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Le posizioni della Cei

La svolta in corso del cattolicesimo italiano ha radici antiche e molto solide

Luca Diotallevi

L'avvesione della Cei per l'autonomia differenziata è solo l'ultimo segnale di un cambiamento interno alla Chiesa: in profonda discontinuità rispetto alla storia dell'ultimo secolo, e con momentanee sembianze "di sinistra"

Nel cattolicesimo italiano è in corso qualcosa di molto simile a un cambio di paradigma. Prima del giudizio è necessario tentare di comprendere. Si tratta di un cambiamento che in modo nuovo mescola “vecchio” e “nuovo” manifestando così consistenza e radici. Gli indizi abbondano. Uno dei più nitidi è la opposizione radicale dei vescovi italiani alla proposta di autonomia differenziata avanzata dal governo. Senza attardarsi sugli interventi di singoli presuli, l’essenziale è già presente nella Nota ufficiale del 22 maggio scorso. Per la Cei “il progetto di legge con cui vengono precisate le condizioni per l’attivazione dell’autonomia differenziata – prevista dall’articolo 116, terzo comma, della Costituzione – rischia di minare le basi del vincolo di solidarietà tra le diverse regioni”. Per i vescovi la proposta del governo è un “tentativo di accentuare gli squilibri già esistenti tra territori, tra aree metropolitane e interne, tra centri e periferie”. Il giudizio è senza sfumature e senza appello. Un giudizio di questo genere di fatto condanna non solo la proposta, ma il principio stesso della autonomia differenziata

 

     

La Nota non spende parola sul fatto che le diseguaglianze nord-sud sono cresciute con un “centralismo” che la condanna radicale della proposta finisce per difendere. Silenzio sulle “coalizioni estrattive” che traggono sostentamento intercettando trasferimenti dal centro alla periferia. Silenzio sul fatto che il federalismo rafforzerebbe quel dovere di responsabilità cui invece si sottraggono gli elettori che a livello locale preferiscono politici abili nel raccogliere risorse “romane” piuttosto che amministratori competenti e severi. La Nota presenta le regioni come articolazioni dello stato. Stando alla Carta, dovrebbe invece essere lo stato ad adeguare la propria azione legislativa e amministrativa alle autonomie locali che gli preesistono.


Prese di posizione come quella appena ricordata rappresentano una discontinuità profonda rispetto alla storia dell’ultimo secolo di cattolicesimo italiano e di Magistero sociale della Chiesa. Che non si tratti di una discontinuità occasionale lo rivela che anche in altre materie – si pensi al caso della guerra mossa da Putin all’Ucraina – l’episcopato italiano e una parte importante della Chiesa e del mondo cattolico hanno preso distanze analoghe da quel mix di cattolicesimo e liberalismo (di stampo anglosassone) che era stato il codice genetico del rinnovamento ecclesiale (culminato nel Vaticano II e nel pontificato di Paolo VI) e del rinnovamento civile (coronato dalla Costituzione del 1948, dalle riforme del decennio degasperiano e dalla costruzione del nucleo di ciò che oggi si chiama Unione europea). 


Per don Luigi Sturzo, testimone e maestro di quel rinnovamento, il federalismo (con il municipalismo) costituiva il motivo ispiratore di una opzione repubblicana e antistatalista, federalista e anticentralista, municipalista e poliarchica. Per Sturzo (meridionale e meridionalista, favorevole alla abolizione dei prefetti) del federalismo aveva bisogno il sud più ancora che il resto del paese. De Gasperi – impegnato nella guida del governo – dedicò uno dei suoi pochissimi interventi ai lavori della Costituente ai diritti delle autonomie locali. 


La cosa curiosa è che, se ci si lasciasse ispirare da quella matrice cattolico-liberale, non sarebbe difficile elaborare critiche puntuali e profonde alla proposta di autonomia differenziata attualmente in discussione. Basti pensare al fatto che per Sturzo (e non solo per lui) l’Italia è un paese fatto di città prima che di regioni, mentre la proposta Calderoli di questo (come d’altro) non si dà alcuna cura. Indubbie sono le consonanze tra il magistero sociale di Papa Francesco e questo nuovo orientamento dei vescovi e di larga parte dei cattolici italiani: si pensi solo alla nozione di “stato” presente al n. 240 di Evangelii gaudium. In materia sociale (e dunque anche politica) Francesco fa registrare una svolta rispetto a elementi e fonti dominanti non solo nel Concilio e nel pontificato di Montini, ma anche in quelli di Wojtyla (cfr. “sussidiarietà” ed  economia di mercato) e di Ratzinger (difesa della democrazia liberale anglosassone e della poliarchia delle società aperte).
C’è però qualcosa di più profondo nella svolta in corso. Ciò che sta tornando di moda – populismo, pauperismo, paternalismo, organicismo, conditi da una buona dose di neoclericalismo e di indulgenza verso l’autorità – ha radici molto solide e più antiche del pontificato in corso. 


Non a caso, l’azione e il pensiero di Sturzo erano stati salutati come novità rivoluzionaria per l’Italia da osservatori insospettabili quali Federico Chabod (“l’avvenimento più notevole della storia italiana del XX secolo”). Non a caso Giovanni Battista Montini, prima di diventare Paolo VI, per due volte (nel 1933 e nel 1954) era stato allontanato da ruoli ecclesiastici di responsabilità. Non a caso sull’inserimento in Costituzione della libertà religiosa (poi affermata dal Vaticano II) De Gasperi aveva retto e vinto lo scontro con Pio XII e la “scuola romana”.E’ un po’ come se il cattolicesimo italiano stesse tornando dalla Centesimus annus (1991) alla Rerum novarum (1891). Come se mons. Tardini e il suo “tatticismo” si stessero prendendo la rivincita sulla opzione di mons. Montini per la democrazia liberale e la responsabilità politica del laicato cattolico. Come se Dossetti si prendesse la rivincita su De Gasperi, Gentiloni e Gemelli su Sturzo.


Le ragioni cattolico-liberali richiederebbero oggi nuove declinazioni e invece vengono semplicemente e spesso tacitamente messe da parte. Non si dia troppo peso alle sembianze “di sinistra” assunte dalla discontinuità che sta maturando nel cattolicesimo italiano. Sono sembianze momentanee. Esse, come insegnò Scoppola, non stridono affatto con quella variante della “ragion di stato”, la ragione ecclesiastica, assai sapiente nella diversificazione del rischio.