Il dibattito
Se una guerra giusta esiste
Dalla Grande Guerra a oggi il dibattito teologico, dottrinale e pratico sulla giustificazione dei conflitti o la loro condanna totale è stato intenso e sfaccettato. Ridurre tutto, come sta avvenendo ora, a un banale utilizzo di slogan e di comode vie d'uscita è sbagliato
Se il pensiero della Chiesa sui conflitti si limitasse a risposte a braccio che confondono “bandiera bianca” e “trattativa”, o alla riduzione del problema alla sola industria delle armi, come da insistente richiamo di Papa Francesco, sarebbe ben piccolo pensiero. Nell’ultimo secolo la riflessione della chiesa sulla guerra è stata ampia, non sempre lineare – tra enunciazioni teologiche o di magistrero e scelte pratiche – ma senza dubbio non è stata banale o fatta per slogan.
Così che certe difese d’ufficio delle parole del Papa, persino da parte di personalità autorevoli, fanno anche peggio. Padre Antonio Spadaro, intervistato dal Fatto, a esempo fornisce una lettura arzigogolata: “Quando ha fatto riferimento a una ‘sconfitta’ non parlava affatto di una capitolazione, ma della sconfitta del desiderio di salvare tutto il proprio controllo statuale”. Sconfitta del desiderio. Ma il nocciolo concettuale è quando Spadaro afferma: “Credo che non si perdoni al Papa il fatto di aver criticato il concetto di guerra giusta”. Un’illazione debole, poiché è sotto gli occhi di tutti che il tema della “guerra giusta” non è sul tavolo, mentre è stato criticato il concreto atteggiamento del Papa sul conflitto ucraino. Quanto alla guerra giusta, è indubbio che sul concetto possano coesistere idee differenti, ma al numero 2308 del Catechismo ancora si legge che “fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un’autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa”.
E che “la valutazione di tali condizioni di legittimità morale spetta al giudizio prudente di coloro che hanno la responsabilità del bene comune”. Nessuna riduzione ideologica, e facile, del problema. Invece il tema della “guerra giusta” e di una elaborazione anche dottrinale tesa a impedire e limitare i conflitti attraversa la Chiesa da oltre un secolo. Ci si riferisce sempre alla condanna di Benedetto XV della “inutile strage”, alla perorazione di Pio XII, “nulla è perduto con la pace! Tutto può esserlo con la guerra”, alla Pacem in Terris di Giovanni XXIII fino ai molteplici interventi di Giovanni Paolo II. Ma, ripercorrendo con attenzione il dibattito, si vede che il percorso non è lineare sulla via di un irenismo “integrale”.
La Chiesa non ha mai perso di vista il realismo né soprattutto l’imperativo morale della giustizia. Se la guerra non è più benedetta, né riconosciuta come “inevitabile” strumento, la Chiesa non ha mai negato il diritto a difendersi. Lo storico delle religioni Daniele Menozzi, in un suo importante ed esaustivo saggio di una quindicina di anni fa, Chiesa, pace e guerra nel Novecento - Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti (il Mulino) aveva ripercorso questo tortuoso percorso, oscillante come un pendolo tra l’adeguamento a un ideale evangelico, e una moderna critica di conflitti sempre più distruttivi, e il riconoscimento della liceità morale della guerra difensiva. Tra magistero, riflessione e impegno laicale e politico, Menozzi sostiene con ragioni “una delegittimazione religiosa dei conflitti”, ma ovviamente non nega le differenti posizioni e problematiche. La Pacem in Terris di Roncalli è scritta nel 1963 nell’èra della sfida atomica.
Ma la costituzione conciliare Gaudium et spes emanata due anni dopo (1965) era stata assai prudente su ciò che è lecito fare “senza pregiudizio dei diritti e dei doveri degli altri o della comunità”. Di recente Menozzi, in un’intervista, ha criticato una certa riscoperta della legittimazione della guerra “giusta” a proposito dell’Ucraina attraverso pensatori come Mounier e Maritain “che hanno scritto prima della svolta della Pacem in Terris”. Ma l’enciclica del 1963 non è certo un approdo definitivo, anzi. Paolo VI ebbe a dire che la pace è “un bene supremo per l’umanità che vive nel tempo; ma è un bene fragile, risultante da fattori mobili e complessi. Perciò la pace non è mai del tutto stabile e sicura”. Nemmeno Giovanni Paolo II ha mai subordinato le sue esortazioni a uno schema ideologico, bensì a esigenze morali. I suoi potenti discorsi a Hiroshima, a Coventry, ad Assisi sono nella storia. Ma lo sono anche ammonimenti come quello ai giuristi cattolici quando disse sul principio della nonviolenza non era ancora possibile costruire l’ordine giuridico della società. E la condanna delle guerre non impedì l’appello all’ingerenza umanitaria, cioè all’intervento militare, durante la guerra nei Balcani.
Editoriali
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