il libro
Quando la fede disorientata si perde nella vaghezza di un “chissà”
Trasformare le parole in azioni, con semplicità. La vera questione è la disposizione dell'animo e l'adesione alla fede, che catalizza il bene del mondo attraverso la comunione. Un estratto di “Una rivoluzione di sé” (Rizzoli) con le lezioni inedite di don Giussani
Pubblichiamo un estratto di “Una rivoluzione di sé”, il volume edito da Rizzoli (324 pp., 17 euro), da ieri in libreria, che raccoglie le lezioni inedite tenute da don Giussani nei primi anni della contestazione giovanile. Il testo qui riprodotto fa parte della lezione “Il problema è la fede (4 novembre 1968, mattina)
E adesso bisogna “fare” la parola, bisogna che noi “facciamo” la parola che ci è stata detta, perché (…) si possa dire anche di noi che “le parole che dicono sono i fatti della loro vita”. Le parole che ci sono state dette devono essere ripetute, riecheggiate da noi, perché questa è la dialettica e la traiettoria del comunicarsi del mistero di Dio nel mondo. La parola è detta a me perché io la dica ad altri. Ma la mediazione tra la prima parola e la seconda parola sono i miei fatti. E qui, più che mai, la povertà di spirito, cui abbiamo accennato fin dalla prima sera, si dimostra essere la condizione. La Liturgia usa, come sinonimo di “povertà dello spirito”, il termine “semplicità”, riprendendolo dalla Bibbia, in quell’Offertorio della Messa del Sacro Cuore, che abbiamo tante volte citato in questi lunghi anni di cammino insieme.
Lo dico in latino perché l’ho in mente in latino: In simplicitate cordis mei laetus obtuli universa, nella semplicità del mio cuore, ho dato tutto, ho riconosciuto che Dio è tutto, ho riconosciuto che il Suo Mistero nel mondo è tutto, et populum Tuum vidi, cum ingenti gaudio Tibi offerre donaria, e proprio per questo io ho visto tutto il popolo, tutto il mondo in quanto chiamato, offrirti i suoi doni. Questo coinvolgimento profondo e cosmico, questo coinvolgimento universale, cattolico, non può essere determinato che dalla mia semplicità di riconoscimento e di offerta. Questa è l’alluvione che deve avvenire dentro di noi, che deve portare via tutta la crosta grossa e spessa, tutto il peso (Corpus enim quod corrumpitur aggravat animam). Et populum Tuum vidi, cum ingenti gaudio Tibi offerre donaria. Domine Deus, custodi hanc voluntatem cordis eorum, Signore Dio, custodisci questa volontà del loro cuore. Quest’ultima parte sarà il contenuto dell’ultimo gesto che compiremo insieme questi Tre Giorni, della Messa che diremo nella chiesa parrocchiale. Ma il richiamo alla semplicità del cuore, il richiamo a questa povertà dello spirito, da cui dipende quella nostra disponibilità attiva, quel nostro spalancarci all’urto con cui Dio ha colpito la nostra crosta, la crosta della nostra terra, è un richiamo che ognuno di noi dovrebbe fare all’altro tutti i giorni della nostra convivenza. Io capisco, sento, vedo che oramai il vero problema per noi (per la stragrande maggioranza di noi, se non proprio per tutti al cento per cento, al 99,99 per cento) è un problema di disposizione dell’animo. Il vero problema è un problema di premessa. Certamente in essa, nel porsi di questa premessa, sta il primo miracolo di Dio, ma è anche il primo impegno della nostra libertà. Oramai non ci rimane altro che fare veramente quello che la meditazione ci ha portato a percepire e a incominciare a definire in questi mesi: è il fondo della questione.
Per quante volte ci siamo incontrati, possiamo ben dirlo, possiamo ben riconoscere che il discorso di questi giorni rappresenta il fondo della questione, rappresenta tutta la questione (per questo l’altro richiamo fatto sulla comunione c’entra in un modo massiccio): è il problema della fede. Fuori di questo discorso, della adesione a questo discorso, la fede ricrolla immediatamente in quella vaga situazione umana, in quel sentimento naturale che si può tradurre con sincerità soltanto in una parola: “Chissà…”, in una impersonale attesa, che indubbiamente ne costituisce la premessa naturale, ma che si è definita nella nostra storia e nella nostra esistenza. Io credo che l’espressione dei cecoslovacchi citata ieri sera dalla nostra amica di Forlì possa diventare lo slogan della nostra coscienza: “Noi vogliamo ‘fare’ la comunione, qualunque sia il nostro futuro”. E’ l’imperativo che è nato dal discorso dell’altro ieri ed è l’urgenza per l’amore al mondo che abbiamo, così come è stato insinuato nel discorso di ieri.
Il bene al mondo, il bene agli uomini, il bene alla società, il bene del mondo passa attraverso il nostro realizzare la comunione. È attraverso la nostra comunione che si catalizza il bene del mondo, che tutta l’aspirazione al bene, che tutti i tentativi di bene trovano il loro criterio, il loro punto valorizzatore, il loro punto autenticante, di autenticità. Certo, questa è fede. Ma se la fede ha la sua difficoltà nel porsi, poi è una immensa ricchezza, un immenso, ricco spettacolo di verifica.
Dopo la fatica del porsi, c’è tutta una storia densa, intensa, di verifica affascinante. Per quanto meschina e piena di reticenze, per quanto accanitamente incoerente sia la nostra vita, eppure possiamo già sottoscriverlo questo, possiamo già dire di quanta esperienza di ricchezza, di quanta storia piena di significato sia origine il sacrificio della fede. Se nella nostra vita viene meno questa esperienza, è perché viene meno la nostra adesione di fede. La fede è oscura nel suo arrivare, come dice l’Ingresso della Messa del Natale in rito romano: “Mentre tutte le cose sono tenute dall’oscurità della notte, la luce di Dio è venuta”; la fede è tutta nell’oscurità dell’inizio, ma poi è piena di luce. Nella misura della nostra semplicità di cuore, certo, della semplicità della nostra adesione.
Il cristianesimo non è utopia