Il soft power del Papa sull'Iran
Diplomazia e strategia. Francesco avverte Teheran: “Nessuno deve minacciare l'esistenza altrui”
Le relazioni fra la Santa Sede e l’Iran sono state stabilite nel 1954 e sono sopravvissute anche alla rivoluzione khomeinista del 1979. Significativa, e molto apprezzata dal clero scita, la visita nel 2021 al Grande Ayatollah Ali Al Sistani, in Iraq
Nell’appello del Papa “affinché si fermi ogni azione che possa alimentare una spirale di violenza col rischio di trascinare il medio oriente in un conflitto bellico ancora più grande”, lanciato domenica al termine del Regina Coeli, c’è un passaggio significativo che va al di là della rituale condanna per azioni belliche tali da minacciare la pace. Francesco infatti, riferendosi all’“aggravamento della situazione in Israele a causa dell’intervento da parte dell’Iran”, ha detto che “nessuno deve minacciare l’esistenza altrui. Tutte le nazioni si schierino invece da parte della pace, e aiutino gli israeliani e i palestinesi a vivere in due stati, fianco a fianco, in sicurezza. E’ un loro profondo e lecito desiderio, ed è un loro diritto!”.
Dopo mesi di incomprensioni con le autorità israeliane, che da ottobre hanno accusato – anche pubblicamente – la Santa Sede e le autorità religiose cristiane di usare toni ambigui rispetto al pogrom del 7 ottobre, la condanna dell’operazione iraniana è rilevante. In primo luogo perché è chiara e riferita esplicitamente all’attacco di sabato sera ordinato dalla Guida suprema Ali Khamenei, in secondo luogo perché le relazioni con Teheran sono da sempre ottimali. Lo scorso autunno, ad esempio, fu il ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amir-Abdollahian, a telefonare al segretario per i Rapporti con gli stati, mons. Paul Richard Gallagher a proposito del massacro di Hamas. In tale circostanza, Gallagher disse all’interlocutore che bisognava fare il possibile per evitare l’allargamento del conflitto. Una settimana più tardi era il presidente Ebrahim Raisi a chiamare direttamente Papa Francesco. La repubblica islamica coinvolgeva la Santa Sede, ritenendola un attore capace di facilitare una mediazione fra le parti. L’opposto di quanto realisticamente è possibile nel conflitto russo-ucraino, dove il Patriarcato ortodosso moscovita mai potrebbe accettare l’intervento del “Papa di Roma” in quelli che sono considerati propri affari interni. Invece con l’Iran è diverso: i rapporti con il Vaticano sono sempre stati improntati al reciproco rispetto, anche nei momenti di tensione sul fronte del dialogo interreligioso: anni fa, l’allora presidente Mahmoud Ahmadinejad, che nel suo programma aveva al primo punto l’obiettivo di spazzare via dalla cartina geografica e dalla Storia Israele, spediva lunghe lettere a Benedetto XVI dilungandosi sugli “insegnamenti comuni dei profeti” e sull’esigenza di “stabilire nuove relazioni politiche e umane sulla base di questi insegnamenti”. Addirittura, Ahmadinejad si spingeva a invocare la “cooperazione tra le differenti religioni”.
Le relazioni fra la Santa Sede e l’Iran sono state stabilite nel 1954 e sono sopravvissute anche alla rivoluzione khomeinista del 1979.
L’elemento religioso non è trascurabile e non appartiene solo alla retorica di Ahmadinejad: lo stesso Raisi, conversando con il Pontefice – la fonte, in questo caso, è la presidenza iraniana – ha argomentato che la difesa del popolo palestinese è in accordo con i princìpi delle religioni abramitiche. Ha scritto il vaticanista John Allen che “i leader iraniani operano in un contesto psicologico e culturale in cui le convinzioni religiose contano, ma la maggior parte dei leader occidentali non può essere coinvolta su questo piano: Joe Biden, Rishi Sunak o Emmanuel Macron non arriveranno a parlare con Raisi di Terra Santa, Corano e Bibbia”. Con il Papa, invece, questo discorso ha senso. E’ quello che lo stesso Allen definisce “un universo condiviso di convinzioni spirituali e teologiche”. Nel disegno geopolitico di Francesco, poi, il ruolo di Teheran è fondamentale. Si tratta sì di equilibrare i rapporti con l’est e l’ovest del pianeta, ma ancor di più di coinvolgere la Repubblica islamica nella distensione interreligiosa dopo periodi di frequenti incomprensioni. Dall’inizio del pontificato, Bergoglio ha investito parecchio su tale fronte, basti considerare i rapporti con il grande imam di al Azhar, la firma della Dichiarazione di Abu Dhabi sulla fratellanza umana e i viaggi nei paesi a maggioranza musulmana. Ha privilegiato in questo senso la componente sunnita, dove la tensione era maggiore – specie dopo la lectio di Benedetto XVI a Ratisbona e la presa di posizione di Ratzinger all’indomani degli attacchi alle chiese in Egitto alla fine del 2010 – e il dialogo più accidentato, anche se nel 2021 in Iraq incontrò il Grande ayatollah Ali al Sistani. Le foto fecero il giro del globo e l’Iran proclamò quel giorno, il 6 marzo, “Giornata della tolleranza e della convivenza”. Ecco perché il Papa si è potuto permettere, al termine del Regina Coeli in Piazza San Pietro, di chiamare l’Iran con il suo nome, avvertendo che a nessuno è permesso di mettere in discussione l’esistenza di un altro paese: sa di poter contare su una relazione consolidata che, eventualmente, consentirà di esercitare un certo grado di soft power. Dall’altra parte c’è un interlocutore assai interessato al parere del Papa e, soprattutto, determinato a mantenere con lui una relazione fruttuosa.