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Padre Ernetti, l'esorcista che fotografò Cristo
Il cronovisore del monaco benedettino, che diceva di poter fermare il passato su pellicola e sintonizzarsi su qualsiasi avvenimento accaduto. Non era un semplice mitomane. Ecco la sua storia
“Gesù che torna sulla Terra in forma di trasmissione televisiva”.
“Piccole cose captate… Brevi filmati, più probabilmente”.
“In forma di clip!...” disse padre Marcello. “Mille miliardi di visualizzazioni su YouTube. Altro che i video di gattini…”
Tiziano Scarpa, “Il brevetto del geco”
Nella bara che approdò su una lancia blu, poco dopo le 16 del 9 aprile 1994, all’isola veneziana di San Giorgio Maggiore, erano racchiuse le spoglie del monaco benedettino Pellegrino Ernetti e soprattutto il grande enigma che si portava nella tomba. Nato nel 1925 nel borgo laziale di Rocca Santo Stefano, che gli ha intitolato una via, padre Pellegrino fu rinomato in vita e lo è trent’anni dopo la morte per tre motivi assolutamente diversi. Il primo, del tutto ragionevole, è che fu un esperto mondiale di musica prepolifonica, ne tenne la cattedra al Conservatorio Benedetto Marcello e la trattò in varie pubblicazioni. Il secondo motivo, altrettanto valido almeno per i cattolici, fu la sua attività di infaticabile esorcista, nominato alla perigliosa mansione dal patriarca di Venezia ed elogiato da padre Gabriele Amorth come “uno dei massimi competenti a livello internazionale” della materia, “che associa alla grande esperienza una preparazione culturale più unica che rara nel campo della medicina, della psicologia, della parapsicologia”.
Ma il motivo principale per cui padre Ernetti fu ed è rinomato è il terzo e più inverosimile per qualunque persona di buon senso, e proprio per questo il più accattivante per migliaia di visionari, cultori di scienze alternative, stravaganti semplici o complessi ma anche per la sommessa schiera di chi esercita la curiosità intellettuale senza fare dell’approccio cartesiano un dogma infallibile. Cominciò tutto sulla copertina di una Domenica del Corriere del 2 maggio 1972, che strillava una “sensazionale rivelazione” meritevole di essere collocata più su dell’amore tra Mastroianni e la Deneuve e di un’inchiesta sul mondo dei bambini. Titolo: “Inventata la macchina che fotografa il passato”. All’interno, padre Pellegrino Ernetti rilasciava una lunga intervista al giornalista Vincenzo Maddaloni in cui asseriva di avere messo a punto un apparecchio, simile a un televisore, capace di sintonizzarsi su qualsiasi avvenimento del passato recente o lontano, e grazie al quale aveva assistito “come in un ologramma” a un discorso di Napoleone, alla prima Catilinaria di Cicerone ma soprattutto alla Passione di Cristo, con dettagli non riferiti dai Vangeli. Corredava il servizio un fermo immagine del volto di Gesù sulla croce, che si scoprì tempo dopo riprodurre l’immaginetta di una scultura lignea del santuario umbro di Collevalenza.
Se padre Ernetti non fosse stato il musicologo eminente, un teologo grondante dottrina, l’esorcista che assisteva centinaia di fedeli, sarebbe stato naturale liquidarlo come un mitomane in cerca di fama, un volgare cialtrone o l’ennesimo pazzoide. Ma non c’erano ragioni per cui avesse deciso all’improvviso di spararla così grossa, aggiungendo particolari che sembravano sortiti dai romanzi di fantascienza. Non parlava di una macchina del tempo come quella di H. G. Wells, ma di un visore cui avrebbe dedicato un racconto anche Isaac Asimov e su cui aveva scritto una novella nel 1904 Giuseppe Lipparini, futuro critico letterario, che ne Il Signore del Tempo attribuiva la scoperta a un “esimio professore” dell’università immaginaria di Oppendorf, l’astronomo Antonio Schwarz: “Nessuno dei nostri atti va perduto, ma successivamente si proietta nello spazio e si conserva nel tempo… l’aria che ci avvolge è come un cinematografo, dove però le successive proiezioni si intrecciano e si confondono in modi infiniti”, spiegava l’accademico presentando il “cronoscopio”.
Poteva, per insana fantasia, il musicologo benedettino ispirarsi al professor Schwarz? Come se non bastasse raccontò che alla realizzazione della macchina avevano lavorato, assieme a lui, studiosi del calibro di Fermi e von Braun. E precisava che nel 1957 il reperto filmato della Passione fu mostrato a papa Pio XII in una sessione dell’Accademia Pontificia cui erano presenti il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi e il ministro della Pubblica istruzione (non sappiamo se fosse il socialdemocratico Paolo Rossi o Aldo Moro, che nel corso dell’anno gli successe nell’incarico). Ulteriori informazioni su questa improbabile adunanza furono diffuse dopo la morte di Ernetti dal sacerdote francese François Brune, in un libro sul “cronovisore” e in convegni e trasmissioni radiofoniche. Il pontefice sarebbe rimasto sconvolto e avrebbe ordinato lo smontaggio della portentosa macchina e la consegna del progetto, finiti entrambi – ci sono due versioni – o nelle gidiane “segrete del Vaticano” o in uno sgabuzzino al Viminale.
Al clamore mediatico seguì un lunghissimo silenzio del benedettino, imposto dalle autorità ecclesiastiche e dalla “ragion di stato”: un apparecchio in grado di scrutare in ogni piega il passato, di captare i moti più furtivi di individui comuni e capi di stato, addirittura di registrare le predicazioni di Cristo senza l’intermediazione dei Vangeli, ma dalla sua stessa voce, sarebbe stato più rivoluzionario e più pericoloso di un’arma nucleare.
E’ legittima l’incredula ironia di chi legge, e lo è pure, nel trentennale della morte di Ernetti, ricordare una vicenda su cui misteri s’intrecciano a misteri. La più attendibile ricognizione è nel saggio di Davide Pulici Nelle fauci del tempo del gennaio 2023, che scandaglia fra testimonianze scritte e orali, racconti di prima e seconda mano per conseguire almeno alcune certezze. L’ipotesi più probabile è che la macchina, se mai ci fu, non constò del solo esemplare requisito dalle autorità, e che padre Ernetti continuasse a utilizzarla – una traccia condurrebbe alla sperimentazione con scienziati americani – negli anni Settanta e forse fino agli Ottanta. Qui anticipiamo, ambasciator non porta pena, che vivrebbe ancora in Veneto un autorevole musicologo testimone del suo funzionamento, il quale avrebbe reso a Pulici il suo racconto dopo l’uscita del libro e se ne avrà notizia se ci sarà una futura ristampa.
Chi scrive ha contattato Maddaloni, autore dello scoop vero o presunto del ‘72 con cui cominciarono l’obliqua celebrità e le presumibili disavventure del benedettino con le autorità ecclesiastiche. Risposta: “Padre Ernetti? Dopo 52 anni penso di riprenderlo in mano e scrivere qualcosa”. Misteri su misteri. Per dipanarli padre Brune, che è intanto scomparso anche lui, chiese un appuntamento a Giulio Andreotti confidando sulla sua amicizia con Ernetti. Fu un buco nell’acqua: dopo venti di minuti di colloquio, il religioso ne sapeva quanto prima sul “cronovisore”, mentre il leader dc conosceva molto di più sulla Chiesa francese.
Ma come avrebbe, l’ipotetico congegno, captato il passato? “L’apparecchiatura è formata da una serie di antenne per permettere la sintonizzazione delle singole voci e immagini. Si sa”, rispose Ernetti nell’intervista, “che ciascun essere umano, da quando nasce a quando muore, lascia dietro di sé come una doppia scia, una sonora e una visiva, una specie di carta d’identità diversa per ogni persona. E’ in base a questa carta d’identità che si può ricostruire la singola persona in tutti i suoi atti e i suoi detti”. Confidò in seguito a Brune: “Potevamo effettivamente regolare il nostro apparecchio sul luogo e l’epoca desiderati. Più esattamente, sceglievamo qualcuno che volevamo seguire. E’ su lui che regolavamo l’apparecchio, e quindi esso lo seguiva automaticamente, un po’ come gli ornitologi che inanellano le oche selvatiche o le cicogne per meglio studiare i loro spostamenti”.
Qualcuno strattonando la fisica quantistica potrà ammettere tali possibilità, qualcun altro aggrappato alla fisica classica suggerirà una casa di cura, noi confessiamo lo spaesamento tra l’Ernetti-1 e l’Ernetti-2. Il secondo suggeriva alla fedele veneziana Adriana Scaficchia (Pulici ne riporta la testimonianza) come procedere nella comunicazione strumentale con le “voci dall’aldilà”, la cosiddetta metafonia; invece l’Ernetti-1 esortava nel volume La catechesi di Satana, trattato di demonologia pubblicato due anni prima di morire, a tenersi lontani da ogni pratica spiritica, proibita dalla Chiesa: “Sappiamo bene che talvolta si tratta solo di trucchi; che alcuni fenomeni c’è chi li attribuisce a forze naturali misteriose; ma non si può negare che certi fenomeni – pochi o molti non conta – si debbano attribuire non a spiriti disincarnati, ma allo spirito maligno, che è padre della menzogna e nemico dell’uomo fin da principio”. Forse l’apparente contraddizione può risolversi con la delucidazione di Scaficchia: “Il medium che parla durante una seduta spiritica è una cosa, una traccia sonora che resta incisa su un nastro è cosa ben diversa. Padre Ernetti teneva sempre a fare questa distinzione. Perché il suo desiderio era di riportare i fenomeni alla scienza, che egli riteneva una risorsa data da Dio agli uomini”. Pertanto sulle voci dall’aldilà “aveva un atteggiamento prettamente scientifico, positivista, di ricerca”.
Spunta però, parlando di voci incise, un altro clamoroso episodio raccontato da Ernetti e dai suoi biografi, risalente a settembre 1952, quando svolgeva con padre Agostino Gemelli ricerche di acustica sul canto gregoriano. Il filo del magnetofono si ruppe due volte e Gemelli esclamò, come sua abitudine: “Ah! Papà aiutami”. Quando rimisero in moto l’apparecchio, avrebbero udito la risposta del defunto evocato: “Ma certo che ti aiuto. Io sono sempre con te… Ma sì, zuccone, non vedi dunque che sono proprio io?”. Anche quella volta il reperto sarebbe finito dinanzi a Pio XII, che avrebbe incoraggiato la prosecuzione degli esperimenti, e questo spiegherebbe il favore di Ernetti verso le ricerche di metafonia.
Un magma di bufale o un geniale inventore che sopportò i sospetti di cialtroneria da lui stesso suscitati? Padre Ernetti tenne il silenzio pubblico fin quasi alla fine, quando in un’intervista al mensile spagnolo Más Allá, nel maggio 1993, ribadì l’esistenza della macchina e il divieto di riparlarne. Negli anni aveva ricevuto anche gli attacchi di un altro sacerdote dedito alle ricerche fisiche sul tempo, don Luigi Borello (morto nel 2001), il quale vantava la bontà dei propri studi sul “cronovisore” e accusava Ernetti di aver prodotto “un falso”: un lungo frammento in latino del Tieste, tragedia di Ennio che padre Pellegrino sosteneva di avere captato in una incursione nel passato.
La scrittrice Paola Giovetti lo conobbe in un convegno della rivista Astra a Riva del Garda, cui padre Ernetti partecipò senza toccare il tema della macchina del tempo: “Lo assediavano tutti con domande sul ‘cronovisore’, ma sulla questione non rispose a nessuno. Lo ricordo”, racconta, “come un uomo di grande cultura ed equilibrio, ironico e piacevole. Non ebbi affatto l’impressione di un mitomane capace di inventarsi di sana pianta certe enormità”. Giovetti coltivò l’amicizia di padre Brune, “anche lui di vastissima cultura. Una volta mi fece da guida a Parigi e nella sezione del Louvre dedicata all’Egitto leggeva i geroglifici come se fossero scritti in francese” (aveva studiato lingue antiche alla Sorbona e Sacra Scrittura all’Istituto Biblico di Roma).
Quando all’inverosimile le vicende umane s’accostano troppo, calano inevitabili gli spiritelli della narrativa. Con cospicuo profitto Roland Portiche, documentarista francese, ha pubblicato l’un dietro l’altro tre romanzi su Ernetti dal 2020 al 2022: La Machine Ernetti (per dare un’idea: 1.097 recensioni su Amazon France), Ernetti et l’énigme de Jérusalem, Ernetti et le voyage interdit. La figura del benedettino è mescolata ad altri ingredienti per ammannire un potpourri su cui l’autore profonde con generosità la scomparsa di Ettore Majorana, gli intrighi vaticani, la Cia, il Kgb e l’immancabile Mossad in un plot che dal marzo 1938 attraversa la Seconda guerra mondiale e prosegue nella Guerra fredda.
Con altri strumenti letterari, lo scrittore veneziano Tiziano Scarpa inserì il “cronovisore” nel romanzo Il brevetto del geco del 2016, ricalcando sulla figura del sacerdote quella di don Gildo Zannoni. Due aspiranti fondamentalisti cristiani ne intercettano il discepolo, padre Marcello, che ammette senza mezzi termini la realtà della macchina. Era stata puntata su una scena successiva alla crocifissione e più discussa ancora, ossia “per captare il momento e il luogo della Resurrezione”. Ma il prodigio restò nell’invisibile, o meglio in “una nebbiolina elettronica, come quando la sintonizzazione è difettosa”. “Il dispositivo”, rievoca il sacerdote, “aveva captato con precisione l’istante esatto, e ne era stato abbagliato. Il cronovisore si è spento crepitando, con un vaporino scuro e un odore di bruciato. La Resurrezione lo ha fulminato”.
Oltre alle brillanti catechesi del benedettino, a novembre scorso qualcuno ha caricato su YouTube, che è la macchina del tempo di cui noialtri disponiamo, il filmino dell’estremo saluto a padre Pellegrino sull’Isola di San Giorgio, teatro del suo ministero e del suo mistero.
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