Attendendo lo scisma, la Chiesa tedesca processa la diplomazia vaticana: “Debole e limitata”
Attacchi senza esclusione di colpi. Stavolta nel mirino finisce la politica internazionale del pontificato bergogliano
Il tema del peso della diplomazia vaticana nell’attuale contesto di crisi mondiale allargata (la “Terza guerra mondiale a pezzi”) esula dagli scambi polemici con la Germania
Roma. Tra ultimatum vaticani, minacce di scisma imminente, diaconesse sull’altare e preti ammogliati, dalla Germania ora arriva del tutto a sorpresa l’affondo contro la diplomazia della Santa Sede. L’occasione è il secondo anniversario della guerra ucraina e il portale Katholisch.de, che rimanda a un articolo dell’agenzia Kna (l’agenzia cattolica tedesca), pubblica un articolo in cui si sostiene che “la guerra mostra inesorabilmente le debolezze e i limiti della diplomazia vaticana”. Si ripercorrono azioni e parole, sottolineando il “moderato successo” dell’impegno profuso, il fatto che anche ogni “piccolo gesto del Papa” è risultato “inefficace”. E tra i “piccoli gesti” di Francesco si cita anche “il pellegrinaggio dall’ambasciatore russo”. Si passa in rassegna la missione del cardinale Matteo Zuppi, che da inviato speciale del Papa si è recato a Kyiv, Mosca, Washington e Pechino: “Ma, a parte i piccoli progressi nello scambio di prigionieri di guerra e i rimpatri isolati di minori ucraini rapiti, ha ottenuto poco in circa dieci mesi di diplomazia di viaggio e di diplomazia telefonica”. E la diplomazia “ecumenica”, compresi i contatti con il Patriarca Kyrill? E’ venuto fuori “poco di concreto” e “anche attraverso i canali della diplomazia ufficiale non sembra muoversi molto”. Allargando lo spettro, l’analisi del portale tedesco è impietosa: “Altrettanto deludente è ciò che la diplomazia vaticana sta facendo nella guerra di Hamas contro Israele”, dove “non è chiaro con chi stia parlando e come possa influenzare le parti in guerra, aspramente ostili”. Tra i successi da annoverare, solo l’intesa con il Vietnam e gli sviluppi del dialogo con la Cina. L’attacco tedesco si inserisce nel campo della tensione relativa agli sviluppi del Cammino sinodale, con i ripetuti altolà di Roma e gli interventi esterni (vedasi Schönborn e Kasper) che richiamano all’ordine i confratelli e cercano di riportarli sub Petro. Cosa che per il momento i vescovi guidati da mons. Georg Bätzing fanno, non senza però ribadire che il loro percorso andrà avanti e che se il Vaticano impedirà di far fiorire le riforme studiate sulle sponde del Reno, le conseguenze saranno imprevedibili. Il tema però del peso della diplomazia vaticana nell’attuale contesto di crisi mondiale allargata (la “Terza guerra mondiale a pezzi”) esula dagli scambi polemici con la Germania. Due anni fa, quando i primi colpi di cannone fecero sentire la propria eco nei sobborghi di Kyiv, la Santa Sede spiegò la propria potenza diplomatica, con il Papa che in prima persona si esponeva cercando di facilitare una mediazione fra russi e ucraini. La mancata ed esplicita condanna di Mosca, però, progressivamente alienò le simpatie e la fiducia di Kyiv, fino al punto in cui si rese necessaria una Lettera di Francesco in cui cercava di chiarire la solidarietà della Chiesa cattolica al popolo aggredito. Pochi mesi dopo, l’udienza concessa al presidente Volodymyr Zelensky, conclusasi con gelidi comunicati che – soprattutto da parte ucraina – non nascondevano sfiducia verso la posizione vaticana. Pesava, e non poco, il fatto che secondo il Pontefice (che poi disse di aver solo riportato le parole di un “presidente straniero”) il fatto che “la Nato abbaia al confine con la Russia” può aver in qualche modo indotto Vladimir Putin a sentirsi accerchiato e quindi, questo il sottinteso, a reagire a una provocazione. Ma anche a Mosca l’attivismo della Santa Sede trovava portoni chiusi, complici anche le uscite – ben poco diplomatiche – di Francesco sul Patriarca Kirill “chierichetto di Putin” e le osservazioni sulla constatazione che “i più crudeli sono forse quelli che sono della Russia ma non sono della tradizione russa, come i ceceni, i buriati e così via”.
Il Cremlino rispose a tono, “questa non è più russofobia, ma una perversione”. Se da parte ucraina la spedizione del cardinale Zuppi è stata vista con poco entusiasmo, Mosca si è mostrata assai più interessata, anche perché essere meta di un pellegrinaggio ordinato dal Papa di Roma era comunque la certificazione che anche sulle rive della Moscova passava la soluzione della crisi. Col passare del tempo, l’azione della Santa Sede è andata affievolendosi. Lo stesso Francesco, quando è interpellato nelle numerose interviste, non menziona più l’incarico dell’arcivescovo di Bologna e, più in generale, si limita a denunciare l’atrocità della guerra. Sul fronte mediorientale, se possibile, va ancora peggio. La carta religiosa ci sarebbe pure e il Patriarca Pizzaballa è personalità preparata e pragmatica, la migliore possibile per portare a un simbolico tavolo delle trattative israeliani e palestinesi. Ma è, suo malgrado, finito subito nel fuoco incrociato delle polemiche, con importanti autorità ebraiche che l’hanno accusato di essere filopalestinese (ma non si vede come potrebbe, il Patriarca latino di Gerusalemme, non mostrare preoccupazione per i palestinesi cattolici che vivono a Gaza e nei territori, seppure in numeri assai ridotti) e con i rappresentanti statali israeliani che fin dall’8 ottobre hanno sparato ad alzo zero contro la Segreteria di stato e contro il Papa. Con il rabbino capo di Roma che ha sottolineato come il dialogo abbia fatto passi indietro di decenni. Il problema, per tornare alla denuncia del portale tedesco, è che probabilmente è stato dato troppo peso al ruolo della diplomazia vaticana, troppa fiducia è stata riposta su un ruolo – quello del Pontefice – che può poco in crisi che vedono mischiarsi questioni e interessi politici con la religione. Gli ucraini non accettano soluzioni compromissorie, i russi non possono consentire che il Papa di Roma si faccia mediatore universalmente riconosciuto (l’ala più conservatrice del Patriarcato moscovita, cui Kirill non appartiene, non lo riconoscerebbe mai). Nel vicino oriente, il quadro cambia di poco: gli spazi d’azione sono limitati. Aver facilitato, al principio del pontificato, la riconciliazione fra Cuba e gli Stati Uniti aveva illuso circa un ritorno prepotente dell’antica diplomazia vaticana al centro della scena globale. Una mediazione che, in quel caso è stata possibile perché il terreno ormai era propizio. Cosa che non è nell’attuale contesto.
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