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Tra scienza e fede

La teologia del "fifty fifty" sulla presenza di Dio

Roberto Volpi

La scienza può spiegare tutto ciò che avviene dall’istante successivo al Big Bang, ma non ha mezzi per investigare cosa c'era prima. L'attualità della scommessa di Pascal sull’esistenza di Dio

Possiamo tornare indietro nel tempo fino a un attimo dopo il grande scoppio, il Big Bang; ma che dico un attimo, un “pulviscolo di secondo”, per dirla con un’espressione resa celeberrima da Gianni Rodari quando scriveva per Paese Sera firmandosi Benelux, per intendere la quantità imponderabile di tempo che passa tra quando scatta il verde davanti a te e la macchina dietro di te strombazza perché tu ti dia una mossa; e ancora meno, un pulviscolo di pulviscolo di secondo, una quantità che non è neppure più una quantità, tanto è stretta che la luce vi filtra a fatica. Insomma: è possibile risalire indietro nel tempo solo fino al momento, l’attimo, l’infinitesima frazione di secondo “dopo” la grande conflagrazione dalla quale tutto ha avuto inizio. Dopo, ecco l’espressione temporale fatidica.
 


Non possiamo risalire indietro nel tempo se il tempo non c’era. E il tempo è lì che comincia, con il Big Bang, quando anche lo spazio, assieme al tempo, si crea grazie alla materia scagliata a velocità inimmaginabile in tutte le direzioni. Ed è qui, in questa impossibilità a risalire al tempo zero (proprio 0; non, per intenderci, 0,0000000001) che la scienza, la fisica nella fattispecie, non può fare valere alcuna delle sue pur raffinate e speculative e deduttive potenzialità: non può né osservare né spiegare. Zero. Non è che non abbia gli strumenti. Semplicemente, non può scavalcare il muro del Big Bang all’indietro; sarebbe un po’ come voler penetrare in un territorio dove non esiste né tempo né spazio né spazio-tempo. Un territorio inimmaginabile, o forse meglio immaginabile dalla poesia più ancora che dalla fisica. Anche se le immagini della poesia alla fisica si richiamano eccome. Il poeta Ernesto Cardenal, per esempio, nel suo “Cantico cosmico”, ce lo descrive così:
 

“In principio non v’era nulla

né spazio

né tempo.

L’universo intero concentrato 

nello spazio del nucleo di un atomo, 

e prima ancora meno, molto meno di un protone. 

E anche meno ancora, un infinitamente denso punto matematico.

E fu il Big Bang”.
 

Non proprio un’immagine convincente, ammettiamolo, questa di una singolarità fisica delle dimensioni di una capocchia di spillo di densità infinita scoppiata per non farcela più a contenere una materia a tal punto spropositata da formare, col tempo, cento miliardi di galassie con mediamente cento miliardi di stelle tra le quali il nostro sole non spicca certo per dimensioni. Tanto poco convincente che Fred Hoyle, l’irriverente astronomo e scrittore di fantascienza (è suo il romanzo “A come Andromeda” che diventò uno sceneggiato televisivo italiano campione di ascolti agli inizi degli anni Settanta) che s’inventò questo nome – grande scoppio, grande botto, italianizzando – neppure ci credeva, a quell’esplosione da cui prese inizio circa 13,8 miliardi di anni fa l’universo. Pensava di screditare la teoria che ne stava alla base. Contribuì alla sua fortuna più della teoria stessa. Micidiale espressione che tutti conoscono o ricordano e, incredibile a dirsi trattandosi di fisica, che tutti più o meno capiscono.
 

Ma se pure ammettiamo che l’immagine della capocchia di spillo sia convincente; che la singolarità fisica in essa espressa sia proprio quella che ha originato il Big Bang, e dunque l’universo per come lo conosciamo; se pure ammettiamo tutto questo, resta pur sempre la domanda delle domande: com’è che si è formata quella capocchia di densità infinita capace di contenere tutta la materia compresa nell’universo? Il fatto puro e semplice è che la teoria del Big Bang non spiega nulla, altro che tutto. “Non ci dice che cosa è esploso, né perché è esploso, né che cosa ha causato l’esplosione”. A parlare così è Alan Guth, astrofisico del Mit. E non è certo, la sua, un’opinione isolata. Qualunque fisico o scienziato serio ammetterà che è la pura verità. Una verità destinata a non cambiare di una virgola, dal momento che non è nell’ordine delle cose che la scienza possa dare una risposta verificabile – ve-ri-fi-ca-bi-le – alla domanda su che cosa ha originato il Big Bang.
 

Potrà fare supposizioni, ci mancherebbe. Avanzare ipotesi e congetture, senz’altro. Teorie, perfino. Ma niente, dicasi niente, che la scienza, con le sue metodologie e i suoi strumenti possa anche soltanto, magari un giorno lontanissimo, sperare di verificare. La scienza ha metodi e strumenti che valgono nel tempo e nello spazio; ma che nulla possono in mancanza dell’uno e dell’altro. E prima del Big Bang non c’è né tempo né spazio; e dunque niente che possa essere osservato. Ma mancando la possibilità stessa dell’osservazione manca il caposaldo della scienza, perché senza osservazione non si dà scienza, non c’è metodo scientifico applicabile.
 

Ora, Pascal non poteva avere un background così compiuto, quando attorno alla metà del XVII secolo propose la sua celebre scommessa sull’esistenza di Dio. Ma aveva ben chiara una cosa: non c’era modo di provarne scientificamente l’esistenza, né mai ci sarebbe stato. Dio non è osservabile. Non solo; Dio non può che essere nascosto. Nascosto, come le ragioni o cause del Big Bang. Dal momento, poi, che queste cause o ragioni non sono esplorabili scientificamente non si può affatto escludere che proprio Dio sia la ragione, la causa, l’origine del Big Bang. Chi può dire di no? Ma, soprattutto, come si fa a dire di no? Sulla base di quali presupposti e condizioni? Dal momento che al di là del muro rappresentato dal Big Bang non avremo mai la possibilità e gli strumenti per andare, chi e come può escludere che proprio Dio sia l’artefice del Big Bang? Semplicemente non si può. E non è certo un caso che la Chiesa non abbia mai affilato le armi per confutare il Big Bang. Dietro il Big Bang può esserci tanto una ragione, causa, origine scientifica, quanto Dio. La creazione del mondo a opera di Dio non confligge in nulla col Big Bang. Per dirla fino in fondo – Fred Hoyle ci avrà fatto senz’altro un pensierino – il Big Bang sembra la versione moderna dell’immenso, tremendo tumulto creativo di Genesi.
 

Ritornando a Pascal: il grande filosofo-matematico giansenista morto ad appena 39 anni inseguito dalle malattie sin dalla fanciullezza non la metteva nei termini suesposti, la scommessa su Dio, ma la sua era pur sempre una scommessa alla pari: 50 e 50. Cinquanta probabilità su cento che Dio esiste; cinquanta su cento che no. Quotazione valida ancora oggi per il buon motivo che nella sua sostanza probabilistica non è destinata a cambiare. In quanto non verificabile, quella quotazione è altresì inalterabile. Dietro il muro del Big Bang ci aspettiamo di trovarci qualche arcano meccanismo scientifico che dà ragione della capocchia di spillo e della sua singolarità inimmaginabile o Dio – e la sua volontà. A noi la scelta. La scienza può dar ragione di tutto quel che è stato dal momento 0,0000001, o analogo, dopo il grande botto, ma non può dar ragione né del momento 0 (zero) né, meno ancora, di quel che c’è prima di quel momento (e già dire momento, espressione temporale, per definire una fattispecie, chiamiamola così, quando il tempo ancora non c’era è improprio).
 

Ora, alla luce di tutto questo appare abbastanza chiaro che non ci sarà mai un vincitore riconosciuto nella querelle su quel che c’è (c’era) dietro il muro del Big Bang. Querelle che divide grosso modo i contendenti in due schiere, pressappoco queste. La prima è quella che include il grosso degli scienziati che rifiutano come la più sesquipedale bestemmia antiscientifica l’ipotesi di Dio alla base del Big Bang. Questi scienziati sanno tutto del “dopo Big Bang” e niente del “prima del Big Bang”, niente di lontanamente verificabile, intendo, ma hanno l’incrollabile, fideistica e piuttosto poco scientifica pretesa che non possa che esserci, nel “prima del Big Bang”, un mistero perfettamente spiegabile dalla scienza, se solo si potesse verificare come stanno in effetti le cose, come invece non si potrà mai. Un’ipotesi, per esempio, è questa, detta necessariamente all’ingrosso: il vuoto perfetto non esiste, dunque prima del Big Bang non è che non ci fosse propriamente nulla di nulla, c’era un vuoto che neppure possiamo immaginare al cui interno si danno però movimenti quantici/quantistici che generano particelle senza massa che a furia di prodursi e accumularsi finiscono per fare massa. Si tratta di un’ipotesi che per stare logicamente in piedi ha bisogno di un bel po’ di precondizioni che la rendono più improbabile che probabile. Può essere migliorata? Senz’altro. Può arrivare anche un’altra ipotesi che la soppianta radicalmente; ma di nuovo ci troveremmo nell’impossibilità di metterla alla prova per verificarne l’attendibilità. Non sapremo mai come se la cava, nell’interpretazione della realtà (quale realtà se quella del “prima del Big Bang” fuori com’è da ogni spazio-tempo non è neppure immaginabile?). E se la scienza mette giù le sue carte per venire a capo di un mistero del quale dovrebbe sapere di non poter venire a capo, c’è un’altra scienza che guarda in tutt’altro modo al Big Bang, alla creazione.
 

Michel-Yves Bolloré e Olivier Bonnassies nel loro poderoso (612 pagine) “Dio. La scienza. Le prove” (Sonda, 2024, 24,90 euro) riaprono la partita tra fede e scienza puntando su un approccio a loro dire rigorosamente scientifico e razionale. Ripercorrono le grandi scoperte scientifiche degli ultimi centocinquant’anni – dal Big Bang come spiegazione dell’origine dell’universo fino alla teoria della relatività di Einstein, passando per la scoperta del Dna e il tracciamento del genoma umano – per mostrarci come, tutto considerato, non c’è alcuna prova provata che non ci sia stato un principio creatore che abbia dato inizio e in certo senso “progettato” ogni cosa così come la conosciamo nel dopo Big Bang. Fino a non più di un secolo fa tutti gli scienziati pensavano che l’universo fosse eterno e stabile, mentre oggi sappiamo che ha avuto un inizio, avrà una fine, è in espansione e proviene da un grande botto, dal Big Bang. Ed è proprio questo punto, il Big Bang, a sollevare per gli autori la questione di un Dio creatore. In un linguaggio assai accessibile e coinvolgente gli autori offrono quella che, sì, potremmo definire affascinante panoramica delle prove a loro dire scientifiche dell’esistenza di Dio.  Ma qui casca l’asino. Ammettiamo pure che abbiano ragione gli autori del volume quando, già a conclusione della presentazione, azzardano a scrivere che “in definitiva Dio esiste o non esiste: la risposta può essere soltanto binaria. È un sì o un no. Finora solo la nostra mancanza di conoscenza ha potuto porsi come ostacolo. Tuttavia, l’acquisizione di una grande quantità di prove convergenti, allo stesso tempo numerose, razionali e da ambiti del sapere diversi e indipendenti, getta una luce nuova e probabilmente decisiva sulla questione”. 
 

Il fatto del quale non sembrano rendersi conto  è che – primo – la mancanza di conoscenza che si pone come ostacolo al definitivo disvelamento della verità non è cosa di ieri, di oggi e neppure di domani, è cosa di sempre, di tutto il tempo a venire, giacché mai sarà sufficiente tutta la conoscenza del mondo osservabile per supplire alle falle di tutto quel che non sappiamo del mondo non osservabile di “prima del Big Bang” e – secondo – siamo ahimè all’eterno ritorno, in una rinnovata ma non per questo necessariamente più convincente veste, del “principio antropico”. Principio in base al quale le costanti fisiche che condizionano la struttura dell’universo debbono avere proprio i valori che hanno, i valori che conosciamo, o pochissimo differenti da questi, perché altrimenti non sarebbe possibile l’esistenza della vita e dell’uomo. Il principio asserisce, in altre parole, che quei valori sono tali proprio per rendere possibile la vita che mette capo, al suo gradino più alto, all’uomo, a sapiens. Insomma, la veste ch’è in “Dio. La scienza. Le prove” è sì in parte nuova ma riveste la stessa sostanza, quella del principio antropico, che, detto con franchezza, può essere confutata senza troppa fatica.
 

Ah, il buon vecchio Blaise Pascal, tormentato dai dolori, e forse da essi sospinto a una verità tanto più semplice e profonda, che sapeva immutabile nonostante ogni tentativo di svelarla: l’esistenza di Dio (anche in quanto causa prima di quel Big Bang che sarebbe stato ipotizzato tre secoli dopo la sua morte) non è dimostrabile e in quanto tale, in quanto indimostrabile, ha una quotazione immutabile in termini probabilistici di 50 e 50. C’è semmai da aggiungere, del buon Pascal, che egli non si rese conto, non pienamente, che così dicendo e teorizzando la quotazione di Dio finiva per essere condizionante anche della quotazione della spiegazione chiamiamola generalmente scientifica – quale che fosse e che sarà. Perché se la probabilità dell’ipotesi Dio non si schioda, non può schiodarsi, dal 50 per cento anche la probabilità di ogni qualsivoglia ipotesi scientifica che pretenda di spiegare il Big Bang ipotizzando quel che c’era prima, non può oltrepassare quella soglia. Lo stesso 51 per cento è troppo anche per la meglio costruita e calibrata ipotesi scientifica. Per il buon motivo che Dio non arretra da quel 50 per cento che gli spetta possiamo ben dire di diritto.

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