riorganizzazioni

Senza preti né fedeli, la Chiesa è costretta a ripensarsi

Manila Alfano

Da Tortona a Milano, le diocesi alle prese con le sfide contemporanee. Tra inventiva e realismo, la profezia di Ratzinger è a metà del suo percorso

Cede anche Tortona. Riorganizzazione è la parola d’ordine che dai corridoi della curia ha varcato la soglia e si è sparsa rapidamente tra le parrocchie: 313, la maggior parte in Oltrepo, le altre nel tortonese, piacentino e genovese, quattro diverse regioni coinvolte. Riorganizzazione dicono, che significa liberarsi del superfluo, di tutto ciò che non è essenziale, perché i numeri non tornano e si arranca. Si rinuncia, a partire dalla gestione di residenze per anziani e degli asili nido e si sacrificano le chiese più piccole e meno frequentate. Mancano i preti e mancano i fedeli. “Non è certo una novità, e nelle valli poi è un disastro e il Covid ha solo accelerato un processo che era già in corso”, spiega il pro vicario generale della diocesi di Tortona, don Francesco Larocca. E così ecco la realtà: tante chiese, cappelle, parrocchie, oratori disseminati in un vasto territorio e un solo prete costretto a girare da un paese all’altro. Come si fa?

  

È il culto ordinario che traballa, che non sta più in piedi perché oggettivamente mancano le forze, manca il tempo perché bisogna correre a dire messa dall’altra parte, davanti a una manciata di fedeli. Si riorganizza, cioè si limita, si riduce, si chiude. Si punta all’essenziale. “Si vuole scongiurare l’immagine del parroco-macchinetta, un funzionario che deve rinunciare al rapporto umano squalificato dalla furia e dal tempo che stringe. Vogliamo concentrarci sull’essenziale, annunciare il Vangelo e sulla vita pastorale”. Un po’ si è costretti a giocare in difesa in quest’Italia dalle chiese vuote e desolate. È la nota profezia di Ratzinger che si dispiega: una Chiesa cattolica di minoranza, ridimensionata, costretta “a ripartire dalle origini”. Lo aveva spiegato il giorno di Natale, ultima lezione di un ciclo di conferenze radiofoniche. Era il 1969 e il mondo sembrava cappottarsi a gambe all’aria. Un anno prima erano iniziate le contestazioni studentesche, i giovani non si riconoscevano più nei valori dei padri, e gli echi delle dispute sul Concilio Vaticano II non accennavano a diminuire. “Dalla crisi odierna – affermava – emergerà una Chiesa che avrà perso molto. Diventerà piccola e non sarà più in grado di abitare gli edifici che ha costruito in tempi di prosperità”. Allora sembrava una realtà lontana, oggi il processo è sotto gli occhi di tutti. In Olanda hanno da tempo messo in vendita le cattedrali, in Francia – si ipotizza – entro il 2030, cinquemila chiese rischiano di sparire. I motivi sono diversi e di diversa importanza; a causa della secolarizzazione da un lato, e per il deteriorarsi degli edifici. (Ormai stanziare fondi per ristrutturare una chiesa porta sempre meno voti). I risultati sullo stato del patrimonio religioso è non solo allarmante, ma mostra fino a che punto i luoghi di culto cattolici, onnipresenti sul territorio rischiano di sparire nel giro di breve. Non solo una questione di culto, ma di cultura, di radici comuni che hanno a che vedere con la storia e con la memoria. 

In Italia, Tortona non è certo un caso isolato. “È un processo che va avanti già con il precedente vescovo, mons. Vittorio Viola”, spiega don Paolo. Il piano della riorganizzazione parte da lontano, con le aggregazioni di parrocchie chiamate a lavorare insieme promossa già dal 2015. “Un periodo di sperimentazione cui oggi si aggiunge un ulteriore tassello: la fusione o incorporazione delle parrocchie che per scarsità di forze non giustificano più la loro individualità. Non ci fa piacere naturalmente doverlo fare, ma dobbiamo andare incontro al futuro in modo costruttivo, creare nuove modalità. È evidente che certe realtà non possono stare in piedi e chiudere alcune parrocchie che fino a quindici anni fa erano a pieno regime è inevitabile. Oggi occorre polarizzare, creare una rete di responsabilità laicale sempre più forte e a supporto, fare proposte mirate, concentrarsi sulla pastorale giovanile”. 

  
Si ridisegna una nuova geografia fatta di confini nuovi, in un’Italia di chiese che prima si svuotano e poi chiudono. L’uomo farà esperienza di “indescrivibile solitudine” metteva in guardia Ratzinger e “avendo perso di vista Dio, “avvertirà l’orrore della povertà”. 
La crisi strutturale si sente anche fuori dalla cerchia dei preti diocesiani. “Dei 43 conventi agostiniani degli anni Novanta oggi ne sono rimasti venti. Eravamo in 230 nel 1996. Oggi siamo rimasti in 106”, spiega padre Francesco Giuliani, parroco del Santuario di Santa Rita a Milano. “Il dilemma lo abbiamo anche nel nostro ordine: diversificarsi uno per convento e dare così un servizio minimale o piuttosto riunirsi e chiudere? Io credo che più che organizzazione bisognerebbe avere il coraggio di chiamare il processo con il proprio nome: riduzione. E meglio guardare dritto in faccia la realtà, senza pudore, senza inutili sensi di colpa”. Gli schemi del passato non reggono più, così come il tradizionalismo del passato prevede un meccanismo che non ha più i numeri per sostenerlo, nonostante la costernazione dei fedeli rimasti spaventati dai cambiamenti.  “Noi nella diocesi di Tortona, continua don Paolo, come già altri prima di noi ci siamo posti il tema di dare la giusta dignità alle liturgie. Con pochi fedeli mantenere lo standard alto è difficile, scarseggiano i volontari alla lettura durante la celebrazione, i catechisti per i bambini, per non parlare del coro che sarebbe un elemento importante della liturgia ed è ormai un miraggio”. È d’accordo anche padre Giuliani: “A causa della riduzione dell’organico non tutte le chiese sono in grado di confessare, occorre piuttosto unire le forze. Proprio come diceva Ratzinger, secondo cui il cristianesimo sarà in piccole comunità, non più grandi, ma ristrette, dal sapore quasi famigliare, in cui non si parteciperà tanto per dovere come si fa forse oggi in alcuni casi, ma per vera convinzione. E ne avremo guadagnato in qualità”.  

Si torna ancora a lui, al giovane teologo bavarese in fuga da Tubinga, rifugiato nella più tranquilla Ratisbona da cui si affacciava per interpretare il futuro. È da lì che al microfono della radio assicurava: “Sarà un processo lungo, ma quando tutto il travaglio sarà passato, emergerà un grande potere da una Chiesa più spirituale e semplificata”. Il processo sembra essere solo a metà.

Di più su questi argomenti: