pubblicamente dagli episcopati di un intero continente. E lo stesso cardinale segretario di stato, Pietro Parolin, che pure ha ricordato come la Chiesa sempre si aggiorni perché “è attenta ai segni dei tempi ma deve essere fedele al Vangelo”, ha sottolineato le “forti reazioni” alla Dichiarazione che portano a ritenere che “ci vorranno ulteriori approfondimenti”.
La mossa del cardinale Fernández ha dato un’ulteriore scossa alla Chiesa, alimentando la confusione in una situazione già tesa, fra la spinta della Conferenza episcopale tedesca da una parte e le resistenze dei vescovi statunitensi dall’altra, ciascuna delle due parti con episcopati-satellite che – più o meno silenziosamente – tifano per la vittoria del proprio gruppo. Metafora sportiva ma adatta all’attuale stato delle cose.
Se la ventata di novità portata dal cardinale argentino all’ex Sant’Uffizio voleva consolidare il programma di Francesco garantendo al suo pontificato un’eredità all’insegna della continuità, il sospetto è che il risultato vada nella direzione opposta. Ed è un problema, anche perché una delle ragioni fondamentali dell’elezione di Jorge Mario Bergoglio è stata proprio quella di rendere irreversibile la riforma della Chiesa, come dissero anni fa il cardinale honduregno Oscar Maradiaga – il quale parlò di vento primaverile entrato nelle sacre stanze – e il cardinale Walter Kasper, teologo assai vicino al Papa soprattutto nei primi tempi del pontificato. Se fino a oggi i borbottii dei variegati fronti d’opposizione erano per lo più ripresi da siti e social vicini alle realtà tradizionaliste o conservatrici (o comunque subito liquidati come tali da giornali e pubblicazioni mainstream, come chiacchiericcio dei “nemici del Papa”), oggi la questione è ben diversa. Il no all’applicazione di un documento approvato dal Pontefice è esplicito e viene non solo dal blocco africano (anche se i vescovi del Nord Africa, quasi tutti europei, guidati dal cardinale salesiano Cristóbal López Romero, hanno invece accolto positivamente Fiducia supplicans), ma anche da settori tutt’altro che identificabili come opposti alla visione di Chiesa-ospedale da campo di Francesco. E questo peserà nel futuro Conclave.
Intanto, è la conferma che non esiste una maggioranza preconfezionata: che il Papa volesse scegliersi il successore, come s’è letto ampiamente in occasione dell’ultimo concistoro di settembre, era una boutade infondata. Primo perché difficilmente il prediletto poi viene eletto, secondo perché di molti neoporporati si sa ben poco quanto a idee in materia di dottrina e pastorale. Un esempio: un anno e mezzo fa, il Papa consegnò la berretta rossa all’arcivescovo di Singapore William Goh, che non solo è un sostenitore della messa secondo il rito del 1962, ma è stato anche fra i primi a esprimersi contro Fiducia supplicans.
Il firmatario del documento delle conferenze episcopali africane che rigettano la Dichiarazione del prefetto Fernández è Fridolin Ambongo, arcivescovo di Kinshasa creato cardinale sempre da Francesco. Etichettare i cardinali secondo il principio della fedeltà a colui che li ha ammantati di porpora ha dunque poco senso. Chi sono, poi, i cardinali cosiddetti “bergogliani”? E’ vero che Francesco ha rivoluzionato il Collegio con molte figure affini al suo modo di intendere la Chiesa oggi e soprattutto domani. Ma in cosa consiste la qualifica di “bergogliani”? Sono bergogliani in quanto convinti della necessità di inaugurare una grande opera missionaria ed evangelizzatrice? Sono bergogliani perché ci tengono all’Amazzonia e ai viri probati? Sono bergogliani perché hanno come priorità le periferie e i migranti? O sono bergogliani perché il punto essenziale è combattere la corruzione e – per dirla come Francesco – “chi ruba”?
Fiducia supplicans ha dimostrato che su certe questioni – come quella delle unioni omosessuali – non esiste alcuna maggioranza a favore della “svolta”, anzi. La resistenza proviene anche da chi si riteneva più docile al cambiamento. In Cappella Sistina, davanti al “Giudizio universale”, i rappresentanti delle Chiese africane se lo ricorderanno e – soprattutto – lo faranno pesare ai confratelli. Ma ancor prima, nelle congregazioni generali che precederanno il Conclave, momento in cui si fa il Papa. Tre i temi che prevedibilmente s’imporranno sul resto: i rapporti con le altre religioni, la questione “giuridica” e l’unità della Chiesa. Sul primo tema, la questione è delicata: se enormi passi avanti sono stati fatti sul terreno del dialogo con l’islam sia sciita sia sunnita (radicale è stata l’inversione a U rispetto, ad esempio, ai rapporti con al Azhar), le relazioni con l’ebraismo hanno fatto molti passi indietro, come ha detto due giorni fa alla Gregoriana il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni. Sul secondo tema, pressoché unanime è la convinzione che la gestione del processo Becciu sia stata pessima, fra intrusioni dall’alto a procedimento in corso. E poi la riforma della curia fresca di stampa e già da aggiornare, il profluvio di motu proprio un giorno sì e l’altro pure. Ordine, serve ordine, si sente dire in Vaticano. Sull’unità della Chiesa, il discorso si fa più ampio: la sinodalità permanente con le istanze delle diverse Chiese da un capo all’altro del pianeta, le battaglie per aggiornare o conservare l’esistente, le diaconesse e i preti sposati come medaglie d’appuntarsi al petto.
E ora le benedizioni a todos, todos, todos. Come tenere tutto unito, tutti insieme? Cosa significa davvero sinodalità? Forse che un provvedimento papale può essere attuato in un contesto e non nell’altro? Che una coppia gay può essere benedetta in San Pietro ma non nella cattedrale di Accra, in Ghana? Tutto qui, il senso della sinodalità? Improbabile. E su questo si scontreranno inevitabilmente visioni opposte con al centro della contesa lo stesso programma di Francesco, il significato da dare all’andare al largo senza conoscere la meta che è un pilastro, oltre che un motto significativo, della sua agenda. Si potrà allora eleggere un Papa che abbia idee e programmi in totale contrasto con le posizioni dei vescovi africani, pastori dell’unica realtà dove il cattolicesimo cresce e s’espande, seppure in maniera non sempre coerente? Basterà, per fermare le loro obiezioni, dire nuovamente che sulla sessualità il problema è solo “culturale”? Certo, nel Collegio non manca chi la pensa come il cardinale Kasper, che in una conversazione registrata durante il Sinodo sulla famiglia disse che gli africani “non dovrebbero dirci troppo cosa fare, visto che da loro il tema dei gay è un tabù”. Ma la logica del Conclave non è quella della conta all’ultima scheda. Invocando lo Spirito santo, si cercherà l’unità.
La fotografia odierna è quella di uno scontro fra nord e sud del mondo, con il paradosso che a contrastare le novità più traumatizzanti sono quelle periferie che Papa Francesco ha posto come perno della propria azione pastorale. La vecchia Europa “nonna” e addormentata con la fede sempre più spenta e che Bergoglio frequenta poco e malvolentieri, è quella più entusiasta delle aperture e dei progressi. La periferia africana, l’Asia e perfino una parte dell’America latina, si fanno custodi della dottrina e guardano di sottecchi le svolte impresse dall’ex Sant’Uffizio immerso nella misericordia. Uno scenario difficilmente immaginabile undici anni fa che taglia le estreme, la destra nostalgica di un tempo che non può tornare e la sinistra che ammicca allo Zeitgeist.