L'analisi
È la Chiesa che è rimasta indietro o è il mondo che corre troppo?
La teologia alla prova del Sinodo nella conferenza che si è tenuta in Lussemburgo lo scorso 21 e 22 marzo, dal titolo "Cosa ci tiene insieme quando non siamo d’accordo". A organizzarla il Luxembourg School of Religion & Society insieme ai teologi di tutta Europa
Il passaggio dal “cattolicesimo alla cattolicità”. Il rifiuto del mondo moderno a rispondere alla chiamata di Cristo. Il centro della conversazione teologica, che non può che essere l’amore di Dio. Il Luxembourg School of Religion & Society ha messo insieme teologi di tutta Europa, con una lezione speciale di monsignor Thomas Halik, teologo vincitore del Premio Templeton e già relatore al circolo di ex studenti di Ratzinger, una riflessione dell’arcivescovo Antonio Staglianò, presidente della Pontificia Accademia di Teologia, una discussione del Cardinale Rys, arcivescovo di Lódz. Il tutto per comprendere “Cosa ci tiene insieme quando non siamo d’accordo”, il titolo della conferenza, che si è tenuta a Lussemburgo il 21 e il 22 marzo.
Una conferenza necessaria, nata in collaborazione con l’Università di Bonn ma anche con la Società europea per la teologia cattolica, che si iscrive, ha spiegato il direttore della Scuola Jean Ehret, nel cammino sinodale voluto da Papa Francesco. Un cammino che favorisce la discussione, e che dunque mette in luce posizioni diverse, quasi contrapposte, e anche dialettiche a volte aspre. Questa stagione di dibattito interroga i teologi, e li pone in una situazione complessa: quella di trovare un equilibrio tra il depositum fidei e un nuovo modo di raccontare la fede più adeguato al mondo moderno; quello di guardare alle sfide del tempo, e alle sfide sociali del tempo di oggi, senza però perdere di vista la centralità della fede.
Se il Sinodo ha stabilito dieci gruppi di studio per comprendere alcuni temi, se i parroci sono chiamati anche loro a incontrarsi per comprendere come applicare la sinodalità in ambito pastorale, allora anche il lavoro teologico deve trovare un punto di incontro, una applicazione sinodale che vada al di là delle diverse posizioni. Tomas Halik ha definito questo necessario cambio di paradigma come un passaggio dal “catholicism” alla “catholicité”. Ovvero il passaggio dalla percezione del mondo come cattolico, semplicemente per tradizione o per storia, a quello di un mondo che non si percepisce più nemmeno come cristiano, e dove dunque si deve essere davvero seme che dà molto frutto.
Halik ha sottolineato come la Chiesa sarà “perfettamente una, santa, cattolica e apostolica” alla fine dei tempi, ma che oggi si deve incarnare in un mondo in cui “differenti settori della società si stanno emancipando dalla religione”. E così, la religione perde “il suo ruolo sociale e la sua forza di integrazione dell’intera società” e “il cattolicesimo diventa una ideologia, e viene usato come ideologia politica”.
Per Halik, anche il Concilio Vaticano II “arrivò tardi, perché si parlava della modernità quando la modernità stava terminando”, e c’era bisogno di uno sguardo ancora diverso. Il teologo ritiene che la sinodalità voluta da Papa Francesco sia il passo successivo, il salto di qualità pensato dal Concilio, e chiede che l’approfondimento della teologia e della spiritualità “non rappresentino solo una disciplina accademica”, ma siano parte di una vera conversione pastorale. Conversione necessaria perché c’è bisogno di una risposta spirituale alle grandi crisi globali che attanagliano il mondo di oggi, dal riscaldamento globale ai conflitti a Gaza e in Ucraina, che sono espressione di un “deterioramento della spiritualità del nostro pianeta”. Insomma, la soluzione non è cambiare la struttura della Chiesa, ma riprendere l’invito di Cristo a essere Chiesa.
È partito da qui il cardinale Rys, il quale ha sottolineato che “noi rifiutiamo la chiamata di Cristo a essere Chiesa” e ha lamentato che “il mondo si sta muovendo e si sta muovendo molto più velocemente della Chiesa”. Il pericolo più grande – ha detto l’arcivescovo di Lódzź – è che la paura dell’uomo moderno “è una paura che paralizza”. Il cardinale ha sottolineato che il modello pentecostale è l’opposto di ogni modello totalitario. Guardando al dibattito, il professor Ehret ha notato che “molti di noi non condividono le stesse idee su alcuni temi sostanziali”, e ora si tratta di cercare le risposte, ferma restando l’onestà di tutti i partecipanti al dibattito e la loro sincera adesione ai principi del Vangelo. Stare insieme anche quando si è in disaccordo significa “integrare la conoscenza dalle altre discipline”, ma anche “ispirare le persone al di là dei confini delle Chiese”, e parlare con persone che “non vengono dalla Chiesa in sé”. Il grande tema è quello della “alfabetizzazione religiosa”, perché “quando non c’è alfabetizzazione religiosa non c’è possibilità di comunicare”.
Gusztav Kovacs, rettore del Collegio teologico episcopale di Pécs, in Ungheria, ha voluto superare il tema del dibattito definendo il tema del riconoscimento mutuo. Si tratta del passaggio dal concetto di tolleranza al concetto di riconoscimento, ovvero alla necessità di riconoscere chi si ha di fronte nel dibattito non come qualcuno da sopportare, ma come qualcuno da comprendere. La teologia però diventa anche qualcosa di concreto. Perché, ad esempio, guardare alle radici teologiche dell’aggressione russa nei confronti dell’Ucraina permette di comprendere a fondo le radici del conflitto. Il ministro degli Esteri lussemburghese Backer ha sottolineato, in effetti, che, sebbene ci fossero segnali di quello che stava per succedere in Ucraina, di fatto “tutti pensavano che non ci sarebbe stato modo di invadere l’Ucraina”. Hoyer, presidente della European Investment Bank per vari anni, ha invece messo in luce come oggi si deve fare i conti questa nuova realtà, ma allo stesso tempo “rimanere fermi nei nostri valori, e questo rende necessario alle nazioni di rimanere insieme”.
Il giornalista della Cnn Christopher Lamb ha guardato, invece, alla varietà che si presenta nella Chiesa, e lamentato un tentativo di reimporre una certa uniformità nel comprendere la dottrina cattolica, considerando la riforma sinodale che vuole incorporare “le voci delle Chiese locali”. Lukacs, durante il dibattito, ha messo però in luce che “non ci tiene insieme il Papa, non ci tiene insieme la pluralità. C’è il Vangelo, c’è Gesù e questo potrebbe essere il ruolo migliore”. E il professor Schlie, già diplomatico e poi impegnato sui temi della difesa, ha notato che oggi in Europa “la religione non considerato in Europa. Ma l’Europa ha qualcosa di più da portare avanti, anche se il valore strategico dell’Europa”. Per l’arcivescovo Staglianò c’è una sola cosa che ci tiene insieme: l’amore autentico. Non basta, infatti, la “sola ragione scientifica, che, secondo l’illuminismo, dovrebbe essere il punto su cui tutti dovrebbero essere d’accordo”, e invece anche gli scienziati non sono d’accordo su tutte le questioni. E allora questo disaccordo si supera solo “con la parola incarnata: Cristo”. Il cambio di paradigma, per l’arcivescovo Staglianò, viene proprio dal cambiare la domanda: non “cosa ci tiene insieme” nonostante il disaccordo, ma “chi ci tiene insieme”.
È probabilmente il tema del futuro, considerando che la testimonianza anglicana, del Reverendo Chapman, ha messo in luce anche il dibattito interno alla Chiesa anglicana, la resistenza alle riforme, e persino uno scisma interno che non possono non preoccupare di fronte al dibattito attuale che c’è nella Chiesa cattolica. E il professor Ehret ha riassunto i due giorni dei lavori con una silloge in latino, che potrebbe essere uno straordinario punto di partenza: Primum amare, deinde philosophari. Chissà se la sinodalità sarà vissuta con amore e ascolto o se sarà utilizzata per portare avanti alcune agende particolari.