La santità del prete. Al di là della frase del Papa, resta una questione ineludibile
Tra i vescovi italiani, sostegno alla linea di Francesco ma resta il dibattito non aggirabile sulla giustificazione teologica per l'esclusione di seminaristi omosessuali
Dopo l’affermazione di Papa Francesco sulla “troppa frociaggine” (sic) nei seminari, non si placano le polemiche nei circoli privati (cattolici e non) e sui mass media. Le critiche aspre seguono due direzioni. Vi è chi deplora come disdicevole il linguaggio triviale del Santo Padre (con attenuanti attribuite alla non familiarità con alcuni termini della lingua italiana o alla foga nel rispondere alle domande) e chi colpevolizza la violazione della confidenzialità dell’incontro del Santo Padre con i vescovi italiani. Questi ultimi, con rare eccezioni, concordano con la richiesta di Francesco di non ammettere nei seminari chi vive la sessualità nella forma omofila e approva, in questo, sé stesso e gli altri. Tra i preti e i fedeli, una buona parte ha accolto con un respiro di sollievo la richiesta del Papa. Ma non mancano tenaci resistenza e aperto dissenso di singoli e associazioni di attivisti.
Quando il fuoco acceso dall’espressione del Pontefice si sarà spento, resta una questione ineludibile. Se il rettore del seminario e il vescovo devono chiedere a un giovane omosessuale di non entrare in seminario o di interrompere il cammino verso il sacerdozio, che ragione (teologicamente, moralmente e spiritualmente robusta) devono esibire per questo diniego? È troppo debole – francamente inaccettabile per chi vuole verificare concretamente la propria vocazione al ministero ordinato – usare argomentazioni oblique che fanno riferimento a una “inopportunità pastorale” (molti fedeli fanno fatica ad accettare preti gay, o altro), al “pericolo di scandalo” (atteggiamenti o stili di vita non conformi alla figura del sacerdote che possono venire usati contro di lui e la Chiesa), al “rischio” di atti di pedofilia o violenza sessuale su giovani e adulti, oppure alla “difficoltà” di rapportarsi serenamente con uomini e donne.
Considerazioni da non trascurare. Ma non possono costituire lo zoccolo duro per un allontanamento dal seminario di chi mostra tenace vocazione e qualità umane e cristiane per diventare prete. Il seminarista (o aspirante) ha diritto, come credente, di udire ragioni adeguate, corrispondenti al cammino vocazionale che intende intraprendere e per il quale deve essere ascoltato e valorizzato da chi è preposto al discernimento.
Spesso si dimentica che i preti sono credenti chiamati a “vivere il loro sacerdozio come cammino specifico verso la santità” (san Giovanni Paolo II, Esort. Ap. Pastores dabo vobis, 82). La prima e fondamentale verifica è se esiste qualcosa nella vita del seminarista che sia di ostacolo non eliminato nel cammino verso la santità cui è chiamato. Ogni “vizio” (anche se è un “vizietto”, come si dice) – ossia il persistere deliberatamente nel peccato considerandolo “di poco conto” o addirittura non un peccato, anziché intraprendere un serio cammino di conversione permanente, con la Grazia di Dio e l’aiuto di una guida spirituale – è certamente ostativo nei confronti della santità del prete. La prima questione non è l’“orientamento sessuale omofilo” di alcuni chierici (a prescindere dalla sua eziologia: congenito o acquisito nel corso dello sviluppo preadolescenziale, adolescenziale o giovanile, in relazione agli ambienti frequentati, alle amicizie o altro), non sono solo le “pulsioni forti o deboli”, ma la decisione ferma, il proposito verificato negli anni del seminario, di vivere la “castità” chiesta dal celibato per il Regno di Dio. Pur sapendo di poter cadere, la capacità di sapersi rialzare innumerevoli volte e camminare di nuovo sulla via della santità non può mancare, con una sincerità di cui il vescovo deve avere testimonianza da chi ha accompagnato il seminarista.
Solo l’argomento della santità è ultimamente cogente. Gli altri sono accessori, contingenti, e possono diventare anche strumentali o fonte di ingiustizia. Vivere la sessualità omofila sapendo che essa è contraria alla legge di Dio, sceglierla con deliberato consenso e con piena avvertenza degli atti che si compiono, è contrario alla santità di tutti i credenti, qualunque sia la loro vocazione. La vocazione al sacerdozio non può prescindere da un cammino di santità. Non tutti i preti diventano santi, ma rinunciare a questa strada non è un bene per loro stessi e per la Chiesa.
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