in vaticano
Dal “Chi sono io per giudicare un gay?” alla “troppa froceria”. La traiettoria del pontificato di Francesco
Il Papa che da undici anni e mezzo tuona contro il chiacchiericcio – “le chiacchiere sono peggio del Covid”, ha detto una volta – parla di “froceria” in un'assemblea sì a porte chiuse, ma aperta ai pettegolezzi una volta che tali porte si sono aperte
Francesco parla ai vescovi e si lascia andare a un lessico non propriamente politically correct. Che dirà il mondo "dei diritti" che fino a oggi l'ha esaltato e laicamente santificato?
Dal “chi sono io per giudicare un gay?” alla constatazione che “qui in Vaticano e in qualche diocesi è tutta una froceria”. Di acqua ne è passata tanta, molta più del previsto, sotto i ponti di Roma. Da Francesco che finiva in copertina come uomo dell’anno per la rivista lgbtq+ Advocate alle bordate contro “gli omosessuali che non sanno controllarsi”. La battuta, sfociata poi in un ragionamento più complesso, il Papa l’ha pronunciata in apertura di assemblea generale della Conferenza episcopale italiana, lunedì scorso a Roma. Era stato il sito Dagospia, domenica, a darne conto. “Non mettete checche isteriche in seminario”, avrebbe aggiunto poi, secondo due fonti interpellate dal Foglio. E davanti all’obiezione di un coraggioso vescovo che avrebbe ricordato a Francesco la pubblicazione della Dichiarazione Fiducia supplicans, solo pochi mesi fa, il Pontefice ha risposto che “è solo una benedizione di neanche venti secondi che non si nega a nessuno”. Derubricando così la faccenda a contentino – cosa peraltro poi già evidente dalle incaute precisazioni del loquace cardinale Victor Manuel Fernández, il prefetto del dicastero per la Dottrina della fede, vera mente del documento e uomo dal lessico non propriamente forbito (vedasi la reductio a “cazzate” delle fandonie promosse da pseudoveggenti certe che la Madonna passa il tempo a moltiplicare gnocchi in padella). Francesco dopotutto è colui che pochi mesi dopo l’elezione, davanti a una delegazione di religiosi sudamericani ammise l’esistenza di “una lobby gay in Vaticano” promettendo rapidi provvedimenti. Non proprio in linea con tale promessa fu la repentina chiamata in Vaticano di mons. Gustavo Zanchetta, già vescovo di Orán, nominato assessore dell’Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica, incarico creato ad hoc, mentre le procure argentine lo indagavano per violenza sessuale su due ex seminaristi. Anni dopo, la giustizia argentina l’avrebbe condannato a quattro anni e mezzo di carcere.
Resta da capire come il Papa, gran conoscitore dei mezzi di comunicazione e abile come pochi a servirsene per bypassare “gli organi di partito” (media vaticani) e le burocrazie curiali, si sia lasciato andare a considerazioni non proprio politically correct davanti a una platea di più di duecento vescovi, non tutti convinti seguaci del modello “Chiesa di periferia” e non desiderosi di guidare il gregge avendo “l’odore delle pecore”. Il Papa che da undici anni e mezzo tuona contro il chiacchiericcio – “le chiacchiere sono peggio del Covid”, ha detto una volta – parla di “froceria” in un’assemblea sì a porte chiuse, ma aperta ai pettegolezzi una volta che tali porte si sono aperte. Resta da vedere se il mondo che finora ha lodato le “aperture” di Francesco, il suo capire “lo spirito del tempo”, la sua misericordia tout court e che gli ha perdonato il “no” alla benedizione delle coppie omosessuali che pure lui stesso aveva approvato – la colpa venne affibbiata a mons. Giacomo Morandi, firmatario del non placet, poi spedito a Reggio Emilia – sarà disposto a comprendere lo scivolone del Papa che piace quasi a tutti. E come ciò s’inserisca nel pontificato che – per citare qualche titolo del passato più o meno recente – “apre alle unioni civili tra le coppie gay”. In attesa, naturalmente, di smentite, precisazioni, inquadramenti contestuali. O dell’ennesima intervista.