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il ritratto

Zuppi di lotta e di governo. Vita e miracoli del presidente della Cei

Matteo Matzuzzi

Destra e sinistra, piazza e sagrestia. La vocazione nata a Sant’Egidio, le missioni di pace per conto del Papa. Ritratto dell’uomo che ha riportato la Chiesa al centro del dibattito politico e che qualcuno vedrebbe bene vestito di bianco

cIl più grande mistero che riguarda il cardinale Matteo Maria Zuppi, don Matteo per amici di una vita e fedeli che amano il loro arcivescovo, è come faccia a incastrare nella sua agenda, che ampia e profonda dev’essere quanto la mitologica borsa di Mary Poppins, tutti gli impegni che ha. Governare la diocesi di Bologna (non propriamente, e con tutto il rispetto del caso, un insieme di villaggi di Trinidad & Tobago), fare il presidente della Conferenza episcopale italiana, partecipare agli eventi cui è invitato da nord a sud, fra cerimonie per quel santo patrono o per quella ricorrenza plurisecolare cara al devoto popolo locale. E poi le missioni internazionali disposte dal Papa, il tour per la pace a Kyiv e Mosca, a Pechino e Washington. Giornate di quarantotto o fors’anche di settantadue ore. Passa da una presentazione libraria organizzata da centri del cattolicesimo della sinistra attivista ai vespri nel rito tradizionalista al Pantheon di Roma in un tripudio di latinorum e incenso, salta dalla presenza e celebrazioni della più forte devozione popolare alla chiusura del festival di Repubblica. Un anno fa, la visita alla festa di Rifondazione comunista a Borgo Panigale, con il segretario nazionale del partito – forse preda dell’emozione – sicuro che su pace guerra Russia e Ucraina le sue idee fossero assolutamente le stesse del cardinale. Destra e sinistra, piazza e sagrestia. Dall’alba a ben oltre il tramonto. Perfetta rappresentazione del “prete di strada e d’altare, capace di sintetizzare la dimensione popolare orizzontale e la verticalità della liturgia”, come disse di lui il teologo Vito Mancuso. Una vita che metterebbe alla prova la scorza del più convinto e dinamico globetrotter. Scherzosamente, qualcuno aprì pure una pagina su Facebook: “Zuppi che fa cose”. “Mi affido alla Madonna di San Luca”, disse lui con un misto di ironia e sincera venerazione quando il plenum della Cei lo elesse presidente, ulteriore impegno a una mole di impegni già impressionante. Chiamato a gestire vescovi ciascuno con le proprie idee, chi più battagliero chi più riflessivo, chi con il cuore “a destra” e chi invece con ogni parte del corpo e dello spirito ben piazzati dall’altra parte. Duecento e passa presuli da riunire e ascoltare, mediando e cucendo, facendo sintesi e smussando angoli non sempre benigni. Ascoltando preci e capendo le lamentele, anche di quanti hanno visto spezzarsi i propri sogni di gloria e carriera. Don Matteo ascolta tutti, poi decide perché il ruolo glielo impone: dopotutto è un arcivescovo presidente, non un giudice di pace né un consulente matrimoniale. Tantomeno uno psicologo. E sa anche agire con coraggio, come quando ha ribattuto punto su punto, in una conferenza stampa, ai tanti che gli chiedevano nomi e cognomi di preti e vescovi presunti abusatori, di scandagliare archivi e riaprire tombe, legittimando la furia giacobina che sventolava cappi dinanzi a vescovi ritenuti colpevoli per il solo fatto di portare una croce pettorale al collo. Niente sondaggi anonimi à la francese, con cifre uscite dai computer di istituti demoscopici che certificavano migliaia di abusi e costringevano la Chiesa a scusarsi e a vendere i propri immobili senza sapere bene chi e quando avesse commesso il delitto: “La nostra lotta sarà una via italiana. Dobbiamo serietà alle vittime. Indagheremo i casi dal 2000 al 2021”. 

“Perché non prima? Perché è molto più serio così, a noi interessa affrontare le cose che conosciamo. Bisogna evitare il rischio di minimizzare ma anche di amplificare. Non vogliamo discutere come visto in Francia: vogliamo prenderci le nostre responsabilità e ce le siamo già prese”, disse due anni fa scontentando subito associazioni di vittime e guardoni che esigevano nomi e cognomi dei sospettati da dare in pasto alle articolesse e ai talk-show pomeridiani. No, la mostrificazione no, chiarì col sorriso il cardinale presidente. 

E il sorriso è il grande instrumentum regni del cardinal Zuppi, il mezzo che lo fa amare anche da quelli che storcono la bocca quando sentono parlare la pretaglia, figuriamoci i vescovoni potenti che vanno in giro con lo zucchetto viola e magari perfino la talare. Con Zuppi, no. Dopotutto è don Matteo, il vescovo con la parlata trasteverina, che ha scelto di abitare con gli altri preti della sua città e non nell’austero arcivescovado di via Altabella (che poi, non è un palazzo di certo principesco). E’ un hombre del pueblo, anche se anni fa per ventiquattr’ore la sua figura divise la città: s’era sparsa la voce che per la festa di San Petronio avesse chiesto di preparare tortellini senza maiale, ma con pollo. “Il tortellino dell’accoglienza”. Bestemmia. Apriti cielo. Lucia Borgonzoni, fiduciaria locale di Matteo Salvini, non attese dieci minuti per gridare allo scandalo: “Snaturano anche i tortellini pur di ammiccare all’islam, che vergogna”. Era il preludio a una nuova guerra di civiltà, una crociata in nome del tortellino. Il giorno dopo la diocesi precisò che il cardinale aveva appreso la notizia dai media e che lui di ricette del tortellino non s’era occupato: “Non sono mica matto a togliere il maiale dai tortellini, è come non mettere il vino in tavola perché c’è un musulmano. L’accoglienza non è quella. Il tortellino è un simbolo, ed è questo il problema della tradizione che si è innescato: non bisogna perdere il buon senso, bisogna capire che l’accoglienza è vivere la tradizione, trasmetterla e fare in modo che tutti possano viverla”, precisò. Caso chiuso e tortellino salvo. 

Fare il vescovo di Bologna non è una passeggiata, il peso dei predecessori che lo guardano dai ritratti appesi alle pareti è notevole: Lercaro, Biffi, Caffarra, solo per citarne tre fra gli ultimi prima di lui. Nomi di primo piano, che hanno segnato la storia della Chiesa italiana. Lui si presentò consapevole del pregresso storico: “Vogliatemi bene e vogliatemi bene per quello che sono. Il vostro amore mi cambierà. Avverto il mio personale limite, ma ho anche la consapevolezza che è Lui che chiama e non farà mancare la sua provvidenza. Questo mi riempie di serenità e fiducia”. Si scusò fin da subito per la cadenza romana, facendo però sapere d’aver appreso almeno una parola, “teneressa”, con le due esse à la bolognese. Se la sazia e disperata Bologna l’ha accolto come un compagno di strada, senza quel distacco (che poi era solo apparente, come può testimoniare chiunque lo conoscesse) del cardinale Caffarra, ieratico professore dell’Emilia parmense, con la politica le cose sono state più complicate. Appena messo piede in città gli chiesero cosa pensasse di una moschea lì, tra le torri. Trabocchetto perfetto, ma pure scontatissimo. Lui disse che non ci sarebbe stato alcun problema, dopotutto “vengo da una città dove la moschea c’è da quasi cinquant’anni”. Eppure, mal gliene incolse: “E’ cominciato un can can, ‘il vescovo vuole la moschea…’ e mi sono arrivate una marea di lettere anonime non molto gradevoli però, che devo dire, non me la prendo più di tanto”. 

Amabile e simpatico, Zuppi ha le spalle forti: anni fa, augurò “buona lotta” ai lavoratori della Saeco di Gaggio Montano in procinto d’essere licenziati per ragioni aziendali, nel 2016 distribuì un milione di euro alle famiglie a rischio sfratto (erano gli utili della Faac, il colosso dei cancelli automatici finito in eredità alla diocesi di Bologna), creando fondi ad hoc per i disoccupati. Chiesa di strada e di popolo, con il suo pastore che sta in mezzo al gregge. E anche un po’ lo guida, svettando sovente su una politica locale e nazionale che non spicca quanto a sagacia e lungimiranza. A Papa Francesco piace anche per questo: niente faccia triste e tanto “camminare con la gente”. Chissà che don Matteo non gli ricordi un po’ se stesso, quando girava Buenos Aires in metropolitana sorbendosi l’immancabile mate. “Ne apprezzo la religiosità senza sovrastrutture. E’ una persona che nonostante la sua carica se ne va in giro in bicicletta per Bologna, parla con tutti, affabile, alla mano”, disse di lui l’agnostico Francesco Guccini: i due, nel 2017, andarono ad Auschwitz e da quel momento il filo di simpatia e amicizia continua: “Guccini è un caro amico. Con la sua cultura ha saputo esprimere tante situazioni, ci ha fatto conoscere tanta attenzione alla grandezza della vita. Il finale di ‘Dio è morto’ prova ad apparire ingenuo, in realtà ritengo sia molto vero”. 

Ma la modestia del pastore non deve ridurlo a santino, a buon parroco simpatico e alla mano. Zuppi la politica la mastica, la vive nel concreto. Non si limita a uno sguardo esterno, un po’ bucolico e un po’ limitato ai grandi e buoni princìpi. La politica gli piace, come piaceva prima di lui a Camillo Ruini, che dallo scranno più alto della Cei guardava i luoghi del potere e s’arrovellava su maggioranze e minoranze, composizioni e scomposizioni del quadro politico. Lanciando ami e sovente imponendo, nel dibattito pubblico, i temi da discutere. Mente finissima, quella di Ruini, impegnata a immaginare un futuro dopo che la Balena bianca s’era spiaggiata, con l’obiettivo di evitare l’approdo nei lidi della sinistra: “La collocazione politica era il tema per me più importante. Temevo che il partito, spostandosi a sinistra, avrebbe perso il suo elettorato. Il Ppi si era definito ‘alternativo’ alla Lega, che allora era la destra emergente, mentre si era dichiarato ‘antagonista’ della sinistra. Questo era il grande cambiamento. Fino ad allora la Dc era stata ‘alternativa’ al Pci, la sua forza elettorale si reggeva sul rappresentare i cattolici ma anche, e forse soprattutto, sull’essere la diga al comunismo. Venuto meno questo, sapevo che elettoralmente sarebbero franati. Li avvisai: ‘Prenderete al massimo il 15 per cento’. Mi risposero: ‘Non andrà così, al sud vinceremo noi’. ‘Non illudetevi’, conclusi. Purtroppo avevo ragione e Martinazzoli si dimise da segretario subito dopo il voto del 1994”, ha detto di recente a Francesco Verderami in un’intervista al Corriere della Sera. Fino all’exploit del referendum sulla procreazione assistita: “Puntando sull’astensione ottenemmo il 74 per cento”. 

Matteo Zuppi non è giunto a questo punto, ma è indubbio che la sua presidenza abbia riproposto al centro del dibattito la presenza dei cattolici in politica, come non si vedeva appunto dalla fine dell’èra ruiniana. Dopo la stagione di decantazione segnata dalla presenza di Angelo Bagnasco alla guida della Cei (che aveva sempre su di sé, come una spada di Damocle, l’occhio vigile di Tarcisio Bertone, segretario di stato vaticano) e il low profile del quinquennio di Gualtiero Bassetti, l’episcopato ha riacquistato una voce. 

Non è solo merito del cardinale presidente, ma anche del ricambio dei vescovi promosso dal Papa, che in più di un decennio di pontificato ha attuato una riforma profonda che ha mutato la composizione dell’assemblea episcopale, scegliendo – come si suol dire ormai da tempo – più parroci con l’odore delle pecore che austeri professori. Il cattolicesimo democratico, per un paio e più di decenni emarginato e confinato ai tavoli dell’èlite culturale italiana, è ora la bussola. E’ il côté in cui si dispiega la politica ecclesiale della Cei. E’ tornata la luce sul mondo di don Lorenzo Milani e Giorgio La Pira, riscoperti e citatissimi in discorsi, omelie e conferenze come ormai non lo erano da tempo. Come fossero la linfa della rinascita del protagonismo attivo dei cattolici in politica, alla ricerca di parole e opere per il bene comune. Celebrando il funerale di David Sassoli, amico di una vita, disse nell’omelia che “David ci aiuta a guardare il cielo – a volte così grande da spaventare, che mette le vertigini – lui che lo ha cercato sempre, da cristiano in ricerca eppure convinto, che ha respirato la fede e l’impegno cattolico democratico e civile a casa, con i tanti amici del papà e poi suoi, credenti impetuosi e appassionati come Giorgio La Pira o Mazzolari, come Davide Maria Turoldo, del quale porta il nome. Credente sereno ma senza evitare i dubbi e gli interrogativi difficili, fiducioso nell’amore di Dio, radice del suo impegno, condiviso sempre con qualcuno, come deve essere, perché il cristiano come ogni uomo non è un’isola, ma ha sempre una comunità con cui vivere il comandamento dell’amatevi gli uni gli altri”. Nelle parrocchie, anche le più “anziane” e meno strutturate, sono riferimenti che si comprendono e pure bene. 

Lo si è visto anche in occasione della cinquantesima edizione delle Settimane sociali di Trieste, che già dal titolo scelto faceva comprendere quale fosse il centro del problema: “Al cuore della democrazia”. Perplessità a destra – sia in quella politica sia in quella ecclesiastica – sul programma dell’evento, sulla sua costruzione attorno a princìpi “repubblicani” e poco “spirituali”, per così dire, con riferimenti ideali ed espliciti al dossettismo. A Trieste si sono visti Sergio Mattarella, che dalla famiglia cattolico-democratica proviene, e il Papa. Entrambi hanno parlato di democrazia e di popolo, di bene comune e di valori. Nel gennaio del 2021, il cardinale Zuppi scrisse una “lettera alla Costituzione”: “Ascoltando te già sto meglio perché mi trasmetti tanta fiducia e tanta serietà per la nostra casa comune. Se ce ne è poca anch’io devo fare la mia parte! Proprio come tu vuoi”. Ancora, “cara Costituzione, abbiamo tanto bisogno di serietà e i tuoi padri ce lo ricordano. Spero proprio che noi tutti – a partire dai politici – sappiamo far tesoro di quello che impariamo dalle nostre sofferenze, cercando quanto ci unisce e mettendo da parte gli interessi di parte, scusa il gioco di parole. Abbiamo bisogno di vero ‘amore politico’!”. Infine, “abbiamo bisogno di te per ricordare da dove veniamo e per scegliere da che parte andare”. Come post scriptum citò proprio Giuseppe Dossetti, “uno dei tuoi padri. Ti voleva bene e parlava spesso di te con grande amore e lo insegnava ai giovani che non ti conoscevano”. In un’intervista alla Verità, il filosofo Stefano Fontana ne ha dedotto che “così la Chiesa italiana sembra ritenere che il Logos si sia incarnato in Gesù il Cristo per difendere la Costituzione e la democrazia”. Pochi mesi fa, prima delle elezioni europee, scrisse una lettera all’Unione europea: “Cara Europa, è tempo di un nuovo grande rilancio del tuo cammino di unione verso una integrazione sempre più piena, che guardi a un fisco europeo che sia il più possibile equo; a una politica estera autorevole; a una difesa comune che ti permetta di esercitare la tua responsabilità internazionale; a un processo di allargamento ai paesi che ancora non ne fanno parte, garanzia di una forza sempre più proporzionata all’unità che raccogli ed esprimi”.

Zuppi con l’incedere del tempo è sempre più stato percepito da chi governa più come il più autorevole membro d’opposizione che come il presidente dei vescovi d’Italia. Qualcuno, in Transatlantico, lo definisce il vero capo del Pd, quello per così dire “tradizionale”, prodiano e un po’ franceschiniano. 

Gli episodi di frizione con Palazzo Chigi non sono mancati. Prima l’opposizione netta alla riforma dell’autonomia differenziata – con tanto di Nota ufficiale della Cei che recepiva la protesta montante dell’episcopato meridionale (ma non solo, anche fra i presuli del nord vi sono state voci contrarie alla riforma del governo) –, quindi le battute sul premierato, “madre di tutte le riforme”, che hanno irritato la premier Giorgia Meloni, la quale sbottò in diretta televisiva: “Non so cosa esattamente preoccupi la Conferenza episcopale italiana, visto che la riforma del premierato non interviene nei rapporti tra stato e Chiesa. Ma mi consenta anche di dire, con tutto il rispetto, che non mi sembra che lo stato Vaticano sia una repubblica parlamentare, quindi nessuno ha mai detto che si preoccupava per questo. E quindi facciamo che nessuno si preoccupa”. Zuppi restò colpito, non s’aspettava una simile reazione: “Forse – disse sorridendo – è stata tratta in inganno da Roberto Benigni che voleva fare il campo largo con il Papa… La Chiesa ovviamente non si schiera con una parte o con l’altra. Io non sono entrato nel merito della riforma, non ho dato giudizi sul rafforzamento dei poteri del premier. Ho solo espresso una preoccupazione: le riforme costituzionali richiedono la partecipazione più ampia possibile. Proprio perché gli equilibri costituzionali sono delicati. Questo non significa che tutti la debbano pensare allo stesso modo, ma che devono partecipare al dialogo, ritrovare lo spirito costituente. Nel Dopoguerra democristiani, liberali e comunisti non la pensavano allo stesso modo, ma scrissero la Costituzione insieme. Oggi il richiamo vale per tutti, per la maggioranza come per l’opposizione”. E per quanto riguarda l’attacco di Meloni, “non me lo spiego, abbiamo sempre avuto buoni rapporti”. Ma i rapporti, se buoni e affettuosi, non sono più quelli di un tempo. 

Dopo la luna di miele dei primi mesi, dal quartier generale sull’Aurelia il martellamento episcopale è stato costante. Si prenda l’accordo sui migranti con l’Albania: presentando il Rapporto Migrantes, Zuppi disse che “di per sé è un’ammissione di non essere in grado. Non si capisce perché non venga sistemata meglio l’accoglienza qui. Non c’è dubbio”. Aggiungendo: “Mi sembra che ci siano anche delle discussioni all’interno della maggioranza, quello che sicuramente è importante è avere un sistema di accoglienza che dia sicurezza a tutti, a chi è accolto e a chi accoglie”. Ben più duro, il presidente della Fondazione Migrantes, mons. Gian Carlo Perego, arcivescovo di Ferrara: “Uno spreco di risorse pubbliche. Un nuovo atto di non governo delle migrazioni, di non tutela degli ultimi della terra. Una nuova sconfitta della democrazia”. Eppure all’inizio le cose andavano bene, con Meloni considerata seria e preparata e il governo che di certo non si mostrava mal disposto nei confronti dell’episcopato. Si pensi solo alla norma interpretativa retroattiva per l’esenzione Imu sugli immobili inutilizzati dagli enti religiosi e quella per l’esenzione sugli immobili concessi in comodato gratuito da enti religiosi. Ancora, la riduzione del contributo d’iscrizione al Sistema sanitario nazionale per i religiosi stranieri: se la legge di Bilancio per il 2024 ha fissato l’importo minimo del contributo in duemila euro, dopo le rimostranze della Cei il governo ha equiparato i soggiornanti per motivi religiosi a quelli per motivi di studio, riducendo il contributo a settecento euro per i religiosi. E poi l’aumento dei contributi pubblici alle scuole paritarie, i nuovi concorsi per gli insegnanti di religione cattolica (intesa firmata lo scorso gennaio, con somma soddisfazione delle parti), la conferma dei contributi all’editoria per i settimanali religiosi. Su un particolare, però, la Conferenza episcopale se l’è presa: la scelta del governo di aggiungere alla disciplina vigente per l’utilizzazione della quota dell’Irpef devoluta allo stato un’ulteriore possibilità: il recupero dalle tossicodipendenze e dalle altre dipendenze patologiche. Questa possibilità (ne avevano aggiunte anche i governi di Giuseppe Conte e di Mario Draghi, allora senza troppi clamori da parte della Cei) andava ad aumentare le possibilità del contribuente. I vescovi hanno fatto conoscere la loro perplessità, ipotizzando una diminuzione potenziale e progressiva degli introiti derivanti dall’otto per mille. Introiti, tra l’altro, in calo da anni: da almeno due decenni si registra un lento incremento di opzioni per lo stato e un conseguente calo per la Chiesa cattolica (nel 2004 raggiungeva quasi il novanta per cento delle scelte). E’ facile comprendere che ampliare l’offerta delle opzioni relative alla scelta dell’otto per mille allo stato fa sì che la quota per la Chiesa possa erodersi ulteriormente: la tendenza, costante, è questa. Il governo, nonostante gli auspici episcopali e le richieste più o meno ufficiali, non ha fatto marcia indietro e ha confermato che entro il 30 novembre di ogni anno sarà stabilita la destinazione fra le sei tipologie di intervento previste per le risorse relative alle scelte non espresse

Le radici di Zuppi sono movimentiste, Sant’Egidio è la sua casa. “Ho deciso di diventare prete all’università. Avevo incontrato la Comunità di Sant’Egidio e ne ero stato coinvolto. C’era una passione viva, radicale, spirituale e umana. Dubbi? Certo che sì. Il confronto con la propria debolezza e il peccato c’è sempre. Ma ero in una compagnia, un popolo sacerdotale e di laici molto impegnato. Questo mi ha aiutato molto perché la Chiesa è comunione”, disse una volta a Michele Brambilla. E del titolo di Sant’Egidio è cardinale, anche se non ha potuto festeggiare celebrando nella piccola chiesa trasteverina: meglio la più grande e da lui conosciutissima (vi è stato parroco) Santa Maria in Trastevere. Ha visto crescere la Comunità e ne è diventato uno dei punti di riferimento. All’inizio degli anni Novanta fu tra i protagonisti dell’intesa che mise fine a diciassette anni di guerra civile in Mozambico. Si lavorò per portare le parti al tavolo della mediazione, al negoziato. Con concessioni dall’una e dall’altra parte. Un modello vincente che è studiato perfino nelle università e che si vorrebbe – ma l’ottimismo è scemato man mano che le posizioni s’incancrenivano – riproporre per la soluzione della guerra russo-ucraina. 

E’ anche per questo successo in terra d’Africa che il Papa ha chiesto a don Matteo di fare il possibile e pure l’impossibile per cercare uno spiraglio che facesse finire il conflitto nell’Europa orientale, mandandolo a parlare con tutti, buoni e cattivi, aggressori e aggrediti, fino ai mediatori auspicati o interessati. Qualcuno, in Segreteria di stato, non l’ha presa bene: il doppio canale diplomatico non ha mai giovato nella storia, figuriamoci quando si tratta dell’azione della Chiesa, che per tradizione segue schemi rigidi e tradizionali. Al punto che, Oltretevere, ci si chiedeva se a mediare per conto del Papa fosse Parolin o Zuppi e se gli ambasciatori dei paesi in guerra dovessero parlare con il primo o con il secondo.   

A Washington, al Dipartimento di stato, qualche funzionario non troppo addentro nelle dinamiche italo-vaticane e poco edotto sulle trovate del Pontefice regnante, si domandava perché la Santa Sede spedisse a parlare con Zelensky e i sottoposti di Putin l’arcivescovo di Bologna e non il segretario di stato. Anche perché il paragone con il 2003 non regge: all’epoca Giovanni Paolo II spedì sì due inviati speciali a mediare con George W. Bush e Saddam Hussein, ma si trattava nel primo caso di Pio Laghi (già primo nunzio negli Stati Uniti) e nel secondo di Roger Etchegaray. Due diplomatici, non due vescovi diocesani. A favore di Zuppi ha giocato “l’esperienza vasta di mediazioni”. Dopotutto, all’atto della nomina, Sant’Egidio ne ricordò il curriculum: gli accordi di pace in Mozambico nel ‘92, il Guatemala a metà anni Novanta, la collaborazione con Nelson Mandela per il cessate il fuoco in Burundi, nel 2003. E in ogni caso, “la stessa Comunità di Sant’Egidio è impegnata negli aiuti umanitari in Ucraina e con gli incontri nello ‘spirito di Assisi’ ha intessuto una fitta rete di rapporti anche col Patriarcato di Mosca”. 

I chiacchieroni da anni mormorano che a Santa Marta lo si vedrebbe bene come prossimo Papa, delfino di Francesco. Se Paolo VI a Venezia mise la stola papale sulle spalle d’un imbarazzato patriarca Albino Luciani, Francesco testa l’arcivescovo di Bologna inviandolo come proprio e unico rappresentante là dove la terza guerra mondiale a pezzi brucia le carni e fa risuonare il dolore delle madri davanti ai figli uccisi da un colpo di mortaio. Zuppi papabile, favoritissimo (si dice) nella corsa alla successione di Jorge Mario Bergoglio, quando sarà. Una volta a Bologna una fedele gli augurò di tornare in città vestito di bianco, lui rispose serafico una cosa del tipo “aspetta e spera”. E quando nelle interviste gli fanno balenare la prospettiva, lui si schermisce: “Sono pigro” mentre con la mente, chissà, pensa all’ottantasettenne Francesco che in mezza giornata passa da un’udienza a Jerry Calà e Whoopy Goldberg per finire a discutere di problemi globali con Biden, Macron ed Erdogan, in mezzo agli uliveti pugliesi. Tempo fa, quando il fronte conservatore del Collegio era alla disperata ricerca di una figura per quando l’èra argentina sarà terminata, più d’un cardinale di quell’area in confidenze da salotto e al riparo da orecchie indiscrete diceva che tutto sommato Zuppi non è male, è uno con cui si può discutere, parlare. Senza temere di vedersi recapitare un biglietto di sola andata per qualche bucolica destinazione dove non resta nient’altro che la noia. 

Quando gli si parla di crisi della fede, di occidente secolarizzato e di chiese vuote, lui non abbandona l’ottimismo. Si tratta di vivere il tempo che ci è dato: “La Chiesa sta cambiando rapidamente. Carlin Petrini mi ha raccontato della Bra della sua giovinezza: ogni cento metri c’era un prete. E’ un mondo che sta finendo. I ragazzi arrivano fino alla cresima, poi non li vediamo più, e non c’è più davvero un prete ‘per chiacchierar’. Dobbiamo ritrovare i legami, i contatti umani, le relazioni. Dobbiamo unire umanesimo ed evangelizzazione”. Ad Aldo Cazzullo, che lo intervistò sul Corriere, disse che “il Vangelo non è un distillato di verità. Il Vangelo è legato alla vita, all’umanità, all’incontro. Non dobbiamo aver paura di contaminare la verità con la vita, perché nell’amore per il nostro prossimo troveremo la verità, che è Gesù. La verità si perde come il sapore del sale quando non si unisce alla vita. Negli occhi degli altri vedremo gli occhi di Dio. La Chiesa non potrà diventare una ong perché i poveri sono i nostri fratelli: li amo, non ci faccio mica volontariato. E l’amore della Chiesa è quello di Gesù: senza misura, per tutti. Fai il bene per Gesù, o per gli altri, o per te stesso? Lo faccio perché scopro Gesù, scopro gli altri e scopro me stesso”. 

Si potrebbe dire che la massima del cardinale Zuppi sia che non c’è solo il bianco o solo il nero: c’è anche il grigio. In tutte le cose. Superare divisioni e scontri andando in mezzo, cercando il buono che c’è, appunto, in quella vasta zona grigia dove tutto è sfumato e crollano assunti che si ritenevano quasi dogmatici e immodificabili. Una buona parola per tutti, insomma, perché i muri non servono a niente. Parlando, qualcosa di positivo esce sempre. Ecco allora che il futuro prossimo della Chiesa sarà quello in cui si metterà “al centro una riflessione antropologica sull’uomo di oggi. Ed è quello che sta cercando di fare il Papa. C’è la dottrina, ma oggi dobbiamo interrogarci: ‘A chi stiamo parlando, qual è uomo di oggi?”. Bisogna capire che “non si può avere subito una risposta, che va invece ricercata camminando in mezzo alla gente, riascoltando”. E poi, “c’è sempre anche l’imprevisto…”.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.