oltre l'apparenza
Bergoglio e Milei, coppia improbabile ma tutt'altro che impossibile
A prima vista, l’abisso è incolmabile: il presidente argentino è anarchico e il Papa olistico, uno individualista e l’altro comunitario, il primo turbocapitalista e il secondo non capitalista. Eppure a guardar bene tra i due esiste anche un terreno comune. I fatti parlano
Il Papa e Milei, una strana coppia, una coppia improbabile. Così diversi! Così diversi? Gli opposti spesso si attraggono, per certi aspetti si assomigliano. Cresciuto a pane e Hegel, allievo di Guardini, Bergoglio ha sempre teorizzato il superamento delle “polarità opposte”. Ossessionato dalla “armonia” del “popolo mitico” delle origini, dal “tutto superiore alla parte”, sogna la “sintesi”. Molti sono rimasti sorpresi che chiamasse il presidente eletto, ma perché non avrebbe dovuto? Una vita a predicare ponti e contro di lui un muro?
A prima vista, l’abisso è incolmabile: Milei è anarchico e Bergoglio olistico, uno individualista e l’altro comunitario, il primo turbocapitalista e il secondo non capitalista. Il cerchio non quadra. Eppure sospetto che Milei sia meno indigesto al Papa di quanto pensi. E il Papa meno indigesto a Milei di quanto previsto. I fatti parlano. Romperò le relazioni con la Santa Sede, aveva annunciato il suo guru! Israele a parte, ha celebrato in Vaticano il battesimo internazionale, in ginocchio dinanzi al “maligno”, così l’aveva chiamato! Il quale è stato a sua volta felice di ricevere l’aspirante “tirannello”, il piccolo Hitler cui aveva alluso senza nominarlo. Sarà normale tanta ipocrisia? De gustibus. Lo sappia o no, Milei rende così omaggio alla legge non scritta della politica argentina, alla tacita bicefalia stabilita dal mito della nazione cattolica, alla tutela del popolo di Dio sul popolo della Costituzione, della Chiesa sulla Repubblica. Perciò liscia il pelo a Bergoglio, gli promette di prendersi cura dei “più vulnerabili” mai considerati prima, perciò i suoi deputati vogliono abrogare la legge sull’aborto appena approvata. Pensare che aveva teorizzato il libero mercato degli organi!
La Chiesa bergogliana detesta il mercato che Milei adora. Questo è chiaro. Ma non vive su Marte, il Papa nemmeno. Sanno che la situazione è insostenibile, l’inflazione fuori controllo, che i poveri di cui si fanno portavoce hanno votato per lui, che il suo messianismo è penetrato in profondità nel suo gregge. Bergoglio è sceso da tempo dalla barca dello statalismo assistenziale di cui aveva benedetto il varo: non ha, non ha mai avuto, vocazione al naufragio; se l’avesse, non sarebbe Papa. Non ha risparmiato critiche al sindacalismo, un tempo così coltivato, né al clientelismo, gestito da vecchi amici. Le arringhe demagogiche ai “movimenti popolari” sono consegnate agli archivi. Ora il suo modello è l’appena scoperta “economia sociale di mercato”. Istruito dagli economisti cattolici del “primo mondo”, celebra Wilhelm Röpke, la Germania del dopoguerra: non era, dopo tutto, una terza via tra liberalismo e collettivismo, una versione teutonica, penserà, del vecchio peronismo? Giocoliere delle parole, d’altronde, funambolo della dottrina sociale cattolica, Bergoglio s’è sempre tenuto aperto ogni porta, celebrato ora il principio del lavoro “libero” ora la “destinazione universale dei beni”, ora la legittimità della proprietà privata ora lo “Stato quale promotore e tutore del bene comune”.
Non è un caso che Bergoglio cerchi nel mondo tedesco, organico e comunitario, quel che il Presidente trova nel mondo anglosassone, individualista e libertario. Ancor meno che più che sul “mercato”, metta l’accento sul “sociale”, nel cui nome lo massacrò Perón. Ma dieci anni di pontificato nel cuore dell’occidente hanno rinnovato il suo obsoleto repertorio nazional-popolare. Per andare d'accordo con Milei ci vuole ben altro. Per lui, ha detto a Davos, i cristiano-democratici sono collettivisti come i comunisti e democristiana era quella Germania. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, un conto è l’economia un altro, ampliando lo sguardo, lo “spirito dei tempi”.
E lo “spirito dei tempi” ci ricorda che se le vie del Signore sono infinite, lo sono anche quelle della nazione cattolica. Così infinite da beneficiare dell’avvento al potere di un presidente in odore di ebraismo, ma pur sempre cattolico, ebreo e cattolico con accessi mistici e fondamentalisti, insomma da Dio e Patria. Musica per Bergoglio. Perché no? I “fratelli maggiori” saranno sempre meglio del tradizionale liberalismo argentino, laico e mangiapreti! Sia Milei sia Bergoglio, l’uno entusiasta e l’altro adattandosi, osservano il pendolo della storia argentina oscillare inesorabile dal polo nazional-popolare al purgatorio “liberale”, dall’età delle cicale a quella delle formiche, dal carnevale alla quaresima, la montagna russa su cui l’Argentina sale e scende da decenni. Perciò svolazza ovunque il fantasma di Menem, il “peronista neoliberale”, ossimoro tutto argentino, che dominò gli anni Novanta.
Milei non ne fa mistero: Menem lo ispira, Menem, dice, attuò l’unico serio tentativo di liberalizzazione economica mai tentato. E’ vero: strangolò l’iperinflazione, aprì il paese al mondo, privatizzò i carrozzoni pubblici, colpì, più o meno, le corporazioni. Anche se poi, dimentica di dire, finì male e tenne a balia la riscossa kirchnerista. Ma Bergoglio? Possibile abbia nostalgia del menemismo che combatté a cappa e spada nella sua fase terminale? Certamente no. Eppure il trionfo di Menem permise l’ascesa di Antonio Quarracino, il suo nume, e il trionfo di Quarracino quella di Bergoglio. Senza Menem, non sarebbe dov’è. Si capisce: per la Chiesa, Menem riscattava la “fede del popolo” ferita a morte dal “laicismo antinazionale” di Alfonsín. Milei potrebbe, mutatis mutandis, fare altrettanto: promuovere un ciclo religioso dopo un lungo ciclo laico, combattere sia il liberalismo laico della “destra” sia il peronismo secolarizzato della “sinistra”. Non è un altro Macri, soltanto più radicale: seppur a suo modo, agli occhi del Papa è popolo, l’altro era casta, il primo lo abbraccia, l’altro lo accolse con faccia da funerale.
Con lui, d’altronde, Bergoglio condivide tratto chiave, il più rilevante e profondo. Le sue infuocate omelie da arcivescovo, il suo furiosi Te Deum in cattedrale, esprimevano la stessa virulenta predicazione di Milei contro la casta, i politici, la classe dirigente in nome di un “popolo eletto”. Sebbene differiscano nei contenuti e si rivolgano a pubblici diversi, entrambi vedono la società divisa tra un popolo puro e una élite corrotta, entrambi coltivano l’utopia, entrambi hanno un’escatologia. Persino Cristina Kirchner, annusando l’aria di famiglia, non è riuscita a contenere le sue lodi. Non basterà per amarsi, nessuno sa se e quanto durerà la luna di miele, ma aiuterà a capirsi e forse, chissà, a contenere un po’ la protesta sociale, spesso alimentata dal clero bergogliano. Ciò che il liberalismo non unisce, il populismo avvicina. Forse il Papa deciderà finalmente di visitare l’Argentina.
Nell’attesa, la mileite spazza l’Italia: chi s’indigna e chi s’illude, chi grida ai “nuovi mostri” chi “finalmente”. Normale: Milei dice cose che era tabù dire, nel suo e nel nostro paese, così diversi all’apparenza, in realtà tra i più simili al mondo. Ci andrei cauto. Sarà che dei populismi latinoamericani ne ho fin sopra i capelli, ma eviterei di farne il laboratorio del nostro futuro. Per due decenni sono stati scuola della “sinistra”. Come se ci fosse qualcosa d’utile da imparare dal chavismo e dal sandinismo, dal castrismo e dal kirchnerismo, fabbriche di miseria e autoritarismo! Chi inneggia ai Castro e ai Maduro, chi s’inginocchia dinanzi ai Petro, si merita i Milei. Detto questo, trasecolo a veder la “destra” andare anch’essa a scuola da quelle parti. Siamo messi male, ma non così male! Che anche noi s’abbia bisogno d’una sferzata liberale, ci si può giurare, non da oggi, ma da tanto. Che convenga liberalizzare a calci nel sedere, tuttavia, gli occhi spiritati e la bava alla bocca, appellando al “popolo per bene” contro l’eterna “casta corrotta”, dubito. Un po’ per idiosincrasia personale: odio i messianismi, detesto i fanatici, quale che ne sia colore, non portano mai nulla di buono. Ma un po’, anzi soprattutto, perché l’Argentina è una fucina inesauribile di caudillismi, da Eva Perón al Che Guevara, da Carlos Menem a Diego Maradona, da Bergoglio a Milei, e a forza di caudillismi s’è scavata la fossa: la sua storia è una storia di decadenza unica al mondo. Che veda la “luce”, com’egli annuncia, grazie a un caudillo “liberale”, un profeta che in due mesi ha già umiliato il Parlamento e dato del “traditore” ai dissidenti, è secondo me illusorio. Anzi, sbagliato: la storia non è “salvezza” ma faticosa costruzione e persuasione. L’Argentina ha bisogno sì di smontare la macchina corporativa, di riformare lo Stato, di tagliare la spesa pubblica improduttiva e clientelare, di aprirsi al mondo e alla concorrenza. Su tutto ciò, Milei ha ragioni da vendere. Ma il bene va fatto bene, diceva un saggio, altrimenti non è un bene. Altrimenti è come scrivere “t’amo” sulla sabbia: il vento se lo porterà via.