Il Santo degli imbrogli
Né “infusione divina” né “opera di Dio”. La bolla che ha reso incontestabile san Tommaso è stata manipolata
La vicenda è raccontata nell’ultimo libro di Monaldi & Sorti, "Dante di Shakespeare III. Come è duro calle". La "Redemptionem misit" dice altro rispetto a quanto tramandato: non “speciale infusione di Dio”, bensì “infusione del dono di grazia”. Non “opera di Dio”, ma semplicemente “opera” (non “Dei opera, in Dei laudem” ma “Opera in Dei laudem”)
Ese il posto d’onore nella teologia cattolica del doctor angelicus si basasse su un falso? Domanda che è una base formidabile per un romanzo storico di quelli che vanno per la maggiore, fra spie in refettorio e furibonde battaglie con sottofondo di canti gregoriani, crocifissi branditi e spadini puntati, ordini religiosi l’uno contro l’altro. Echi da Nome della rosa, insomma. Quanti ne abbiamo letti, quanti sono stati trasformati in film da guardare senza troppi patemi e ansie di capire risvolti filosofici o messaggi sociali con rimandi alla Costituzione. Stavolta al centro c’è la canonizzazione di Tommaso d’Aquino. Santo per volontà di Papa Giovanni XXII, era il 1323, ma in odor di santità già da vivo, mentre veniva chiamato ai concili, a commentare e a fornire parafrasi alla misteriosa Parola divina. Con la scrittura più che con la favella. Una sorta di Zosima cattolico medievale, trasposizione occidentale dello starec dotato di imparagonabile saggezza che Dostoevskij ha consegnato nei Fratelli Karamazov. Zosima defunto emanava effluvi che sconcertavano e confondevano quanti lo ritenevano una sorta d’alter Christus, Tommaso fu bollito per ricavarne ossa e reliquie. Dante Alighieri era morto due anni prima, giusto per capire che mondo era quello. I domenicani presero subito in mano la situazione, Tommaso andava canonizzato in breve tempo, nessuna fatica fu risparmiata per giungere a tale scopo. E il progetto andò buon fine: sei anni dopo l’inizio del processo, ecco la solenne proclamazione. Primo effetto di ciò, la Sorbona e il vescovo di Parigi annullarono le condanne dottrinali del 1277 che avevano colpito post mortem Tommaso, spirato nell’abbazia di Fossanova nel 1274.
La vicenda è raccontata nell’ultimo libro di Monaldi & Sorti, Dante di Shakespeare III. Come è duro calle (Solferino, disponibile dallo scorso 16 febbraio). E’ il terzo volume di una fortunata trilogia: duemila pagine, quindici atti e varie scene teatrali (il tutto è concepito come un immaginario dramma perduto di Shakespeare, “l’unico narratore capace di volare alle altezze del Poeta e di narrarne vita e opera”). Agli autori però interessa l’amore, o meglio “l’intelletto d’amore” caro a Dante, che pure di Tommaso era un indubbio seguace tanto da bearlo nel Paradiso. Con lui ci parla per un intero canto, Tommaso gli presenta altre anime elette lì presenti. Così, tra una ricerca e l’altra, si finisce agli antipodi dell’Aquinate, ai “teologi dell’amore”, i mistici cistercensi del Dodicesimo secolo come san Bernardo di Chiaravalle. E qui c’è un primo punto rilevato: più Tommaso scala l’empireo, più gli spirituali cistercensi finiscono nell’ombra, e non solo loro: pure Duns Scoto, il francescano grande oppositore del doctor angelicus. Sembra che davanti a Tommaso nessuno possa resistere, stare sullo stesso piano e immerso nella medesima luce. La bolla di canonizzazione Redemptionem misit metterà la parola fine alla contesa, inappellabile: Tommaso ha goduto di una “speciale infusione di Dio” e i suoi scritti sono “opera di Dio”: “plurimaque alia Dei opera, in Dei laudem” … “cum cognitus, non absque speciali Dei infusione perfecit”. Che altro si poteva dire? La Chiesa stabiliva che dalla bocca e dalla penna del teologo aquinate uscivano parole e scritti di natura divina.
Nel 1925, settimo centenario della nascita di san Tommaso, i primi dubbi: la pergamena della bolla di canonizzazione torna alla ribalta, è tempo di studi dibattiti e celebrazioni. E un domenicano, Angelo Walz, s’accorge che qualcosa non va, il testo tramandato nei secoli è diverso da quello originale. Ma non denuncia la manipolazione. Passano pochi anni e il poco più che trentenne teologo francescano Karlo Balic svela il misfatto e scrive che quelle poche righe che hanno assurto Tommaso alla quasi divinizzazione sono state falsate. Ma lo scrive in una piccola rivista teologica croata, con l’intento di non dare scandalo e – probabilmente – di non scatenare una nuova disputa con i domenicani. Erano anche tempi, quelli preconciliari, in cui il dibattito teologico poteva avvenire sì, ma entro certi limiti e senza urtare troppo i fatti dati per acquisiti. Passano i decenni e nel 2005 il francescano Stefano Maria Cecchin – che Papa Francesco nominerà presidente della Pontificia Accademia Mariana nel 2017 – riporta alla ribalta il lavoro di Balic, anche stavolta senza particolare clamore.
Resta che la Redemptionem misit dice altro rispetto a quanto tramandato: non “speciale infusione di Dio”, bensì “infusione del dono di grazia”. Non “opera di Dio”, ma semplicemente “opera” (non “Dei opera, in Dei laudem” ma “Opera in Dei laudem”). Leggendo e interpretando l’originale scritto nella minuscola gotica trecentesca, padre Cecchin afferma che “secondo questa manipolazione, all’Angelico fu attribuita una speciale infusione divina che lo ha reso quasi un Dottore infallibile a cui tutti dovevano sottostare”. Monaldi & Sorti datano la prima falsificazione nota: 1505. Si tratta di un’edizione stampata a Milano dalla regola dei domenicani. L’opera contiene anche la Redemptionem misit, già con la manipolazione. E identico testo compare anche in un Bullarium (una raccolta di bolle papali) del Diciottesimo secolo, curato dai domenicani e stampato a Roma nel 1730. Nel 1858, in un altro Bullarium, troviamo un’originale manipolazione: la prima parte della riproduzione della pergamena è corretta, ma poi riporta ancora la “speciali Dei infusione”. E’ chiaro che dal 1323 in poi, la bolla – conservata a Tolosa negli archivi dipartimentali della Haute-Garonne – è stata copiata innumerevoli volte, divenendo materia di studio in atenei e facoltà, fissandosi alla stregua di verità rivelata. Il che ha prodotto quello che gli autori definiscono “un aspetto ancora più paradossale”, e cioè che appena morto il doctor angelicus, il tomismo cominciò a distaccarsi dalle sue intenzioni iniziali. Il medievista Etienne Gilson scrisse che sul piano metafisico Tommaso venne “castrato”, privato cioè “del suo caratteristico concetto metafisico dell’essere”. Cornelio Fabro parlò di “oscuramento”. Nel Ventesimo secolo, il gesuita Joseph Maréchal combinò il pensiero di Tommaso al razionalismo di Immanuel Kant, Jacques Maritan ancorava Tommaso allo scientismo aristotelico. Karl Rahner si inserì sulla linea di Maréchal, al punto che Fabro gli imputò una “orripilante esegesi, completamente a rovescio, del tomismo” ed “esilarante versione-parafrasi rahneriana”.
Ma la disputa, antichissima come s’è visto, si è trascinata fino ai nostri tempi. Nel 1993 Giovanni Paolo II beatificò Duns Scoto, che s’era già preso la rivincita su Tommaso nell’Ottocento, quando Pio IX proclamò il dogma dell’Immacolata concezione. Papa Wojtyla, nell’omelia pronunciata durante la celebrazione, invitò tutti a “benedire il nome del Signore la cui gloria risplende nella dottrina e nella santità di vita del Beato Giovanni, cantore del Verbo Incarnato e difensore dell’Immacolato Concepimento di Maria”. Joseph Ratzinger spiegò il termine del problema e perché Scoto sia stato così importante nel sostenere – seppure con secoli d’anticipo – il dogma: “Ai tempi di Duns Scoto la maggior parte dei teologi opponeva un’obiezione, che sembrava insormontabile, alla dottrina secondo cui Maria Santissima fu esente dal peccato originale sin dal primo istante del suo concepimento: di fatto, l’universalità della Redenzione operata da Cristo, a prima vista, poteva apparire compromessa da una simile affermazione, come se Maria non avesse avuto bisogno di Cristo e della sua redenzione. Perciò i teologi si opponevano a questa tesi. Duns Scoto, allora, per far capire questa preservazione dal peccato originale sviluppò l’argomento della Redenzione preventiva, secondo cui l’Immacolata Concezione rappresenta il capolavoro della Redenzione operata da Cristo, perché proprio la potenza del suo amore e della sua mediazione ha ottenuto che Maria fosse preservata dal peccato originale. Quindi Maria è totalmente redenta da Cristo, ma già prima della concezione”.
Ma lo stesso Benedetto XVI indirettamente riportò alla luce la tensione fra Duns Scoto e Tommaso e lo fece nel celebre discorso di Ratisbona, passato alle cronache e alla storia per altre ragioni, come noto: “Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo, si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine, nei suoi successivi sviluppi, portò all’affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la voluntas ordinata. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della quale Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che, senz’altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazm e potrebbero portare fino all’immagine di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni effettive”.
Questione complessa, perché anni dopo, lo stesso Benedetto XVI dedicò proprio a Duns Scoto un’intera catechesi. E vi furono solo complimenti per il doctor subtilis. Nell’udienza generale del 7 luglio 2010, Ratzinger disse che “Duns Scoto ha sviluppato un punto a cui la modernità è molto sensibile. Si tratta del tema della libertà e del suo rapporto con la volontà e con l’intelletto. Il nostro autore sottolinea la libertà come qualità fondamentale della volontà, iniziando una impostazione che valorizza maggiormente quest’ultima. Purtroppo, in autori successivi al nostro, tale linea di pensiero si sviluppò in un volontarismo in contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista. Per san Tommaso d’Aquino la libertà non può considerarsi una qualità innata della volontà, ma il frutto della collaborazione della volontà e dell’intelletto. Un’idea della libertà innata e assoluta – come si evolse, appunto, successivamente a Duns Scoto – collocata nella volontà che precede l’intelletto, sia in Dio che nell’uomo, rischia, infatti, di condurre all’idea di un Dio che non è legato neppure alla verità e al bene. Il desiderio di salvare l’assoluta trascendenza e diversità di Dio con un’accentuazione così radicale e impenetrabile della sua volontà, non tiene conto che il Dio che si è rivelato in Cristo è il Dio ‘logos’, che ha agito e agisce pieno di amore verso di noi. Certamente – aggiunse Benedetto – l’amore supera la conoscenza ed è capace di percepire sempre di più del pensiero, ma è sempre l’amore del Dio ‘logos’. Anche nell’uomo l’idea di libertà assoluta, collocata nella volontà, dimenticando il nesso con la verità, ignora che la stessa libertà deve essere liberata dei limiti che le vengono dal peccato. Comunque, la visione scotista non cade in questi estremismi: per Duns Scoto un atto libero risulta dal concorso di intelletto e volontà e se egli parla di un ‘primato’ della volontà, lo argomenta proprio perché la volontà segue sempre l’intelletto”.
Che la Chiesa ancora prenda a modello uomini del Trecento contemporanei di Dante e discuta delle loro tesi (il 9 marzo, tra l’altro, sarà conferito ad Aquino il premio internazionale intitolato al santo locale. L’onorificenza, attribuita dal Circolo san Tommaso d’Aquino, andrà quest’anno a don Mauro Mantovani, prefetto della Biblioteca apostolica vaticana), già basta a canonizzarne la grandezza e l’ispirazione divina che in qualche modo hanno avuto. A prescindere da bolle, pergamene e colpi bassi tra frati medievali.
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