Il Partito di Dio. Sepolta la Dc e spariti i riferimenti storici, i vescovi italiani tornano a dettare l'agenda

Matteo Matzuzzi

Dall’immigrazione all’autonomia, fino al premierato: per il governo poche rose e tante spine. La presidenza Zuppi ha dato la sveglia alla sonnolenta Chiesa italiana che ha faticato a fare propria l’agenda di Francesco, illustrata a Firenze nel 2015 ma rimasta pressoché lettera morta

C’era un tempo in cui il Papa poteva rifiutare di ricevere Alcide De Gasperi in Vaticano perché non apriva all’alleanza con monarchici e fascisti alle Comunali di Roma, nei primi anni Cinquanta. Pio XII era terrorizzato che i comunisti andassero al potere nella Caput mundi, forse vedeva già le avanguardie dei cavalli staliniani avvicinarsi per abbeverarsi alle fontane di piazza San Pietro. De Gasperi, laicissimo nel suo senso dello stato, replicò che mai e poi mai si sarebbe alleato con i post fascisti anche perché così si sarebbe disintegrato il Centro: “Quanti hanno sensibilità sociale rimarrebbero sconcertati e finirebbero per scivolare verso l’estrema sinistra”. Per Pacelli il discorso era chiuso, non rivide mai più De Gasperi, neanche quando questi gli chiese udienza (l’anno successivo allo scontro su Roma) in occasione del trentesimo anniversario di matrimonio e della professione di sua figlia, Lucia. Troppo grande lo sgarbo subìto da quello che s’iniziava a considerare – e lo sarebbe stato sempre di più in futuro – il partito di riferimento. 

 

La Dc bastione contro i comunisti, articolata nelle mille sue correnti, il partito-stato che non poteva andare all’opposizione. Le battaglie su aborto e divorzio, con il pontificato di Paolo VI che renderà manifesto questo legame fino al dramma del sequestro e del barbaro assassinio di Aldo Moro. Il Papa che scriverà alle Brigate Rosse, proponendo una trattativa segreta, lanciando un appello all’Angelus. E infine con quell’omelia funebre in San Giovanni in Laterano, tre giorni dopo il ritrovamento del corpo: Dio, “Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di  Aldo Moro, di questo uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita”, lamentò Montini mentre, sfinito, parlava del “Sole che inesorabilmente tramonta”. Poi venne Wojtyla, che al destino della Balena bianca e delle sue dinamiche interne preferiva combattere il comunismo lavorando con Reagan e Walesa. Con Mani Pulite è crollato un mondo ed è lì che si è inserito Camillo Ruini: il partito di riferimento non c’era più, né sarebbe stato possibile ricrearlo. La storia, anche quella breve, gli avrebbe dato ragione, come si è visto dai tanti esperimenti naufragati davanti al primo scoglio. Ancora pochi anni fa, quando nostalgici del tempo andato cercavano materiali per costruire le fondamenta di un nuovo fantomatico centro, Ruini diceva “non è questo il tempo per dar vita a un partito dei cattolici. Mancano i presupposti: per il pluralismo molto accentuato all’interno della Chiesa stessa, e per la sua giusta ritrosia a coinvolgersi nella politica”. Quindi, al Corriere della Sera, riproponeva la sua antica strategia: “I cattolici possono operare all’interno di quelle forze che si dimostrino permeabili alle loro istanze. E’ una strada oggi più faticosa di ieri, perché la scristianizzazione sta avanzando anche in Italia; ma non mi sembra una strada impossibile”. Niente più diktat al “partito” di casa, ma farsi largo influenzando quello che il mercato politico offriva: “Non mi sono pentito. Senza mitizzarla, quella strada ha portato dei frutti. Si è trattato di sottolineare contenuti molto importanti, non solo per i cattolici, e di chiedere alle forze politiche di impegnarsi su di essi, o almeno di non contrastarli. Questa linea ha avuto maggiori adesioni nel centrodestra, ma ne ha trovate anche nel centrosinistra”. E di risultati ne ha avuti, come dimostra il successo referendario del 2005. 

 

Tramontata l’èra berlusconiana, che più aveva goduto i benefici del disegno di Ruini, le cose si sono fatte più complicate. Il quadro caotico italiano, fra governi tecnici e della larghe intese, quindi la fluida situazione alla Conferenza episcopale italiana: prima la gestione di Angelo Bagnasco “minacciata” dalle interferenze del segretario di stato Tarcisio Bertone, che come una spada di Damocle faceva sentire il suo peso sull’episcopato, proprio nei rapporti con i governi e la politica, poi la parentesi di decantazione targata Gualtiero Bassetti.  Nel frattempo, particolare non indifferente, l’ascesa al Soglio petrino di Francesco. Uno che di certo la strategia ruiniana non l’ha condivisa. Anzi: “I rapporti con la politica sono affare vostro”, disse ai vescovi italiani la prima volta che li vide, in San Pietro. E pretese che si eleggessero il presidente, senza imposizioni dall’alto. Almeno così all’inizio. Trascorsi gli anni e compreso come funzionavano – o non funzionavano – le cose, anche il Papa preso quasi alla fine del mondo s’è adeguato. Così, all’ultima assemblea elettorale della Cei, ha fatto sì votare i vescovi, ma ha ridotto gli eleggibili a due declamando coram populo i criteri: che l’eletto sia cardinale e abbia non più di 70 anni, meglio se ne ha meno. E uno è stato poi nominato guida dell’episcopato. La presidenza Zuppi ha dato la sveglia alla sonnolenta Chiesa italiana, disorientata dal cambio di ritmi e priorità, che ha faticato a fare propria l’agenda di Francesco, illustrata a Firenze nel 2015 ma rimasta pressoché lettera morta – e il Papa se ne è lamentato, più volte, pubblicamente: “Una cosa che ho visto è l’amnesia. Perdiamo la memoria di quello che abbiamo fatto, Firenze”, disse nel 2021 incoraggiando i vescovi ad andare avanti con il progetto di Sinodo italiano, partito prima con le perplessità dei vertici della Cei, quindi diluito progressivamente nel Sinodo universale sulla sinodalità e in concreto rimasto una bella cornice di un quadro ispirato a tanti belli e buoni propositi che si vedrà quanto realizzati. Di certo, i vescovi hanno ritrovato loquacità. Non si hanno più le noterelle diffuse a mezzo stampa a seguito di qualche sentenza – solitamente sgradita – sui princìpi non negoziabili, pubblicate quando ormai i giochi erano fatti. Ora si detta l’agenda: i vescovi parlano, sui giornali e in piazza, e non sempre mascherano il loro pensiero dietro alla diplomatica prudenza che animava le loro uscite. Anche a costo di veder compromessi i rapporti con il governo, con la presidente Giorgia Meloni ben voluta da Papa Francesco e assai meno da qualche vescovo con incarichi di riguardo nella Cei.

 

E i temi sui quali la loquacità è più viva sono quelli cari al cattolicesimo democratico, come ad esempio il ruolo sociale della Chiesa. Basti vedere il tema e lo svolgimento dell’ultima Settimana sociale tenuta a luglio a Trieste: “Al cuore della democrazia”. Osservatori di destra hanno scritto che più che altro sembrava una festa del Pd, concetto condiviso – a taccuini rigorosamente chiusi e microfoni severamente spenti – anche da qualche vescovo non proprio in sintonia con il nuovo corso. Dopotutto, i riferimenti basilari erano Giorgio La Pira, don Lorenzo Milani e perfino Giuseppe Dossetti, citato da Sergio Mattarella nel suo discorso. Un programma non certo sovrapponibile o in continuità con quello di Ruini. E ancor meno capace di incontrare il sorriso di Matteo Salvini, che non a caso ha ripreso a tirare bordate contro i vescovi. Sui migranti, tanto per cominciare. L’accordo con l’Albania, più che dalle opposizioni in Parlamento è stato subito affossato dalla Cei. L’arcivescovo di Ferrara, mons. Gian Carlo Perego ha detto che trattasi di “una nuova sconfitta della democrazia”. Né più né meno che “uno spreco di risorse pubbliche. Un nuovo atto di non governo delle migrazioni, di non tutela degli ultimi della terra”. Sull’autonomia differenziata, poi, lo scontro è aperto. Prima con i malumori dei vescovi del sud, quindi con una dichiarazione del cardinale Zuppi davanti ai giornalisti, e poi con la Nota ufficiale che ha fatto arrabbiare (e non poco) Meloni. 

 

Qualcuno, nella maggioranza, parlava superficialmente di complotto, nei corridoi della Camera si tratteggiava un asse Cei-Pd con lo sguardo interessato del Quirinale; la sindrome d’accerchiamento iniziava a contagiare anche i più ottimisti circa il rapporto con le alte sfere ecclesiastiche. Anche perché la Nota era insolitamente dura nei toni: “Il progetto di legge con cui vengono precisate le condizioni per l’attivazione dell’autonomia differenziata – prevista dall’articolo 116, terzo comma, della Costituzione – rischia di minare le basi di quel vincolo di solidarietà tra le diverse regioni, che è presidio al principio di unità della Repubblica. Tale rischio non può essere sottovalutato, in particolare alla luce delle disuguaglianze già esistenti, specialmente nel campo della tutela della salute, cui è dedicata larga parte delle risorse spettanti alle regioni e che suscita apprensione in quanto inadeguato alle attese dei cittadini sia per i tempi sia per le modalità di erogazione dei servizi”. La premier reagiva d’istinto, “il Vaticano non è una repubblica parlamentare”, piccata più che altro perché Zuppi aveva anche espresso dubbi sul premierato, “la madre di tutte le riforme”. Alla Cei restavano perplessi, visto che Meloni tirava in ballo il Vaticano che ben poco c’entrava. La sensazione, notavano ambienti della maggioranza più portati alla placida riflessione, è che i tempi sono davvero cambiati e che l’episcopato italiano è tornato a far sentire la sua voce con una potenza di fuoco che non si riscontrava da anni. Il problema, aggiungevano in coda al ragionamento, è che se una volta l’orientamento era benevolo verso le ragioni del centrodestra, oggi pare essere su frequenze opposte. Prova ne è l’intemerata sopra le righe del vicepresidente per il sud, mons. Francesco Savino, vescovo di Cassano allo Jonio, che in un’intervista a Repubblica si è spinto addirittura a definirle l’autonomia un “pericolo mortale”. Lo scorso giugno, lo stesso presule aveva anche contestato le “riforme” del governo, accusando la maggioranza d’aver dato “risposte offensive” e di non volere il dialogo. Quasi elucubrazioni pubbliche d’un capo partito più che di un presule alla ricerca del dialogo. Il cardinale presidente, su Avvenire, ha smorzato un po’ i toni e sui rapporti con l’esecutivo ha detto che “con questo governo, così come avvenuto con quelli passati, c’è una buona interlocuzione e su certi temi una ottima collaborazione. Se la Chiesa esprime un’opinione non è per entrare nel dibattito politico, o per dare indicazioni socio-politiche specifiche, che competono alle forze politiche e sociali, ma solo per promuovere la persona e senza interessi di parte. E questa è proprio la libertà della Chiesa”. 

 

Non che l’episcopato italiano sia un blocco uniforme, anzi: le voci dissenzienti ci sono e neppure troppo poche, divise fra chi è più battagliero – in prima fila il vescovo di Ventimiglia, mons. Antonio Suetta – e chi confida solo a qualche confratello i propri dubbi sulla linea dominante e sull’esuberanza di certi prelati. Ma ci sono. Prova ne sono i voti (non pochi) che mons. Antonino Raspanti, vescovo di Acireale e non cardinale, ottenne nell’assemblea che votò la terna da presentare al Papa per la carica di presidente della Cei. Il dubbio che in tanti si pongono è se sull’incedere del governo meloniano ora si frapponga la Chiesa che, soprattutto in certe zone d’Italia, dove è più radicata nel tessuto sociale locale, non di rado diventa attore protagonista delle battaglie politiche per il governo di amministrazioni comunali. Concedendo l’ambita benedizione a una delle parti in causa o, addirittura, favorendo il coalizzarsi di liste, partiti ed espressioni civiche attorno a uno dei candidati. Si pensi solo al lavorio in Umbria per la candidatura alla presidenza della regione di Stefania Proietti, cattolica sindaca di Assisi. “Mamma e catechista, cattolica attenta alla cura del Creato”, così si definì otto anni fa, in campagna elettorale, aggiungendo che “tutto questo, se verrò eletta, entrerà nella mia giunta e nel mio programma. In un progetto civico libero dalle ideologie, ispirato alla dottrina sociale della Chiesa, in sinergia con le famiglie francescane della diocesi, dove al centro ci saranno i più fragili”. 
Parole ardite, rischiose per i falchi della laicità, ma dette liberamente dalla candidata che poi vinse. E ora si ritenta, con l’appoggio tutt’altro che segreto, di una cordata cattolica che va da Sant’Egidio alla realtà francescana. Qui la Chiesa conta parecchio, come tanto contava un tempo in tutt’Italia. Ma ora? E’ vero che la presenza s’è fatta più sfumata, che le chiese sono sempre più vuote e il laicato resta sempre un qualcosa che cerca un ruolo e ancor prima una definizione – anni fa, l’allora presidente dell’Azione cattolica, Paola Bignardi, scrisse che “il laicato, come l’insieme di coloro che vivono secondo lo stesso stile spirituale – il Concilio direbbe secondo la stessa vocazione – non esiste più” – eppure in Italia un certo peso la Chiesa, con le sue ramificazioni nel sociale e nelle parrocchie, lo conserva ancora. Sarà diminuito e sempre più scarso, ma un certo attivismo cattolico è ancora ben radicato. Sottovalutarlo, da parte di chi governa, sarebbe un errore potenzialmente fatale. Dopotutto, i banchetti per la raccolta firme contro l’autonomia li stavano allestendo sui sagrati delle chiese.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.