Letture
Quando Dio creò il mondo lo fece in ebraico, la lingua primordiale e fatale
Elena Loewenthal esplora la storia e la profondità della lingua ebraica in "Breve storia (d'amore) dell’ebraico", evidenziando la sua sacralità, antichità e complessità
Quando Dio creò il mondo, lo fece con la parola ed essa era l’ebraico. Sorprendentemente l’unica creatura non sostanziata dal linguaggio fu l’uomo, fatto di polvere della terra e alito di vita (Gen 2:7), eppure dotato della facoltà di nominare l’universo. Che le lettere dell’alfabeto fossero materialmente gli architravi costitutivi del mondo lo aveva rivelato la qabbalah e lo aveva ribadito uno dei suoi più raffinati interpreti, Gershom Scholem in un libello ad alta densità speculativa, Il Nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio (Adelphi, 1998). Va da sé che segni di tale spessore debbano esser conservati in purezza: “leshon haqodesh”, “lingua santa” per eccellenza, l’ebraico “è stato per quasi due millenni la lingua del testo, o meglio dei testi: letta, conosciuta, scritta, interpretata non soltanto dai rabbini o dai dotti ma, come è prescritto dalla Legge, da tutti gli ebrei (maschi) tenuti a conoscerla per studiare, esplorare il mondo”. Lo osserva Elena Loewenthal in Breve storia (d’amore) dell’ebraico (Einaudi, 128 pp., 12 euro), non un trattato sistematico ma un lyric essay pieno di sentimento, desiderio di comprensione e curiosità. “L’ebraico – prosegue – è una lingua primordiale e la sua antichità si riflette anche nella sua struttura, non di rado basilare, fondata su un’essenzialità che chiama il minimo e nulla di più, a volte neanche quello”. Un’essenzialità aspra e dolce al contempo: antinomica. D’altra parte, è proprio il termine “ebreo” a indicare nel suo etimo un’insopprimibile singolarità. Proviene da “ivri” che originariamente significa “colui che sta dall’altra parte”. L’ebraico è quindi un idioma al di là dell’ordinario, differente, “in cui tutte le parole e i parlanti hanno chiara, sempre, la percezione che è qualcosa di speciale”.
Dalla necessità di un ebraico moderno – con il decisivo apporto di Eliezer Ben Yehudah – all’inesauribile ermeneutica della Torah (l’“aldilà del versetto” secondo il filosofo Emmanuel Lévinas); dall’assenza/presenza delle vocali alle dieci ”sefirot”, le “virtù”, le “lettere primordiali” che edificarono il cosmo per emanazione celeste; dal tetragramma divino (“yod he waw he”), “il nome impronunciabile di Dio”, all’“alef” che non ha suono e maieuticamente precede ogni cosa: il percorso di Loewenthal è innanzitutto un addentrarsi nei misteri insoluti di una lingua così fascinosa, fatale. “Tutto l’universo interpretativo ebraico si fonda infatti per un verso sull’infinita espansione del significato, sul dettato (sì! dettato!) di leggere anche la parte bianca del testo, là dove esso appare muto ma non lo è, ma anche sulla sua intoccabilità, sul divieto di violarlo. E’ un paradosso, ma strabiliante”. L’ebraico, poggiato per intero su un sistema di radicali trilitteri, si dimostra estremamente algebrico: “ogni parola è anche un numero” e la “gematrya” si occupa appunto di misurare le corrispondenze e le dissonanze numeriche nascoste nelle pieghe fraseologiche. Ma ciò che più colpisce, oltre i minuti recessi testuali, è la ruvidezza estatica, la iunctura acris di alcune espressioni: Dio è spesso ”bat qol”, “figlia di voce” e “qol demamah daqah”, “voce: silenzio sottile”; per formulare il presente si utilizza il participio, “io mangiante”, “io andante”, “io sofferente”; “Wayomer Elohim” è tradotto di solito con “E disse Dio”, ma alla lettera si tratterebbe di un futuro/imperfetto. E tanti altri casi ancora. Senza tempi verbali e senza consecutio temporum, senza punteggiatura (o quasi), l’ebraico è in questo senso davvero libertà, “cherut”, “condizione aperta e piena”. Eterna ricorsività del nome di Dio.
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