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Celibi come Cristo comanda
Si fa molta sociologia sul matrimonio dei sacerdoti, ma si leggono poco i Vangeli. Che invece, alla fine, risolvono la questione
Nel dibattito sul celibato sacerdotale, che da circa due secoli continua a riproporsi, finora sono state portate quasi esclusivamente argomentazioni che hanno come oggetto l’utilità o la fattibilità dello stile di vita celibatario. Tra queste vi è la drammaticamente invocata mancanza di sacerdoti che – così si sostiene – può essere risolta solo con una scelta “coraggiosa” a favore della possibilità per i preti di sposarsi. A tali discorsi è sempre stato risposto con altrettante argomentazioni opposte. È del tutto superfluo ripeterle. Di fatto, tutto ciò non è rilevante.
Infatti, la Chiesa non è un’impresa sociale volta al miglioramento del mondo, non è un’entità sociale che può essere misurata secondo parametri umani. Essa è – come afferma san Paolo – il Corpo mistico di Cristo. Questo non può essere compreso con categorie meramente umane. Pertanto, a essere davvero rilevante è ciò che Gesù Cristo stesso afferma sull’argomento. I vangeli di Matteo, Marco e Luca riferiscono le parole di Gesù a tale proposito. In Matteo (19, 29) si legge: “Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna”.
Similmente, Marco (10, 29 s.) riporta: “In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva […] cento volte tanto”. E Luca (18, 29 s.) è ancora più esplicito: “In verità io vi dico, non c’è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli per il regno di Dio, che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel tempo che verrà”. Gesù non rivolge queste parole alle moltitudini, bensì a coloro che intende inviare ad annunciare il suo Vangelo e la venuta del Regno di Dio. Per svolgere tale missione occorre dunque liberarsi da tutti i legami terreni, umani. Poiché questa separazione radicale significa perdere ciò che è naturale, Gesù promette loro un “risarcimento” abbondante.
Qualcuno obietta che questo “lasciare tutto” valeva solo per la durata del viaggio compiuto per annunciare il Vangelo e che poi i discepoli ritornarono alle loro famiglie. Nei vangeli non c’è nulla a indicare questo. Tra l’altro, i testi evangelici parlano di qualcosa di definitivo laddove rimandano alla vita eterna. Poiché i Vangeli sono stati composti tra il 40 e il 70 d.C., i loro autori si sarebbero posti in cattiva luce da soli se avessero messo in bocca a Gesù parole che non trovavano corrispondenza nella loro vita. Dunque, Gesù esige da coloro che rende partecipi della sua missione che facciano proprio anche il suo stile di vita.
Che cosa dobbiamo pensare, però, quando Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi (9, 1 s.), scrive: “Non sono forse libero, io? Non sono forse un apostolo? […] non abbiamo forse il diritto di mangiare e di bere? Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa? Oppure soltanto io e Barnaba non abbiamo il diritto di non lavorare?”. Ciò non implica forse che gli apostoli erano in cammino accompagnati dalle loro mogli? Occorre però fare attenzione. La domanda retorica dell’apostolo riguarda il diritto di chi annuncia il Vangelo di vivere a spese della comunità, e ciò vale anche per chi lo accompagna. La domanda è chi lo accompagna.
Il termine greco richiede una spiegazione. Adelphe significa sorella. Qui s’intende una sorella nella fede, una cristiana, mentre gyne, in generale, può significare donna, vergine, moglie e anche sposa: in breve, un essere femminile. Voler dimostrare con questo che gli apostoli erano accompagnati dalle loro mogli non è possibile. Se così fosse, non si spiegherebbe perché si parla espressamente di adelphe, ovvero sorella, cristiana. Ed entrando a far parte della cerchia dei discepoli di Gesù, l’apostolo aveva abbandonato sua moglie.
Piuttosto, per rendere giustizia al testo è bene ricordare il capitolo 8 del Vangelo di Luca, dove è scritto: “C’erano con lui [Gesù] i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni; Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni”. Di conseguenza, non si può che presumere che più tardi gli apostoli abbiano seguito l’esempio di Gesù anche in questo.
Inoltre, va ricordata la raccomandazione enfatica dell’apostolo Paolo di vivere il celibato o la continenza nel matrimonio (1 Cor 7, 29 s.): “Questo vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero” e “chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso!”. Che queste parole di Paolo siano rivolte in modo particolare ai vescovi e ai sacerdoti è evidente. Tra l’altro, lui stesso ha vissuto tale ideale. A riprova del fatto che Paolo o la Chiesa del tempo apostolico non conoscessero il celibato molti citano anche le lettere a Timoteo e a Tito, le cosiddette lettere pastorali. Di fatto, nella Prima Lettera a Timoteo (3, 2) si parla del vescovo sposato. Spesso qui il testo originale greco viene tradotto con “il vescovo sia uomo di una donna”, e ciò viene inteso come precetto.
Basta però una conoscenza modesta del greco per tradurre correttamente: “Bisogna dunque che il vescovo sia irreprensibile, marito di una sola donna (marito di una donna), sobrio, prudente…”. Allo stesso modo, nella Lettera a Tito si legge: “Sia irreprensibile, sposato una sola volta”. Con tale indicazione si vuole impedire che sia ordinato vescovo-sacerdote un uomo che dopo la morte di sua moglie si è risposato (bigamia successiva). Al di là del fatto che in generale il nuovo matrimonio di un vedovo non era ben visto, nell’ambito ecclesiale andava ad aggiungersi anche la considerazione che un uomo del genere non poteva garantire di riuscire a osservare la continenza che ci si aspettava dal vescovo o dal sacerdote.
In origine, quindi, il celibato consisteva nel proseguire, da parte di chi veniva ordinato sacerdote o vescovo, la vita familiare, ma non la comunione matrimoniale. Perciò venivano consacrati uomini preferibilmente anziani. Che questa fosse una tradizione antica, sacra, risalente agli apostoli è testimoniato da autori della Chiesa come Clemente Alessandrino e il nordafricano Tertulliano, vissuti intorno all’anno 200. Inoltre, l’apprezzamento della continenza da parte dei cristiani in generale è testimoniato da una serie di racconti edificanti sugli apostoli – e più precisamente dai cosiddetti Atti degli Apostoli apocrifi, composti nel II secolo e largamente diffusi.
Poi, nel III secolo, le testimonianze letterarie della continenza dei chierici diventano più numerose e chiare, specialmente in Occidente. Così, per esempio, un capoverso della cosiddetta Didascalia siriaca afferma: il vescovo “sia esaminato al momento di ricevere l’imposizione delle mani, […], se è casto […] e se egli ha allevato i suoi figli nel timore di Dio”. Pure il grande teologo Origene di Alessandria (†253/250) conosce un celibato casto vincolante, che spiega e approfondisce teologicamente in diversi suoi scritti. Naturalmente si potrebbero citare anche altre testimonianze, per le quali però qui non c’è spazio.
A questa pratica, fondata sulla tradizione apostolica, per la prima volta venne data forma di legge dal concilio di Illiberis-Elvira del 305/306. Nel canone 33, il concilio impone ai vescovi, ai sacerdoti, ai diaconi e a tutti i chierici di astenersi dalle loro mogli e di non generare figli. Ciò significa che si riteneva che la continenza nel matrimonio fosse conciliabile con la convivenza in famiglia. Così, anche il papa san Leone Magno intorno al 450 scrive che i consacrati non devono ripudiare le loro mogli. Devono rimanere insieme, ma “come se non l’avessero”, secondo le parole di Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi (7, 29).
In seguito si finì sempre più con l’ordinare solo uomini non sposati, e poi arrivò la legge medievale, per la quale era naturale che il sacerdote-vescovo non fosse sposato e vivesse nella continenza. Non c’è da stupirsi che questa disciplina canonica non sia stata rispettata fedelmente sempre e ovunque. Anche l’osservanza del celibato ha vissuto alti e bassi nel corso dei secoli.
È noto il duro confronto ai tempi della cosiddetta riforma gregoriana nell’XI secolo che, soprattutto in Germania e in Francia, lacerò la Chiesa al punto che il vescovo Altmann di Passau fu cacciato con la forza dalla sua diocesi dal clero ostile al celibato. In Francia, gli inviati papali, che dovevano pretendere il rispetto del celibato, furono minacciati di morte, mentre il santo abate Walter di Pontoise durante un sinodo di Parigi fu malmenato dai vescovi contrari alla riforma e gettato in carcere. Alla fine, però, la riforma s’impose e portò un nuovo slancio religioso.
Vale la pena notare che in passato la messa in discussione e il mancato rispetto del celibato sono sempre andati di pari passo con altri sintomi di decadenza della Chiesa, mentre i tempi di prosperità religiosa e slancio culturale sono stati caratterizzati dalla coscienziosa osservanza del celibato. Da questa osservazione storica non è difficile trarre conclusioni per la nostra situazione di crisi attuale.
Rimangono ancora due questioni che vengono spesso sollevate: anzitutto c’è la pratica del celibato delle Chiese cattoliche di rito bizantino e di rito orientale, che esige il celibato da vescovi e monaci, ma non dai sacerdoti se questi si sono sposati prima della loro ordinazione. Perciò c’è chi chiede se non si potrebbe gestire la cosa allo stesso modo anche nell’occidente latino. A tale proposito va ricordato che la pratica del celibato continente è stata dichiarata vincolante proprio in oriente.
Solo nel concilio del 691, detto Quinisesto o di Trullo, sotto l’impressione di una decadenza generale religioso-culturale e politica dell’Impero bizantino, si giunse a una rottura con la tradizione apostolica. Tuttavia quel concilio, condizionato in modo determinante dall’imperatore che desiderava creare di nuovo una situazione di ordine attraverso la legislazione del concilio, non è mai stato riconosciuto dai Papi. Ma è ad esso che risale la sopracitata pratica della Chiesa d’oriente.
Quando, nel corso degli eventi successivi, a partire dal XVI e XVII secolo diverse Chiese ortodosse, separate da Roma, tornarono a unirsi con la Chiesa d’occidente, a Roma sorse il problema di come comportarsi con il clero sposato di tali Chiese. Per il bene dell’unità della Chiesa, i diversi papi decisero di non pretendere un cambiamento dello stile di vita dei sacerdoti rientranti. Le stesse ragioni sono alla base della dispensa dal celibato concessa, a partire da Pio XII, a singoli pastori protestanti convertiti alla Chiesa cattolica e desiderosi di essere ordinati sacerdoti. Più di recente questa regolamentazione è stata estesa da Papa Benedetto XVI anche ai non pochi uomini di Chiesa anglicani che, conformemente alla Costituzione apostolica Anglicanorum coetibus, desiderano unirsi alla madre Chiesa cattolica. Con questa straordinaria concessione la Chiesa rende omaggio al loro cammino religioso spesso lungo e doloroso che si è concluso con la conversione, e dove per giunta hanno rinunciato ai mezzi di sussistenza materiali per amore della verità. Alla base di questa regolamentazione straordinaria c’è il bene supremo dell’unità della Chiesa.
Al di là di questi casi eccezionali, poi, si pone senz’altro la domanda fondamentale se alla Chiesa è permesso abbandonare una tradizione indubitabilmente apostolica. Di fatto, tale possibilità continua a essere contemplata. Alcuni ritengono che a decidere non possa essere una qualunque associazione ecclesiale particolare, ma che un concilio generale potrebbe farlo. In tal modo – sostengono – l’obbligo del celibato potrebbe essere allentato o perfino abolito, se non per l’intera Chiesa almeno per singoli ambiti. Ciò che ancora oggi appare inopportuno, domani potrebbe diventare realtà. Qui, però, bisognerebbe riportare alla coscienza il carattere vincolante della tradizione apostolica. Forse potrebbe risultare utile domandare se sarebbe possibile abolire, per decisione di un concilio, la celebrazione della domenica, che tra l’altro dal punto di vista biblico è meno fondata del celibato.
Per concludere, mi sia consentita una riflessione che punta verso il futuro: se è una costatazione storica certa che ogni riforma della Chiesa degna di tale nome nasce da una conoscenza profonda della fede della Chiesa, allora anche l’attuale contestazione del celibato potrà essere superata da una nuova e più profonda comprensione della natura del sacerdozio. Più chiaramente s’insegnerà e si comprenderà che il sacerdozio della Chiesa non è una disfunzione svolta a nome della comunità ma consiste nel fatto che il sacerdote, in virtù del sacramento dell’ordine, insegna, guida e santifica in persona Christi, più si comprenderà nuovamente che egli assume anche lo stile di vita di Cristo. Un sacerdozio così inteso e vissuto mostrerà di nuovo la sua forza di attrazione per l’élite dei giovani. Tra l’altro, per la concezione di vita secolare il celibato, così come la verginità per il Regno celeste, rimarranno sempre uno scandalo. Gesù stesso ha detto a proposito: “Chi può capire, capisca”.
Walter Brandmüller è presidente emerito del Pontificio comitato di Scienze storiche. È stato creato cardinale da Benedetto XVI il 20 novembre 2010.