il viaggio del pontefice

Cristo si è fermato a Timor est

Si è proprio certi che ai popoli di Singapore, della Mongolia o di Bangui interessino le elucubrazioni sul diaconato femminile, sul celibato sacerdotale, sulle attese del Cammino sinodale tedesco?

Matteo Matzuzzi

Quasi un'intera isola a messa dal Papa, “per vedere Gesù”. Una lezione di fede profonda e genuina alla declinante Chiesa d’occidente

Una distesa infinita di ombrelli bianchi e gialli a riparare una spianata di seicentomila fedeli giunti a Taci Tolu per assistere alla messa celebrata dal Papa. Poco meno di un terzo della popolazione di Timor est, che in tutto ne conta un milione e mezzo. Erano tutti lì, a salutare Francesco e a pregare con lui. Lembo estremo d’Asia, il più cattolico e il solo – con le Filippine – ad avere una maggioranza di cattolici. I preti sono 347, tre i vescovi, sessantasei le parrocchie. Più un migliaio fra religiose e religiosi. Su quella spianata hanno trovato ossa umane, resti della guerra civile che ha devastato l’ex colonia portoghese che ha saputo, a fatica, riconciliarsi. “Qui il Vangelo è fonte di concordia sociale”, ha detto il Pontefice prima di ammonire sui rischi ancora presenti: povertà, alcol, abusi. E pure i coccodrilli, che fra i laghi salati che circondano la capitale Dili potrebbero avere la tentazione di farsi una passeggiata sulla terraferma e mordere. Non era un semplice avvertimento per così dire faunistico, quello di Francesco: “State attenti! Perché mi hanno detto che in alcune spiagge vengono i coccodrilli; i coccodrilli vengono nuotando e hanno il morso più forte di quanto possiamo tenere a bada. State attenti! State attenti a quei coccodrilli che vogliono cambiarvi la cultura, che vogliono cambiarvi la storia. Restate fedeli. E non avvicinatevi a quei coccodrilli perché mordono, e mordono molto. Vi auguro la pace. Vi auguro di continuare ad avere molti figli: che il sorriso di questo popolo siano i suoi bambini! Prendetevi cura dei vostri bambini; ma prendetevi cura anche dei vostri anziani, che sono la memoria di questa terra”. Chiaro riferimento a quelle colonizzazioni ideologiche contro cui Bergoglio si scaglia fin dal primo giorno che siede sul trono di Pietro.

 

Non c’è cronaca dell’infinito tour papale in estremo oriente che non abbia rimarcato la straordinarietà delle folle di Timor est. Eppure qui un Papa l’hanno già visto, Giovanni Paolo II nel 1989. Ma era tutt’altra faccenda, c’era la guerra, le divisioni evidenti, anche se quella visita segnò un passo fondamentale nel processo di autodeterminazione. Migliaia di persone di tutte le età assiepate lungo le strade attendendo il vescovo di Roma: festose ma ordinate, composte. Devote. Più interessate a sentire Francesco e a celebrare con lui l’eucarestia che a immortalarsi in selfie con croci, vescovi e parvenu per suggellare l’evento. “Timor è un piccolo paese, un’isola lontana, però la sua gente semplice vive l’originalità della fede in Gesù Cristo”, ha detto nel suo messaggio di ringraziamento l’arcivescovo di Dili, il cardinale Virgílio do Carmo da Silva

 

Quanto stridono queste immagini, questa profonda devozione, con il deserto d’occidente, abitato dai “popoli dell’opulenza”, come li definì Paolo VI nella Populorum progressio. Oggi, a più di mezzo secolo di distanza da quel documento, si può dire senza pericolo di fraintendimento che quell’opulenza non è solo la ricchezza materiale, ma è molto di più. Drammaticamente, di più. E’ l’assuefazione a un modo di vivere in cui le domande ultime sono infilate a forza in un cantuccio, dove non ci si domanda più nemmeno se Dio esiste: semplicemente, il tema non interessa. Un mondo in cui ai dogmi di fede se ne sono sostituiti altri, estremizzando a tal punto concetti come laicità, uguaglianza e inclusività da non ricordarsi più neppure cosa volevano dire in origine. L’Europa che nei sogni di Robert Schuman era quelle delle cattedrali, oggi si arrovella su tecnicismi e regolamenti. Dei due polmoni di fede e cultura che tanto a cuore stavano a Giovanni Paolo II, non c’è più traccia. Di radici, di qualunque origine fossero, neanche a parlarne. “Dove sei finita, Europa?” si chiese (e chiese agli astanti) Francesco quando ebbe occasione di parlare del Vecchio continente. I suoi valori, i suoi ideali, la sua anima. La fede profonda che aveva permesso di costruire Notre-Dame – senza vetrate “contemporanee” – e decine di altre cattedrali con le guglie puntate verso le cose di lassù, oggi è retaggio di una storia perduta. Bisogna andare a Dili, nella piccola isola di Timor est per ritrovarla. Senza tanti orpelli, vero. Ma anche senza tanto interrogarsi su aggiornamenti, cambiamenti, sistemazioni, rivoluzioni, riforme. La fede semplice. Che poi è quella dei contadini che si fermavano in mezzo al campo mentre le campane del villaggio richiamavano alla preghiera dell’Angelus di mezzogiorno, delle beghine che non capivano niente di quel che bofonchiava il prete in latino, ma intanto sgranavano il Rosario. A Dili, tra i coccodrilli veri o metafora delle colonizzazioni ideologiche, bastava la croce e il Papa, rappresentante di Cristo. Nient’altro

 

Non è questione di povertà materiale, non solo almeno: le stesse scene si sono viste in Corea del sud, terra di evangelizzazione giovane e di fede dinamica. Allora torna alla mente una delle più antiche interviste rilasciate da Francesco, quasi agli albori del pontificato. Il Papa conversava con una rivista pubblicata in Argentina, nelle ville miseria di Buenos Aires: “Quando parlo di periferie, parlo di confini. Normalmente noi ci muoviamo in spazi che in un modo o nell’altro controlliamo. Questo è il centro. Nella misura in cui usciamo dal centro e ci allontaniamo da esso, scopriamo più cose e, quando guardiamo al centro da queste nuove cose che abbiamo scoperto, da nuovi posti, da queste periferie, vediamo che la realtà è diversa”. Aggiungeva, il Papa, che “una cosa è osservare la realtà dal centro e un’altra è guardarla dall’ultimo posto dove tu sei arrivato”. “L’Europa vista da Madrid nel XVI secolo era una cosa, però quando Magellano arriva alla fine del continente americano, guarda all’Europa dal nuovo punto raggiunto e capisce un’altra cosa”.

 

Colpirà ancora di più, allora, l’inevitabile paragone che si farà a fine mese, quando Francesco per la prima volta metterà piede nel cuore di quell’Europa che fino ad ora ha toccato solo marginalmente, nelle sue periferie. E non inizierà un viaggio entrando dalla porta laterale, bensì da quella frontale: Bruxelles, dopo il Lussemburgo. La capitale dell’Unione che è al contempo l’emblema più evidente di come il cattolicesimo in Europa sia declinante e arranchi stanco verso qualcosa che lo ridesti, non sapendo però bene cosa. Nei mesi scorsi, al Foglio, l’arcivescovo emerito di Bruxelles, il cardinale Jozef De Kesel, ammise che “in una società secolarizzata la sensibilità religiosa non è più così grande come un tempo. La Chiesa e la sua fede non sono più onnipresenti. La fede cristiana non è più la convinzione dell’intera società. Ma questo non significa che Dio sia assente. Dio è all’opera in questo mondo, anche oltre i confini della Chiesa. Che le chiese siano vuote e scompaiano silenziosamente è semplicemente non vero. Naturalmente, in una società in cui tutti sono cristiani, le chiese sono necessarie ovunque. Non è così in una società secolare e pluralista. In questo senso, le chiese sono occasionalmente ritirate dal culto. E si presta molta attenzione alla destinazione che viene loro assegnata. Ma la grande maggioranza delle chiese rimane un edificio di culto. Anche a Bruxelles ci sono chiese molto affollate”. 

 

Alla radice della stanchezza, forse, c’è anche quello che De Kesel definiva “un malinteso sul termine ‘aggiornamento’ tanto usato riguardo al Concilio Vaticano II: Papa Giovanni voleva effettivamente avvicinare la Chiesa al mondo. Fare in modo che non sia un mondo a sé stante accanto al mondo reale. Aggiornamento significa apertura al mondo. Ma non significa adattamento al mondo. Nella Bibbia, la tentazione del popolo di Dio è sempre stata quella di essere come le altre nazioni. Ma se la Chiesa deve offrire solo ciò che si può ascoltare altrove, non avrà alcun fascino. Ecco perché alla fine del mio libro scrivo che la Chiesa del futuro dovrà essere una Chiesa più confessionale: testimoniare il Vangelo nel modo più autentico possibile attraverso le parole e le azioni”. 

 

Ecco che tornano le parole dell’arcivescovo di Dili: qui si vive l’originalità della fede in Gesù Cristo. Ed è la stessa cosa che accade in tante parti d’Africa, dove decine di famiglie ogni domenica camminano per chilometri pur di partecipare alla messa. Mentre qui, da noi, si mandano lettere al vescovo se qualche parroco osa alternare le celebrazioni festive fra due chiese distanti due chilometri. La messa espressa, sotto casa, comoda come sosta fra la colazione al bar e il pranzo al ristorante. Il sud del pianeta parla al nord e chissà che da laggiù non arrivi prima o poi una nuova onda evangelizzatrice, che non è certo l’uso di preti e suore africane o asiatiche per sopperire alla carenza di vocazioni occidentali. Diceva a tal proposito Adrien Candiard che se “l’idea è quella di riempire la crisi della Chiesa occidentale con manovalanza africana o asiatica”, è meglio lasciar perdere: “Le suore del Madagascar hanno tanto da fare in Madagascar, anche sul terreno della missione, non portiamole qui ad assistere le suore anziane nella vecchia Europa”. 

 

Il discorso è più profondo. Si è proprio sicuri che la fede genuina e semplice sia quella dei Sinodi infiniti che producono documenti, tabelle, schemi, strumenti di lavoro. Sinodi che vorrebbero combattere l’autoreferenzialità e poi finiscono per  chiudersi in Vaticano per settimane a discutere di questioni che il mondo, fuori, conoscerà solamente attraverso sintesi e mediazioni? Si è proprio certi che ai popoli di Timor est, di Singapore, ma anche al piccolo gruppo di fedeli della Mongolia o a quelli di Bangui interessino le elucubrazioni sul diaconato femminile, sul celibato sacerdotale, sulle attese del Cammino sinodale tedesco che tra un cenacolo sulla collegialità e l’istituzione di un Comitato ad hoc punta a rovesciare la struttura gerarchica della Chiesa? S’è mai domandato, qualcuno, perché i seicentomila cattolici riuniti per accogliere il Papa e pregare con lui siano tutti a Timor est e non nelle spianate bavaresi o nella Grand Place di Bruxelles? 
Certo, i programmi di riforma e le lettere pastorali di vescovi e arcivescovi infarcite dell’aggettivo “sinodale” (ovunque presente e declinato a seconda dell’argomento specifico, usato per giustificare l’accorpamento di parrocchie o per invocare nuovi catechisti… si fa tutto in nome della sinodalità, tanto per rimanere tranquilli) puntano a un ritorno alle origini, alla fede semplice e pura, quella senza troppe inutili sovrastrutture, senza gli orpelli e tutto ciò che sa di barocco o di eccessivo. Ma il risultato qual è? Che a forza di parlare di semplificazione e purificazione, sono aumentati i convegni e i gruppi di lavoro, le assise sinodali e le assemblee più o meno deliberanti, i rapporti e i documenti. Spesso accompagnati dai moniti vaticani seguiti dalle controrisposte di qualche episcopato baricadero. La fede genuina e delle origini è quella dei quindici secondi di benedizione suggeriti in Fiducia supplicans? A sentire quel che dicono i pastori delle Chiese dove la messa non è ancora ridotta a routinario appuntamento domenicale e nulla più, la risposta è negativa. 

 

Una delle tappe più significative dell’ultimo viaggio papale è stata a Vanimo, in Papua Nuova Guinea. Città poverissima, tre supermercati per 150 mila abitanti, infrastrutture inesistenti: per gli indigeni dei villaggi vicini accorsi per vedere Francesco sono state allestite tende (gli alberghi sono solo due e riservati a  chi ha ragguardevoli disponibilità economiche). Eppure, questa “scomodità” è un dettaglio in confronto alla possibilità di guardare in faccia il Pontefice: “Chi desidera vedere il Papa dice che è Gesù che viene, vuole ascoltarlo e ricevere la benedizione”, diceva alla vigilia del viaggio intervistato da Vatican News padre Alejandro Diaz, di origini argentine, monaco dell’Istituto del Verbo Incarnato, missionario da un anno nel villaggio di Wutung. E’ colui che propose tempo fa a Francesco di recarsi lì. Racconta di quando ci si inoltra nella giungla per raggiungere i villaggi sparsi e lontani da tutto: “E’ una Chiesa che sta nascendo, ha ottant’anni di vita, stiamo seminando e già ne vediamo i frutti: si fanno tanti battesimi, la partecipazione alle liturgie eucaristiche è affollata, soprattutto di giovani e bambini. Abbiamo addirittura dovuto dire ai chierichetti di non venire tutti insieme perché sono troppi, alla messa del mattino ce ne sono venticinque! Nessuno li obbliga ovviamente, lo fanno perché lo desiderano”. Nei villaggi si va nel fine settimana, percorrendo strade fangose con ostacoli d’ogni tipo: “Arriviamo alle volte la sera tardi ma la gente ci aspetta. Confessiamo, celebriamo la messa. La gente esce dal villaggio, acclamando vedendoci arrivare, questo ti spacca il cuore, non puoi fare altro che piangere. E’ così assetata di Dio che ci edifica l’anima”. 

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.