oltre le parole di parolin
Il grande freddo tra cristiani ed ebrei
Intervenendo all'Università Gregoriana, lo scorso gennaio, il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, ha detto che “sono stati fatti molti passi indietro nel dialogo”. “C'è la preghiera per la pace, ma non avete il monopolio della pace. La pace la vogliamo tutti, ma dipende da quale”, aveva aggiunto
Da decenni le relazioni fra Israele e la Santa Sede e fra la Chiesa e l’ebraismo non erano così in crisi. Il pogrom del 7 ottobre ha solo accelerato una tensione che montava da tempo
Ieri mattina, l’ambasciata israeliana presso la Santa Sede ha diffuso un nuovo comunicato che tenta di gettare acqua sul fuoco dopo la precedente Nota con cui di definiva “deplorabile” quanto detto il giorno prima dal cardinale segretario di stato, Pietro Parolin, sfiorando l’incidente diplomatico. Parolin aveva espresso pubblicamente la sua perplessità per la “carneficina” in corso, sottolineando che “il diritto alla difesa non giustifica trentamila morti”. L’ambasciata ha spiegato che il testo diffuso in italiano era in realtà una traduzione dell’originale inglese e che “la parola ‘deplorevole’ (regrettable nell’originale, ndr) poteva anche essere tradotta in modo più preciso con ‘sfortunata’”. Un mezzo passo indietro che non cambia la sostanza di un rapporto sempre più complicato fra la Santa Sede e Israele. E’ sbagliato però ridurre tutto all’atteggiamento prudente del Vaticano all’indomani del pogrom del 7 ottobre, che comunque ha peggiorato le cose: la tensione si avvertiva da ben prima, almeno da quando si era insediato il governo formato da Benjamin Netanyahu con il vitale sostegno della destra religiosa. Già l’anno scorso, il patriarca latino di Gerusalemme, mons. Pierbattista Pizzaballa (poi cardinale) – non certo un pasdaran anti israeliano – denunciava “il sempre più diffuso clima di odio anticristiano”: “Le violenze contro i nostri luoghi e simboli cristiani sono solo una delle espressioni della violenza più diffusa che caratterizza questo nostro tempo, che è presente ovunque. La politica, anziché sforzarsi di cercare vie di unità e il bene comune, sembra volerci fare precipitare in un vortice di sempre maggiore divisione, su tutto: tra israeliani da una parte e palestinesi dall’altra, ma anche tra israeliani fra loro e palestinesi tra loro, ed è sempre più incapace di una visione che crei prospettive e futuro. Anche a livello religioso il sospetto, gli stereotipi e i pregiudizi sembrano avere la voce più potente, in questo momento”.
Sempre dal patriarcato di Gerusalemme si aggiungeva che “gli attacchi ai cristiani e alle chiese siano aumentati drammaticamente da quando il nuovo governo è salito al potere”. Pochi giorni fa, nella Città vecchia di Gerusalemme, l’abate della Dormizione, dom Nikodemus Schnabel, è stato circondato da due ebrei ultraortodossi che prima lo hanno insultato e poi gli hanno sputato addosso. Immediata è stata la reazione del ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz, che ha condannato “fermamente i brutti atti contro membri di altre religioni”. Lo scorso ottobre, alcuni ebrei ortodossi avevano sputato a terra al passaggio di un gruppo di pellegrini cristiani. Times of Israel ha denunciato “un peggioramento dell’atmosfera di molestie, apatia delle autorità e di un crescente timore che episodi di sputi e atti di vandalismo possano trasformarsi in violenza contro le loro persone”. Eppure, Elisha Yered, colono anche di recente finito nel mirino delle forze di sicurezza israeliane, aveva giustificato il tutto dicendo che “sputare davanti ai preti o alle chiese è un’antica usanza ebraica. Offrire l’altra guancia a chi ha massacrato il nostro popolo non è la nostra filosofia”. Parole rispedite subito al mittente dal rabbino capo ashkenazita David Lau, secondo cui “simili fenomeni sono ingiustificati e non dovrebbero certamente essere attribuiti alla legge ebraica”. Un anno fa, la Custodia di Terra Santa, con un comunicato stampa firmato dal custode fra Francesco Patton, si appellava direttamente al premier Netanyahu affinché agisse “con decisione per garantire la sicurezza per tutte le comunità, per garantire la tutela delle minoranze religiose e per sradicare il fanatismo religioso, questi gravi fenomeni di intolleranza, questi crimini d’odio e gli atti di vandalismo diretti contro i cristiani”. Nei primi mesi del 2023, infatti, era stato vandalizzato un cimitero cristiano e la scritta “morte ai cristiani” era apparsa sui muri di un monastero nel quartiere armeno. Il comandate del distretto di Gerusalemme ordinò il rafforzamento delle squadre sul campo per prevenire tali fatti e alla vigilia della strage nei kibbutz, il 5 ottobre scorso, l’allora ministro degli Esteri Eli Cohen chiamò il rappresentante vaticano per i Rapporti con gli stati, mons. Paul Richard Gallagher, ribadendo la “forte condanna per i vergognosi attacchi contro i cristiani”.
La delicatezza della situazione è data dal fatto che si mischiano elementi politici a fattori religiosi. La presenza dell’ultradestra rende infatti complicato lo sviluppo di un dialogo franco tra le Parti, considerando anche le forti aperture di Papa Francesco verso l’islam. Ma la questione va ben oltre: “Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza nazionale, da discepolo del kahanismo, ritiene che il cristianesimo sia uno dei peggiori nemici degli ebrei e dello stato ebraico. Questa idea affonda le sue radici nei rapporti conflittuali tra le due religioni sin dal Medioevo, culminati nella Shoah”, ha detto Amnon Ramon, storico del cristianesimo a Gerusalemme. E’ anche in quest’ottica, dunque, che va letto il chiaro deterioramento dei rapporti fra la Santa Sede e Israele e fra la Chiesa cattolica e l’ebraismo. Deterioramento accelerato da quanto accaduto dopo il 7 ottobre, con la linea di prudenza (di ambiguità, secondo il governo israeliano) mantenuta da Roma, con Francesco che se da una parte ha condannato il massacro nei kibbutz e l’antisemitismo, dall’altra non ha risparmiato critiche alla reazione ordinata da Netanyahu. Intervenendo all’Università Gregoriana, lo scorso gennaio, il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, ha detto che “sono stati fatti molti passi indietro nel dialogo”. “C’è la preghiera per la pace, ma non avete il monopolio della pace. La pace la vogliamo tutti, ma dipende da quale”, aveva aggiunto. Il vicepresidente dell’Ucei, Giulio Disegni, aveva definito “impossibile l’equiparazione proposta anche dal Papa tra chi attacca e chi reagisce”.