Il catechismo di Papa Francesco
Dal gender “sbaglio della mente umana” al consiglio dato ai coniugi: “Tiratevi i piatti ma poi fate pace”. La guida per i cristiani del Terzo millennio. Con la riscoperta di un grande dimenticato: il diavolo
Non sarà il catechismo di Pio X, ma certe uscite del Pontefice regnante resteranno negli annali. Come il pugno da dare a chi “insulta la mamma” o come lo slogan sulla “economia che uccide”, le intemerate contro “gli imprenditori mercenari e corrotti”. La guerra, “virus senza vaccino”
Chi è Dio? Dio è l’Essere perfettissimo, creatore e Signore del cielo e della terra. Che cosa significa “perfettissimo”? Significa che in Dio è ogni perfezione senza difetto e senza limiti, ossia che Egli è potenza, sapienza e bontà infinita. Pio X badava al sodo, era convinto che le masse – a cominciare dai più piccoli – andassero evangelizzate con semplicità. Bastavano pochi e chiari concetti, domande e risposte senza troppo questionare o indagare. La Rivoluzione francese di un secolo prima aveva inferto alla Chiesa (e alla fede, soprattutto) una ferita sanguinolenta, Napoleone c’aveva messo il suo, la Restaurazione aveva sì rimesso sul trono principi e re cattolicissimi, ma le idee nuove avevano scavato un solco nelle coscienze dei popoli. Nella lotta al modernismo e a tutte le eresie, vecchie e nuove, Papa Sarto concepì il nuovo catechismo, rimasto in vigore per decenni e caduto in disuso dopo il Vaticano II, per poi essere definitivamente sostituito dalla nuova edizione firmata da Joseph Ratzinger e dalla sua commissione: testo approfondito ma di certo meno memorizzabile del precedente, con sommo sollievo di tanti (oggi pentiti? chi lo sa) che temevano l’ira del parroco con tricorno in testa se fosse stato sbagliato un verbo o un aggettivo.
Papa Francesco un suo catechismo ufficiale non l’ha prodotto, ma nel maremoto che da undici anni scuote la Barca di Pietro, tra innovazioni riforme mezze rivoluzioni e coup de théâtre, ha più che altro – involontariamente, forse – donato al Popolo di Dio una specie di Sillabo aggiornato. Concetti chiari, frasi a effetto che senz’altro colpiscono e fanno discutere giornalisti e teologi, preti adoranti e suore accigliate, cardinali rassegnati e vescovi silenziosi. Guerra e pace, amore e carità, ricchi e poveri, omosessuali ed eterosessuali. Il Sillabo di Francesco, che parte dal presupposto dogmatico “Chi sono io per giudicare?”, è il codice per decrittare il pontificato. Una manna per i media e per chi deve ridurre a messaggi per piattaforme social concetti alti e talvolta complessi. Soprattutto, concetti delicati, divisivi, che solitamente alimentano fazioni in lotta l’una contro l’altra. Si prenda la questione del gender. In un’epoca di revanche queer come questa, ogni mezzo tono al di fuori del canone mainstream porta subito a essere catalogati – quando va bene – come indietristi, bigotti, fuori dal mondo. E il Papa che dice sul tema? “Pensiamo alle armi atomiche, alla possibilità di annientare in pochi istanti un numero molto alto di esseri umani. Pensiamo alle manipolazioni genetiche, alla manipolazione della vita o alla teoria del gender, che non riconoscono l’ordine del creato. La teoria del gender è, oggi, un grande nemico del matrimonio. Oggi c’è una guerra mondiale per distruggere il matrimonio. Oggi ci sono colonizzazioni ideologiche che distruggono, ma non si distrugge con le armi, si distrugge con le idee. Pertanto, bisogna difendersi dalle colonizzazioni ideologiche”. Era il 2016 e così disse in Georgia. Ma solo un anno prima, incontrando i giovani sul lungomare Caracciolo a Napoli, definì il gender “uno sbaglio della mente umana che crea tanta confusione”. La caratteristica è che il meglio Francesco lo dispensa quando parla a braccio, lasciando da parte i discorsi, sovente “noiosi” (cit.) che gli uffici gli preparano. Quando si fa trascinare dagli interlocutori, quando risponde a domande che giungono dal pubblico astante. Era in alta quota, in aereo, quando un giornalista gli chiese cosa pensasse della strage nella redazione di Charlie Hebdo, a Parigi, nel 2015: “La libertà di espressione. Ognuno non solo ha la libertà, il diritto, ha anche l’obbligo di dire quello che pensa per aiutare il bene comune. L’obbligo. Abbiamo l’obbligo di dire apertamente, avere questa libertà, ma senza offendere. Perché è vero che non si può reagire violentemente, ma se il dott. Gasbarri, grande amico, mi dice una parolaccia contro la mia mamma, gli arriva un pugno! E’ normale! E’ normale. Non si può provocare, non si può insultare la fede degli altri, non si può prendere in giro la fede”.
E poi il celibato sacerdotale, ad esempio. In Germania sono quasi pronti allo scisma. In Amazzonia c’hanno fatto un Sinodo, tra viri probati e studi sul numero dei preti necessari a portare l’eucaristia ai popoli indigeni. Francesco ha tagliato corto, dicendo che il celibato è un valore e lui non vuole cambiare la prassi che lo regola, ma aggiungendo che “certo, è chiaro che se uno lo vive male, il celibato è una tortura, diventa impossibile. Ma non è meno vero che se uno lo vive con la fecondità del ministero che ha scelto, non solo è sopportabile, ma anche bellissimo. E’ ovvio che ci vuole la vocazione”. Vocazione che devono avere anche le suore: “Siate madri, non zitelle”, ha detto più volte in questi quasi undici anni di pontificato. Zitelle che poi diventano pure zitellone, quando si parla di “persone che hanno lasciato tutto, hanno rinunciato al matrimonio, hanno rinunciato ai figli, alla famiglia… e finiscono – scusate la parola – ‘zitellone’ cioè mondane, preoccupate per quelle cose… E l’orizzonte si chiude, perché dicono: ‘Questa neanche mi ha guardato, quella mi ha insultato, quella…’. I conflitti interni che chiudono. Per favore, fuggite dalla mondanità spirituale. E anche dallo status: ‘Io sono religioso, io sono religiosa…’. Esaminare questo. E’ il peggio che può accadere”. E la donna, per il Pontefice, è fondamentale, perché “è armonia, poesia e bellezza”, è “colei che fa il mondo bello” e – unica sulla Terra – sa “usare tre linguaggi insieme, quello della mente, quello del cuore e quello delle mani”. Per questo va valorizzata, anche all’interno della curia romana.
Sul sacerdote (maschio, ça va sans dire), il monito è sempre quello di non essere zitello. Il prete, infatti, “non nasce per generazione spontanea. O è del popolo di Dio è un aristocratico che finisce nevrotico. Un sacerdote amaro, un sacerdote che ha l’amarezza nel cuore è uno zitellone!”, ha detto solo pochi giorni fa parlando con i partecipanti al Convegno sulla formazione permanente dei sacerdoti promosso dal dicastero per il Clero. Anche qui, regole per i preti: niente mondanità, divieto di essere vanesi. Creò quasi un incidente diplomatico con la Sicilia quando, nel giugno del 2022, si disse molto preoccupato per certe “derive” locali. Citasi dal discorso ufficiale: “Ma la liturgia, come va? E lì io non so, perché non vado a messa in Sicilia e non so come predicano i preti siciliani, se predicano come è stato suggerito nella Evangelii gaudium o se predicano in modo tale che la gente esce a fare una sigaretta e poi torna… Quelle prediche in cui si parla di tutto e di niente. Tenete conto che dopo otto minuti l’attenzione cala, e la gente vuole sostanza. Un pensiero, un sentimento e un’immagine, e quello se lo porta per tutta la settimana. Ma come celebrano? Io non vado a Messa lì, ma ho visto delle fotografie. Parlo chiaro. Ma carissimi, ancora i merletti, le bonete…, ma dove siamo? Sessant’anni dopo il Concilio! Un po’ di aggiornamento anche nell’arte liturgica, nella ‘moda’ liturgica! Sì, a volte portare qualche merletto della nonna va, ma a volte. E’ per fare un omaggio alla nonna, no? Avete capito tutto, no? avete capito. E’ bello fare omaggio alla nonna, ma è meglio celebrare la madre, la santa madre Chiesa, e come la madre Chiesa vuole essere celebrata. E che la insularità non impedisca la vera riforma liturgica che il Concilio ha mandato avanti. E non rimanere quietisti”. Sulla mondanità poi, è stato pure più esplicito: “E’ proprio ridicolo che un cristiano – un cristiano vero – che un prete, che una suora, che un vescovo, che un cardinale, che un Papa vogliano andare sulla strada di questa mondanità, che è un atteggiamento omicida. La mondanità spirituale uccide! Uccide l’anima! Uccide le persone! Uccide la Chiesa!”. Anche per questo è fondamentale non cedere alla chiacchiera, al pettegolezzo da sacrestia: “Il chiacchiericcio è una peste per la vita delle persone e delle comunità, perché porta divisione, sofferenza e scandalo, e mai aiuta a migliorare e a crescere”; “il chiacchierone, la chiacchierona sono gente che uccide: uccide gli altri, perché la lingua uccide come un coltello. State attenti! Un chiacchierone o una chiacchierona è un terrorista, perché con la sua lingua butta la bomba e se ne va tranquillo, ma la cosa che dice quella bomba buttata distrugge la fama altrui. Non dimenticare: chiacchierare è uccidere”.
E i novelli sposi, quelli che ogni mercoledì si presentano in Vaticano con ancora gli abiti del matrimonio addosso per ricevere la benedizione papale? “Ai novelli sposi, io dico sempre: litigate pure, arrivate anche a tirarvi i piatti addosso. Ma mai finire la giornata senza fare la pace”. Detto ciò, l’invito a fare figli, perché “a me preoccupa il problema della poca natalità qui in Italia. Non fanno figli. Mi diceva uno dei miei segretari che andava per la piazza l’altro giorno: si è avvicinata una signora che aveva un carrello col bambino; lui va per accarezzare il bambino… era un cagnolino! I cagnolini sono al posto dei figli. Pensate questo”. Fondamentale, in ogni caso, è tenere a mente “il numero tre per famiglia: tre per coppia. Quando si scende sotto questo livello, accade l’altro estremo, come ad esempio in Italia, dove ho sentito – non so se è vero – che nel 2024 non ci saranno i soldi per pagare i pensionati. Il calo della popolazione. Per questo la parola-chiave per rispondere è quella che usa la Chiesa sempre, anch’io: è ‘paternità responsabile’. Come si fa questo? Col dialogo. Ogni persona, col suo pastore, deve cercare come fare questa paternità responsabile. Quell’esempio che ho menzionato poco fa, di quella donna che aspettava l’ottavo e ne aveva sette nati col cesareo: questa è una irresponsabilità. ‘No, io confido in Dio’. ‘Ma guarda, Dio ti dà i mezzi, sii responsabile’. Alcuni credono che – scusatemi la parola – per essere buoni cattolici dobbiamo essere come conigli. No. Paternità responsabile”.
Ma sono le guerre ad aver portato il Papa a rivedere anche le antiche consuetudini, con il rifiuto dell’ipotesi della “guerra giusta”. La “Terza guerra mondiale a pezzi” è sua definizione e la guerra è un “virus senza vaccino”: “Mentre per il Covid-19 si è trovato un vaccino, per la guerra ancora non si sono trovate soluzioni adeguate. Certamente il virus della guerra è più difficile da sconfiggere di quelli che colpiscono l’organismo umano, perché esso non proviene dall’esterno, ma dall’interno del cuore umano, corrotto dal peccato”. Guerra come “male assoluto”, “terribile sciagura”, “offesa all’umanità e a Dio”. La pace, naturalmente, è il suo opposto: “La pace non è soltanto assenza di guerra, ma una condizione generale nella quale la persona umana è in armonia con sé stessa, in armonia con la natura e in armonia con gli altri. Tuttavia, far tacere le armi e spegnere i focolai di guerra rimane la condizione inevitabile per dare inizio a un cammino che porta al raggiungimento della pace nei suoi differenti aspetti”. Certo, l’armonia in qualche frangente è divenuta impresa ardua da ottenere, specie sul terreno del conflitto russo-ucraino, quando il parlare a braccio di Francesco ha creato più di una frizione con gli aggrediti di Kyiv: “La Nato che abbaia al confine della Russia”, frase confidata a un quotidiano che lo intervistava e poi attribuita a un capo di stato in visita (ma il danno ormai era fatto), ha gelato gli ucraini. Così come la definizione del Patriarca di Mosca e di tutte le Russie, Kirill, “chierichetto” di Putin, di certo non ha portato la preponderante parte di clero ortodosso moscovita a considerare Francesco come possibile mediatore fra le Parti in causa (opzione, per altro, mai esistita davvero).
Il Papa innovatore, che meglio di tutti i suoi predecessori (e di tanti vescovi ben più giovani di lui) sa usare i mezzi di comunicazione, ha recuperato un grande dimenticato, il diavolo. Ne parla spesso, fin dall’inizio del pontificato. E non come una figura dai tratti sfumati, come una metafora del Male. Il Preposito generale dei gesuiti, padre Arturo Sosa, disse in un’intervista che “abbiamo creato figure simboliche, come il diavolo, per esprimere il Male”. Per Francesco non è proprio così, anzi. “A questa generazione – a tante altre – hanno fatto credere che il diavolo fosse un mito, una figura, un’idea, l’idea del male. Ma il diavolo esiste e noi dobbiamo lottare contro di lui. Lo dice Paolo, non lo dico io! La Parola di Dio lo dice. Ma noi non siamo tanto convinti”, disse in un’omelia del 2014. Ancora, il monito imperioso: “Con il diavolo non si dialoga mai, con il diavolo non si deve mai discutere. Egli è astuto e intelligente. Per tentare Gesù ha usato addirittura le citazioni bibliche, state attenti”, ha detto una volta in udienza generale. Purissimo soldato d’Ignazio, che negli Esercizi ricordava che “l’uomo vive sotto il soffio di due venti, quello di Dio e quello di Satana”. Il diavolo, aggiunse Francesco, “entra dalle tasche, si comincia con l’amore per il denaro, la fame di possedere; poi viene la vanità”. Tasche, soldi, “imprenditori mercenari e corrotti”, cui va l’invito a “rispettare la legge” e a non “emarginare individui e popoli”, tenendosi lontani dal “malaffare” e “preservando l’ambiente naturale”. “Fino a quando il nostro sistema produrrà scarti e noi opereremo secondo questo sistema, saremo complici di un’economia che uccide”. E la prima a risentirne è “Madre Terra che geme in balìa dei nostri eccessi”.
Il catechista, secondo Francesco, è colui che porta all’incontro con Gesù, non quello che fa “una lezione di scuola”. Accompagnare, ed è anche questione di stile, di come lo si fa. “Quando c’è un buon catechista lascia la traccia: non solo la traccia di quello che semina, ma la traccia di quello che la persona ha seminato”.
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