Molte polemiche si sono levate dopo le parole del Papa sulla “troppa frociaggine nei seminari” pronunciate davanti ai vescovi italiani, il 20 maggio scorso 

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Il Papa che piaceva al mondo

Matteo Matzuzzi

Paladino per anni delle sinistre laiche green e woke che l’attendevano come il Messia che avrebbe scardinato la Chiesa di sempre, Francesco è divenuto sessista e il più grande degli omofobi. Cronaca di una folle illusione
 

Nessuno, neanche il più arcigno oppositore del Papa, avrebbe mai pensato che un giorno di fine maggio, in prima pagina su un quotidiano di quelli seri e rispettati, Francesco sarebbe stato paragonato al generale Vannacci. Il generale dei gay che “non sono normali” e dei “tratti somatici di Paola Egonu che non rappresentano l’italianità”. Eppure è accaduto: i giornali nostrani (soprattutto) ma anche quelli stranieri hanno ripreso la battuta del Pontefice sulla “frociaggine” (o “froceria”, le fonti divergono) nei seminari. Secondo altri che erano lì presenti – cioè vescovi – avrebbe aggiunto riflessioni non proprio da lessico nobiliare sulle “checche”. Francesco, naturalmente, è finito subito nel mirino ben puntato di tutto quel mondo che da tempo l’aveva trasformato in santino della gauche globale, anche di quella un po’ caviar.

Massimo D’Alema, sei anni fa, disse pubblicamente che Bergoglio è il “più grande leader della sinistra”. In America i vari movimenti per la cancellazione del debito, per il salario minimo e per la riscossa degli ultimi facevano a gara per osservare che “se non fosse il capo della Chiesa cattolica, sarebbe certamente il nostro capo”. Amatissimo dalla folta categoria di quelli che “non credo, non entro in chiesa, ma lui mi piace”, finiva nel pantheon ideale dei laici che contano, fra Gandhi e il Dalai Lama, Mandela e pure John Lennon. Francesco ci stava bene. Dopotutto, “chi sono io per giudicare un gay?”, disse in una delle prime chiacchierate ad alta quota, quelle destinate a formare una categoria comunicativa specifica, tra pugni a chi offende la mamma e le perplessità su quanti fanno figli come fossero conigli (stava andando nelle Filippine…). Quella frase, “chi sono io per giudicare un gay?”, presa a pezzi e senza la fondamentale parte successiva “…un gay che cerca Dio”, è divenuta una citazione alla pari dell’I have a dream di Martin Luther King e dell’Ich bin ein Berliner di John Fitzgerald Kennedy. Usata e abusata, decontestualizzata e ridotta a manifesto da appiccicare qua e là, in strade e discorsi, in convegni e omelie. La rivista statunitense lgbtq+ Advocate ne fu talmente colpita che elesse Papa Francesco uomo dell’anno 2013. Finalmente aria fresca e pulita: la Chiesa accoglie tutti, tutti, tutti senza distinzione di razza, sesso e opinioni. Inciso: poi qualcuno dovrà spiegare quando un omosessuale – e per di più un omosessuale che cerca Dio, per dirla con il Papa – è stato cacciato da una chiesa. Bastava comunque questo per fare del vescovo di Roma un’icona. La stampa mainstream allora esaltava ogni passo lungo questa strada tracciata, recensendo e commentando con ardore e seria analisi i libri del missionario della causa lgbt James Martin quasi si trattasse di un’opera di Dostoevskij o Sartre, vescovi più o meno in vista facevano a gara per scriverne le prefazioni e per organizzare dibattiti, dialoghi, ogni tanto riflessioni con preghiere associate. Lo voleva il Papa, dicevano. E quel mondo – sempre quello del “non credo ma lui mi piace” – esaltava i documenti vaticani in cui si dava conto dell’avvio della raccolta differenziata della plastica, della scelta di usare solo bicchieri di carta, i piani d’Oltretevere per il risparmio energetico. Si prendeva l’enciclica Laudato Si’ e ne si ritagliavano esclusivamente le assonanze con i discorsi di Greta Thunberg, che veniva portata in piazza San Pietro e il conseguente saluto con Francesco finiva su bandieroni da sventolare e conversazioni da salotto impegnato.

Il mondo woke, molto green, assolutamente non convinto dalle religioni ma deciso cultore dello spirito-in-tutte-le-sue-forme (qualunque cosa voglia dire, ma va di moda dirlo, a quanto pare), di certo non binario, aveva una predilezione particolare per Francesco. Lo vedeva non tanto come il saggio nonno di famiglia, quello che gioca con i nipotini e spiega loro con parole semplici i segreti della vita e i misteri della fede. No, lo vedeva come l’uomo che avrebbe scardinato la Chiesa, svuotandola del suo aspetto trascendente e trasformandola in una delle tante organizzazioni non governative presenti sul pianeta. Come i montagnardi che invocavano la ghigliottina per far morire il re e con lui la monarchia. Basta con la vecchia Chiesa fatta di divieti e dogmi, di morali da rispettare e precetti da impartire. Eugenio Scalfari, ricostruendo una delle sue conversazioni magisteriali a Santa Marta, scrisse che la rivoluzione di Francesco è l’aver “abolito il peccato”. Poveri confessori, che ancora si ribaltano nelle loro tombe. Tutto s’adattava alla rappresentazione: via i vecchi orpelli, basta con quel che era rimasto dell’apparato antico e rinascimentale, rituali sacri e laici semplificati e parole in libertà.

Il Papa del popolo, popolare ma non populista si disse, che capisce dove va il mondo e vuole rendere più umana la Chiesa. Ospedale da campo, porte aperte a todos, todos, todos. Ha funzionato per anni, soprattutto in Italia dove l’estasi mistica degli intellò si palesava a ogni passo o verbo papale. Meno all’estero, dove le uscite non convenzionali di Francesco – vuoi sulla guerra, vuoi sulla morale famigliare, vuoi su certe fulminee passioni da Xi Jinping a Kirill di Russia – venivano analizzate e non di rado sottoposte a critica. Come del resto è stato fatto con ogni Pontefice del Novecento. E così l’immagine del Papa che tiene dentro tutto in nome della misericordia riscuoteva successi e le interviste, una dopo l’altra in un crescendo lirico e pop, ne suggellavano l’appeal presso le masse. Nascevano riviste a lui dedicate, una di queste (“Il mio Papa”) ne seguiva le giornate, i pranzi e le cene, gli incontri, gli aspetti conosciuti e quelli meno noti di Francesco. Devozione totale al Papa, come non si vedeva da decenni, forse dai tempi del “Papa buono” Giovanni XXIII. Fino alla battuta sulla frociaggine, che ha sconvolto piani e convinzioni ben cementate, mandando di traverso il tè nei salotti e le rotative nelle tipografie. Il teologo Vito Mancuso, non certo un nostalgico dei tempi che furono, sulla Stampa s’è detto sbigottito per le parole usate da Francesco: “Trasecolo davanti a questo tipo di comunicazione. Il suo carattere ha una parte aggressiva, che gli consente di attrarre l’attenzione ed essere incisivo, ma che ha pure un lato oscuro”. A ogni modo, “più che l’involgarimento vedo una parabola che lo consegna all’inconcludenza. Il suo papato è caratterizzato da grandi promesse e pochi risultati. Una settimana fa ha bollato come irrealizzabile il diaconato femminile. Se non si fa neppure quello, non vedo molto rinnovamento”.

Ma non sarà che il problema è stato affibbiare a Francesco una patente di rivoluzionario che non gli appartiene? Non sarà che più che l’esecuzione di un programma predisposto a tavolino agli albori del pontificato si sta assistendo molto più banalmente a una caotica alternanza di accelerazioni e frenate improvvise sui più disparati temi all’ordine del giorno, tra dichiarazioni, motu proprio e colloqui con fidati giornalisti? Si prenda proprio il diaconato femminile, richiesto a gran voce da settori non irrilevanti della Chiesa: Francesco ha istituito commissioni, s’è detto disponibile a studiare la questione, il Sinodo sulla sinodalità ne ha discusso e ha rimandato le conclusioni alla sessione del prossimo autunno. Il Papa però, in un’intervista a una tv americana, ha nel frattempo fatto sapere che non se ne farà nulla. Azzerando di fatto il lavoro di commissioni, episcopati e sinodi. 
Dopotutto, se i fan del Francesco liberal avessero scandagliato il complesso dei suoi interventi sui temi attinenti la morale, si sarebbero accorti che quella patente gli era stata data con una fretta a dir poco eccessiva. “L’aborto è un crimine, è fare fuori uno per salvare un altro, è quello che fa la mafia: affittare un sicario per fare fuori uno”, l’ha detto Francesco. E sempre Francesco ha definito il gender “uno sbaglio della mente umana”, “una bomba atomica contro il matrimonio”. Solo per fare due esempi. Anni fa, appena asceso al Soglio petrino, confessava a un gruppo di religiosi sudamericani che sì, in Vaticano “c’è una lobby gay” e per qualche seminarista che manifestava tali tendenze ipotizzò consulti psichiatrici, facendo balzare sulla sedia più d’uno.

La legge del contrappasso ha voluto che un decennio dopo quel “chi sono io per giudicare?”, Francesco sia oggi più o meno velatamente accusato d’omofobia. Chi gli dà del volgare, chi dell’inopportuno. Alessandro Zan ha scritto sui social che “non c’è troppa frociaggine, ci sono troppi omofobi”.

C’è chi lo accusa di machismo sudamericano, chi di parlare come un avventore di bettole bairensi. Dalla gloria alla polvere per un lancio di Dagospia. 
Qualcuno, anche nei Sacri Palazzi, sostiene che il finale del pontificato bergogliano ricalca quello di Paolo VI. Montini partì con le riforme da sviluppare in mezzo al Concilio, dopo secoli fu il primo Papa a viaggiare fuori dall’Italia – leggendario fu il volto sconvolto dall’emozione dell’allora Maestro delle cerimonie Enrico Dante quando, in latino, Paolo VI annunciò il viaggio in Terra santa –, mise all’asta la tiara, riformò i riti e semplificò. Aprì la Chiesa al mondo, celebrò la messa di Natale in una fabbrica a Taranto. Poi, quasi di colpo, si fece cupo. Percepì il fumo di Satana entrare da qualche fessura nel tempio di Dio, pubblicò l’Humanae vitae contro il parere di consultori, amici, vescovi e cardinali, sentì il peso della missione affidatagli e vide il Sole “che inesorabilmente tramonta”. 

Le cose paiono qui abbastanza diverse, Francesco non è affatto incupito dalle resistenze alle sue idee, nella sua Argentina fa saltare vescovi come birilli, in certe diocesi ne cambia anche due o tre in un anno (Mar del Plata), esce da casa sua, parla con i preti giovani e con quelli anziani, riceve suore e dignitari stranieri, visita città e programma visite in Belgio e Lussemburgo ed escursioni a Papua Nuova Guinea. Non c’è tetraggine, a Santa Marta e dintorni. Paolo VI desiderava morire in solitudine, senza le veglie di popolo che avevano accompagnato gli ultimi giorni di Giovanni XXIII. Non voleva i riflettori accesi sul suo ultimo respiro. Francesco parla dei suoi malanni, si mostra in carrozzina, si concede bagni di folla con vecchi e giovani, celebra la Giornata mondiale dei bambini sotto il sole romano di fine maggio, il giorno dopo essere stato con loro allo stadio Olimpico. 

Dopo undici anni di pontificato dovrebbe essere chiara l’impossibilità di costringere Jorge Mario Bergoglio in uno schema preconfezionato, men che meno se prevede la divisione pigra fra “conservatori” e “progressisti”. Francesco è, molto più semplicemente, imprevedibile. Umorale. E’ il Papa che autorizza il dicastero per la Dottrina della fede a dare il non placet alla benedizione per le coppie omosessuali e poi, pochi giorni dopo e davanti al clamore suscitato nel mondo, quasi chiede scusa. E dopo anni approva Fiducia supplicans che quelle benedizioni le autorizza (poi si chiarisce che si benedicono le persone e non la coppia e per non più di venti secondi); documento che terremota la Chiesa di mezzo mondo esponendo a figure barbine il cardinal prefetto Fernández, di cui vengono riportate alla gloria sue antiche pubblicazioni giovanili di dubbio gusto. Fino alla “troppa frociaggine”. Anche chi, per smentirne l’anima di rivoluzionario sui temi morali, però, si trova in difficoltà: il Papa che parla di aborto come di un crimine di mafia è lo stesso che loda Emma Bonino come “grande italiana di oggi” (anno 2016). In Argentina dicono che nulla sorprende: dopotutto, quando fu eletto Pontefice, i primi veloci ritratti raccontavano che Jorge Mario Bergoglio invitava le suore a marciare contro  l’aborto parlando loro dell’agire maledetto di Satana, salvo poi ritirarsi dalla battaglia quando si trattava di tenere buoni rapporti con il clan dei Kirchner. Non è inquadrabile né riducibile a banali categorie. E’ poliedrico: il poliedro è meglio della sfera. Nel poliedro ogni faccia è diversa, nella sfera tutti i punti sono uguali e sono equidistanti dal centro. Quest’immagine, in fin dei conti, l’ha inventata lui.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.