Che spettacolo questo Papa
In quattordici ore passa dalle foto con Jerry Calà ai bilaterali con Biden e Zelensky. Francesco perennemente sotto i riflettori è un avvertimento a chi pensa di aggiornare il papato: non esiste una star più globale di lui
Dall’udienza con i comici al summit con i potenti del mondo. Il 14 giugno di Papa Francesco è il compendio perfetto del suo pontificato. Chi pensasse a un rallentamento delle attività, cadrebbe in errore: Bergoglio viaggia e scrive prefazioni a libri. Concede interviste, offre scoop e si lascia andare a commenti ben poco pol. corr. È un maestro della comunicazione
Com’è stata la vostra giornata? chiedeva giorni fa il profilo nonleggerlo su X, aggiungendo che la giornata di qualcun altro era stata piena: “Oggi Papa Francesco ha conversato con Joe Biden, Jerry Calà, Javier Milei, Panariello, il re di Giordania, Lino Banfi, Emmanuel Macron, Giuseppe Giacobazzi, Ursula von der Leyen, Pio e Amedeo, Jimmy Fallon, Olaf Scholz, il mago Forrest, il mago Oronzo, Giorgia Meloni, Geppi Cucciari, Whoopy Goldberg, il presidente degli Emirati Arabi, Christian De Sica, Lula, Elio, Luca Bizzarri, Modi, Luciana Littizzetto, il presidente della Banca Mondiale, Aldo Giovanni e Giacomo, Cochi di Cochi e Renato, Justin Trudeau, Ale e Franz, Volodymyr Zelensky, Enrico Brignano, Chris Rock, Erdogan, Nino Frassica, Rishi Sunak, Enrico Beruschi, Fumio Kishida, Massimo Boldi”. Era venerdì 14 giugno, Francesco era la guest star del G7 italiano in terra di Puglia, lì era atteso all’ora di pranzo per parlare di intelligenza artificiale e per i programmati “dieci incontri bilaterali” con i leader di mezzo mondo. Abbracci, battute, sorrisi. Prima, però, c’era da salutare i comici in Vaticano per l’udienza concessa “agli artisti del mondo dell’umorismo”. Discorso – “Il sorriso fa buon sangue, giusto?” – strette di mano e una miriade di selfie. Il tempo pure per l’udienza al presidente di Capo Verde e ai vescovi della Guinea equatoriale, quindi rapida salita sull’elicottero e via verso il summit, dove s’è fermato fino a sera. Prima di decollare alla volta di Roma, quando il sole era ormai tramontato sugli ulivi pugliesi, un salutino a Joe Biden. In quattordici ore, da Jerry Calà a Volodymyr Zelensky. John Allen, grande vaticanista americano, ha scherzato sul “cast” di personaggi sfilati in quel giorno davanti alla sedia papale, ma su un punto è stato serissimo: chi dovesse pensare di immaginare nuove forme da dare al papato, non sottovaluti mai il suo potere stellare.
In Italia qualche indomito spirito mazziniano contestava l’invito al Papa fattogli da Meloni, ricordando la separazione fra stato e Chiesa: che c’entra il Pontefice a un summit con i laicissimi governanti del globo? Per di più un Pontefice che ha l’ardire di suggerire a Macron & Co. La lettura del Padrone del mondo di Robert Hugh Benson, dove si parla di uno che in nome dell’umanitarismo e del comunismo finisce per l’abbattere la Chiesa cattolica e conquistare il mondo. Chissà se qualcuno dei notabili lì convenuti sapeva di costa stava parlando Francesco, forse il cattolico Joe Biden, chissà. Sta di fatto che quando il Papa è entrato nella sala, seduto sulla sua carrozzina, tutti si sono ammutoliti e alzati in piedi. Niente più pettegolezzi su quanto è di destra Meloni, stop al confabulare su come impallinare Ursula von der Leyen e le sue alte aspirazioni, pausa nel negoziare con Zelensky su nuovi invii di denari e armi per resistere all’invasore russo. Entra il Papa e tutti si fermano. Già questo era il riconoscimento dello standing dell’illustre ospite. “Il segretario generale dell’Onu potrebbe fare qualcosa del genere? Forse. Quasi certamente, però, non c’è nessun altro nel mondo delle religioni che potrebbe farlo. Forse il Dalai Lama prima dei suoi recenti scandali, o il vescovo Desmond Tutu ai suoi tempi, ma si trattava di un carisma personale piuttosto che del potere dell’ufficio”, nota Allen. Anche perché non è da tutti riuscire a portare in Vaticano, e per di più alle 8.30 del mattino, Whoopy Goldberg per una battuta e una foto da attaccare sull’album di famiglia.
Che spettacolo, questo Papa. Francesco, con i suoi 87 anni e mezzo e gli acciacchi dell’età, è una star hollywoodiana, come quelle dei tempi d’oro: viaggia (in meno di due mesi è stato a Venezia, Verona, Borgo Egnazia; andrà a Trieste a luglio, quindi in Papua Nuova Guinea, a Timor est e in Indonesia. Poi in Belgio e Lussemburgo), incontra gente, firma prefazioni e introduzioni a libri dal più svariato tenore. Parla, a ruota libera e senza preoccuparsi più di tanto delle conseguenze di quel che dice. Riceve i vescovi italiani per l’assemblea generale di primavera e – in camera caritatis, come dice il cardinale Matteo Zuppi – rispondendo alla domanda di un vescovo sui seminari parla di “frociaggine” e di problemi psicologici di seminaristi che cercano lì rifugio dai propri problemi personali. Per una settimana la parola è rimasta solo nei conciliaboli, vuoi divertiti vuoi scandalizzati, dei presuli. Poi è uscita con l’ovvio fragore. Il Vaticano s’arrabattava e diffondeva un comunicato di scuse, ricordando che per il Papa nella Chiesa c’è posto per todos, todos, todos. James Martin, devoto alla causa lgbtq+, prima taceva e poi inondava i social di foto di lui inginocchiato mentre riceveva la benedizione papale, alla stregua degli antichi missionari spediti dal Papa al seguito dei conquistadores spagnoli. La corte di Santa Marta prima se la prendeva con la fuga di notizie, poi con i conservatori cattivi che spifferavano a siti e giornali quel che il Pontefice diceva in modo riservato (c’erano comunque più di 230 persone, lì dentro). Quindi con il fatto che Francesco non parla bene italiano bensì “piemontese”. Anche se “frociaggine” non pare proprio essere lemma comune tra Mondovì e Casale Monferrato. E infatti, passavano pochi giorni e il Papa rincarava la dose: ma quale incomprensione! Incontrando i preti romani, si faceva più chiaro. La frociaggine c’è ed è pure in Vaticano, aggiungeva. Poi le ricostruzioni divergevano, c’è chi parlava di commenti sul chiacchiericcio che è roba da donne, altri che sono gli uomini che devono parlare perché portano i pantaloni. Commenti che, se non fossero verbo papale, sarebbero finiti nel mirino dei cultori del bon ton pol. corr. e dei censori del sessismo imperante. Per ora, sono state solo affisse su cartelli e striscioni al Pride romano.
Francesco rilascia interviste fluviali, una dopo l’altra. A tv svizzere e italiane, messicane e americane. E ogni volta fa – come si dice in gergo – il titolo: rivela qualcosa di nuovo, uno scoop su riforme attese della Chiesa o su malcostumi vaticani. Terremota la geopolitica, tra i latrati della Nato e le bandiere bianche da sventolare. Poco tempo fa, alla Cbs, tra un commento e l’altro sui più svariati temi all’ordine del giorno, ha detto che il diaconato femminile non si farà. Colpo di scena. Proprio lui negli anni scorsi ha istituito non una, ma ben due commissioni per studiare la cosa. Il Sinodo sulla sinodalità /parte prima si è concluso con l’auspicio di andare avanti nello studio e nella riflessione. Alla riunione del C9, il consiglio cardinalizio, ha chiamato teologhe e vescove protestanti per capire quanto è bello avere le diaconesse. Tutto, insomma, faceva pensare al via libera. Invece, in barba a sinodi e collegialità, in pochi secondi alla tv americana ha detto “no”. Lasciando di sasso collaboratori e fan dell’innovazione, convinti che di tutto il mare magno di riforme e rivoluzioni, questa fosse quella più facile da attuare. Anche per sedare i moti degli episcopati più spinti nell’invocare nuovi modelli di Chiesa (vedasi, a titolo esemplificativo, la Germania). Invece no, per ora. Poi si vedrà: magari in un’altra intervista, in una prefazione a un libro o in qualche chiacchiera con un giornalista amico, Francesco farà sapere che tutto sommato il diaconato femminile non è una brutta cosa e se ne può riparlare.
E’ anche l’imprevedibilità di Jorge Mario Bergoglio a renderlo unico nel panorama dei leader globali. Non vuole essere costretto in club identitari, rifiuta categoricamente l’allineamento della Chiesa cattolica con i “valori occidentali” e ha fatto di tutto nel suo pontificato per renderlo chiaro: pochissimi viaggi al cuore d’Europa, visite alle periferie del continente e del mondo, intese con Vladimir Putin e desiderio di approfondire i rapporti con la Cina di Xi Jinping. Va negli Stati Uniti? Sì, ma prima pretende una sosta – tutt’altro che casuale – nella Cuba di Raul Castro. Ed è lì, sull’isola ribelle, che vorrà incontrare Kirill di Russia. Tornando alla domanda di Allen: quale altro leader mondiale ha oggi la stessa statura internazionale del Pontefice? Quale altro capo di stato o di governo viene accolto con tutti gli onori da Erdogan e Biden, Sunak e Macron dopo aver detto solo nell’ultimo biennio che della Nato è meglio non fidarsi troppo e che il suo allargamento a est ha, in fin dei conti, provocato Mosca? La risposta è ovvia, nessuno. E anche Zelensky, che in passato non ha lesinato in critiche al Pontefice – è sufficiente rileggersi il comunicato che seguì l’udienza del maggio 2023 in Vaticano – stavolta ha ringraziato pubblicamente Francesco per l’aiuto e la comprensione. Lo standing internazionale del Papa, oggi, è dato più dal suo essere capo di stato che dall’essere un leader religioso. Sì, certo, gli appelli alla pace universale sono apprezzati e apprezzabili, ma la camera di decantazione dei conflitti che rappresenta la Santa Sede gode ancora oggi di un prestigio raro. E lo si deve, in gran parte, alla realpolitik perseguita da questo pontificato, che consente a Francesco di intrattenere buoni rapporti con chiunque, dall’ateo al fervente cattolico.
Non c’è mai una sosta con Francesco, anche quando il lento scivolare nella calura estiva porterebbe a immaginare un allentamento dei ritmi. Errore capitale, come dimostra quanto accaduto l’altro giorno, inizio ufficiale dell’estate. Mentre le polveri desertiche rendevano bianco latte il cielo romano, ecco che si ufficializzava la convocazione dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò, chiamato a rispondere del “delitto di scisma”, il più grave. Pena prevista, in caso di condanna, la scomunica. Il monsignore, già nunzio negli Stati Uniti, è accusato di aver rilasciato “affermazioni pubbliche dalle quali risulta una negazione della legittimità di Papa Francesco, rottura della comunione con lui e rifiuto del Concilio Vaticano II”. Viganò, anziché chiedere perdono dallo sconosciuto luogo in cui da tempo s’è ritirato e da dove invia nell’etere messaggi apocalittici contro il Papa, i vaccini, Soros e la “cabala globalista”, ha detto che il processo è per lui un onore, confermando che Bergoglio non è il Papa legittimo e che “il Concilio rappresenta il cancro ideologico, teologico, morale e liturgico di cui la bergogliana ‘chiesa sinodale’ è necessaria metastasi”. Si è anche paragonato a Lefebvre, giusto per non farsi mancare nulla. Sembrava che al Pontefice poco importasse di questo ex nunzio che dal 2018 gli chiedeva di dimettersi: l’aveva snobbato, lasciato ai suoi comunicati in cui mischia politica e trascendenza, ignorandone gli attacchi personali. E non appena la guardia s’è abbassata, ecco il processo intentato dal dicastero per la Dottrina della fede. Un avvertimento anche a chi – e non sono poi tanti, a dire il vero – pensasse di seguire le vie dell’arcivescovo ribelle.
Si conferma il grande paradosso di questo pontificato, incardinato a parole su sinodalità e collegialità. L’idea che il governo (e più in generale il potere) possa essere condiviso. Un pontificato in cui è passato il concetto, mediaticamente senz’altro, che valga più il cum Petro che il sub Petro. Da qui le intemerate degli episcopati riformisti, con gli ultimatum spediti a Roma che poco o nulla hanno prodotto in concreto. Ma è apparenza, come dimostra il percorso sinodale giunto alla sua fase conclusiva romana, assimilabile un po’ a una sorta di gigantesca seduta psicologica: i vescovi discutono con i laici, le donne vengono chiamate a dare la loro opinione su come porre fine alla dimensione “maschile” della Chiesa. Casarini parla del suo travaglio interiore che l’ha portato dal G8 di Genova all’Aula Nervi. Alla fine, però, sulle questioni davvero importanti, a decidere è uno e uno soltanto: il Papa. Che non ammette obiezioni. E se serve a smussare l’imperiosità dell’agire, c’è sempre una telecamera accesa per parlare d’altro, lasciare da parte le questioni più divisive e conquistare i cuori del popolo fedele e pure di quello che “non credo in Dio ma Francesco mi piace”. Poveri, guerre e carestie, bambini e nonni, passeggini vuoti e mercanti d’armi. Che spettacolo, questo Papa.
Editoriali
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