chiesa e comunicazione

Il Papa media friendly

Il saltare a piè pari ogni mediazione o filtro comunicativo fa sì che le parole di Francesco spesso non siano contestualizzate, che concetti inseriti in particolari momenti – un Angelus o un'udienza generale – diventino slogan per piattaforme social, snaturando in non pochi casi le sue reali intenzioni

Matteo Matzuzzi

Niente filtri o intermediari: la comunicazione la gestisce direttamente Francesco. Una strategia vincente fino a quando dipende da lui. Basta un Putin qualunque a scardinare tutto

Roma. A Papa Francesco è rimasto impresso (in negativo) il tramonto del pontificato wojtylano. Giovanni Paolo II malato, quasi incapace di parlare, tremante e sofferente. Scortato da fidati curiali che ne curavano agenda, comunicazione e perfino gli atti di governo (celebre è la lista delle nomine pubblicate poche ore prima della morte). Non sopporta i troppi legacci che il Palazzo impone, è guardingo rispetto a chi frequenta le sue stanze, cambia segretari a ritmo regolare, non ha filtri. La comunicazione se la gestisce lui – e pazienza per i media vaticani, rivoluzionati con la  creazione del dicastero per la Comunicazione che ha messo insieme tra gli altri il Centro televisivo, l’Osservatore Romano e la Radio Vaticana –, riceve chi vuole lui e di rado informa qualcuno, parla con chi vuole lui. E telefona lui, senza aiutanti di camera, centralinisti, officiali a questo deputati. Faceva così anche a Buenos Aires,  dove aveva un’agenda su cui segnava nomi, numeri telefonici e impressioni sul titolare di tale numero. Non ha voluto un suo Joaquín Navarro Valls, un portavoce-interprete: basta lui. E quanto a comunicazione, Francesco non ha rivali. Frasi a effetto, dubbi seminati laddove voleva seminarli lasciando la platea disorientata, definizioni secche che per un certo mainstream mediatico sembrano smentire l’immagine del Pontefice liberal (“il gender sbaglio della mente umana” cozza assai con il genderismo à la page). Ha funzionato, perché il Pontefice argentino ha dettato per anni l’agenda, costringendo curia, vescovi e media di tutto il mondo a inseguirlo e interpretarlo. E lui apriva le porte del suo appartamento a Santa Marta, prima e per anni a Eugenio Scalfari, al quale confidava che i cardinali andavano bastonati e proponeva letture escatologiche stravaganti – naturalmente nella ricostruzione scalfariana fin quando possibile smentita dall’allora portavoce Federico Lombardi –, poi a preti cool, quindi a giornalisti fidatissimi e interpreti della sua volontà.


Solo pochi mesi fa uno di questi, Austen Ivereigh, rivelava sui social (non smentito)  quel che Francesco aveva deciso e gli aveva confidato circa stipendio e casa del cardinale Raymond Leo Burke.  Ed è solo un esempio. Fino al caso più recente della biografia Life (Harper Collins), con l’autore Fabio Marchese Ragona che sul Giornale ha scritto che il Pontefice gli telefonava nei momenti più imprevedibili, anche in spiaggia.  Francesco diffida di quella che vede come una corte ancora rinascimentale, coacervo di pettegolezzi e malelingue, serpenti che strisciano da una stanza e dall’altra e che scrutano alla stregua di aruspici e astrologi le mosse del Papa e pure la sua salute – “Qualcuno mi voleva morto”, ha detto più volte. Ne ha sempre diffidato anche da cardinale, che ben di rado metteva piede in Vaticano. Non gradisce filtri interpretativi, li soffre quasi fossero commissariamenti inopportuni e indesiderati. E i funzionari d’oltretevere in un decennio abbondante hanno capito che è meglio non interferire, lasciando fare al Papa quel che più gli aggrada. Niente più domande dei giornalisti preparate e visionate in anteprima in aereo, ma libera circolazione delle idee. E così nasce la battuta sul pugno da dare a chi offende la mamma (la domanda era sulla strage a Charlie Hebdo), quella su “chi sono io per giudicare un gay”, quella sul “fare figli come conigli” (il tema era la demografia e il Papa sorvolava le Filippine. Ma anche Xi Jinping e Putin, guerra e pace, Nicaragua e abusi. Pochi mesi dopo l’elezione, conversando con il Foglio, il cardinale Carlo Caffarra disse che la particolarità di Francesco era il non volere ostacoli al rapporto con le masse: “Io e il popolo, e basta”. E le interviste a getto continuo servivano a rafforzare questo rapporto. Una conversazione a tu per tu poi diffusa ovunque nel mondo ha più forza comunicativa di un’enciclica, oggi. Se non altro per l’immediatezza e  il linguaggio usati. 

 

La strategia ha funzionato, soprattutto nella prima parte del pontificato, quando Bergoglio era ancora in forze e passava da un continente all’altro, da un’udienza all’altra. Qualcuno lo definiva “il Papa influencer”, padre e pastore e anche un po’ marchio che si portava bene. La fortuna ha iniziato a declinare quando la strategia non è dipesa più da lui. Finché il Papa organizzava giornate penitenziali contro gli abusi e decapitava l’intera Conferenza episcopale cilena, agiva in qualità di capo della Chiesa cattolica, conscio del problema e decisore ultimo e inappellabile. Quando però si è trovato suo malgrado in mezzo a un conflitto, la scelta di esporsi in prima persona non ha giovato alla causa. Francesco ha preso in mano la situazione fin dall’inizio, andando di persona all’ambasciata russa presso la Santa Sede, rendendosi disponibile a mediare fra le Parti. Era lui, e lui soltanto, l’artefice promesso della pace agognata. Si è però esposto talmente in prima persona da diventare lui stesso bersaglio delle critiche: gli ucraini che invocavano una condanna esplicita dell’invasione, i russi che plaudivano alla prudenza del Papa salvo poi metterlo nel mirino quando diceva che “i più crudeli sono i ceceni e i buriati, quelli che non sono della tradizione russa”.  Il Papa come soggetto terzo non veniva più visto come tale, né da una parte né dall’altra. Una teoria di incidenti che costringeva quasi sempre la Segreteria di stato a dover intervenire per precisare la posizione del Pontefice e della Chiesa, riannodando i fili del dialogo e cercando di rattoppare situazioni lacerate. Ma il danno era fatto, dire che la “Nato abbaia ai confini della Russia” significa giocarsi la considerazione ucraina, anche se – come è stato successivamente detto a mo’ di riparazione – il Papa si limitava a riportare la confidenza di un capo di stato straniero. Quindi le parole sulla resa e la sconfitta evidente, la bandiera bianca che solo in Italia è stata interpretata in dotte argomentazioni intellettuali e pastorali come un invito al negoziato e non – come accaduto pressoché ovunque al di fuori dei nostri confini  – come il suggerimento della resa, dando così a Putin quel che vuole. E poi su Gaza e Israele con la comunità ebraica romana che parla di ritorno indietro di anni sulla strada del dialogo e lo stato israeliano che denuncia l’ambiguità. E le smentite sulle dimissioni future, ogni volta un tassellino in più o in meno, una notiziola aggiunta o tolta (prima la tomba già pronta nelle Grotte vaticane, poi il sito quasi approntato in Santa Maria Maggiore), l’Universo che si spera vuoto ma non si sa, eccetera. 

 

Il saltare a piè pari ogni mediazione o filtro comunicativo fa sì che le sue parole spesso non siano state contestualizzate, che concetti inseriti in particolari momenti – un Angelus o un’udienza generale – siano divenuti slogan per piattaforme social, snaturando in non pochi casi le reali intenzioni di Francesco. Il problema è che a ciò non si è mai messa una toppa e perfino padre Lombardi, già agli albori del pontificato, dopo un po’ smise di rettificare o smentire i contenuti delle conversazioni del Papa: erano private, anche se spesso gli ospiti una volta usciti da Santa Marta partivano con il classico “il Papa mi ha detto che”. Michel Cool sulla Croix ha contestato a Francesco una mancanza di “prudenza”, che pure tanto è desiderata anche in curia – soprattutto in Segreteria di stato. Il presidente della Conferenza episcopale tedesca, mons. Georg Bätzing, un anno fa si lamentava pubblicamente sulla Welt: “Penso che questo modo di esprimersi della leadership della Chiesa, attraverso interviste, sia estremamente discutibile”. Il Papa, parlando con l’Associated Press, aveva infatti assestato un colpo al Cammino sinodale tedesco, che – disse – “non è un Sinodo, un cammino sinodale serio, è un cosiddetto cammino sinodale, ma non della totalità del popolo di Dio, ma fatto di élite”.

 

Le interviste come instrumentum regni, dunque. Sempre un po’ amichevoli, con poche domande difficili: abbondano sempre quesiti sul ruolo delle donne all’interno della Chiesa, sulla sua salute, sui cattivoni che gli fanno opposizione e poco s’è saputo – ad esempio – di ciò che ha portato all’intesa con la Cina, per non dire delle ragioni che spinsero Francesco a privare in dieci minuti d’udienza il cardinale Becciu delle prerogative cardinalizie prima che fosse istruito un regolare processo. L’importante è non risultare impopolari, prendersela con le fronde interne ed esterne, vere o immaginate. Uno strumento di governo che funziona finché “l’uomo di cultura” su cui s’erano riposte tante speranze fin dal 2013 per riequilibrare il potere troppo spostato in terra yankee non decide di passare il confine e di bombardare la capitale d’uno stato straniero, mirando ad annetterselo come accadeva qualche secolo fa.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.