processo a francesco

Questo Papa non piace più

Da “grande leader della sinistra” (cit. D'Alema) a faro dei miscredenti un po' woke, Francesco è diventato il simbolo dell'oscurantismo

Matteo Matzuzzi

Sono bastate le sparate su femminismo, “frociaggine” e aborto per alimentare l'onda di indignazione contro il Pontefice un tempo amato e osannato. Era il Papa del "Chi sono io per giudicare un gay?", l'hanno ridotto a "dogmatico" che ingerisce negli affari di uno stato sovrano. Tempi duri

“Conservatore”, “dogmatico”, “riduttivo”, reo di “ingerenze” negli affari interni di uno stato sovrano. Il viaggio in Lussemburgo e Belgio ha consegnato nella narrazione comune, mediatica e da social, un Papa arcigno, vetusto e  fuori dal tempo. Robe da ritirare fuori il “pastore tedesco” di ratzingeriana memoria, quasi. La colpa di Francesco è stata quella di parlare da Papa, e cioè di dire che l’aborto è un crimine, che re Baldovino è un modello di santità e che non approva il femminismo spinto che vuole trasformare la donna in uomo. Certo, non sfoggiando un lessico accademico, ma tant’è. Non se l’aspettava neanche lui, probabilmente, che tali ovvietà (dato quel che rappresenta il vescovo di Roma) fossero incomprensibili per il Belgio desertificato, dove i cattolici – quelli rimasti e indigeni – guardano a Gesù come a una sorta di supervisore di una mensa della Caritas, un attivista sociale che ogni tanto dispensa qualche buona perla di saggezza. Forse anche un tipo un po’ spirituale, anche se qui la concorrenza è forte: le campane tibetane che rinfrancano anima e mente sono sempre più cool e approvate dall’unanime consenso. Francesco, che resta pur sempre un cattolico nato in Argentina quasi ottantotto anni fa e che ha sempre teorizzato il valore della fede popolare, certo sottile disquisire sociologico non l’ha mai troppo sopportato: né quello di destra dei “teologi da spedire su un’isola deserta” né quello di chi spiega che la fede tradizionale popolare è un retaggio di antiche consuetudini poco consapevoli (infatti gli intellò cultori di tale filone, dopo un entusiasmo iniziale per lo più dovuto alla rinuncia dell’ortodosso Ratzinger, hanno iniziato a guardare sempre più con sospetto l’incedere di Bergoglio). Il paradosso è che uno dei grandi elettori di Francesco è stato il cardinale Godfried Danneels, arcivescovo eterno di Bruxelles (trentuno anni), leader incontrastato per decenni del cattolicesimo progressista europeo, teorico supremo di tutte le svolte più radicali per “rinfrescare” la fede sopita e spenta.

 

Il laboratorio degli esperimenti più innovativi, la sua diocesi, ha dato risultati disastrosi, come s’è visto con la visita del Papa e il discorso del rettore della cattolica Lovanio che gli impartiva una lezione di dottrina e morale (naturalmente pro lgbtq+ e pro ordinazione delle donne). Non che prima di Danneels il Belgio fosse un’isola felice, sia chiaro: i segni della crisi erano già evidenti all’inizio del Novecento. Successivamente, la crisi è diventata crollo verticale, con i vescovi che anziché richiamare i princìpi della fede cristiana approfondivano la necessità del dialogo interreligioso con le comunità che intanto s’erano prese Molenbeek, Anderlecht e altri quartieri  ormai sunniti dove l’avvistamento di un cattolico è raro quanto quello del mostro di Loch Ness. Francesco, in un anno, è così divenuto l’erede di Gregorio XVI. Il Papa che, nella vulgata errata, s’opponeva a ogni innovazione del tempo: vaccini o ferrovie che fossero. Francesco era il Papa amato dai salotti, quello del “Chi sono io per giudicare un gay?”, quello che finiva sulle copertine delle riviste tematiche con tanto di bandiera arcobaleno a fare da sfondo alla sua silhouette. Era il Papa delle grandi interviste che mandavano in sollucchero le scrittrici impegnate che certamente non sono cattoliche ma insomma, questo Papa è proprio un grande.  Entusiasmava le intellighenzie fieramente agnostiche, Michele Serra scriveva che “Papa Bergoglio piace sempre di meno ai cattolici tradizionalisti e forse è per questo che piace sempre di più a un miscredente come me”. Via “i pizzi della nonna”, dentro gli scarponi neri. Che grande questo Papa che vorrebbe andare a mangiarsi una pizza e che intanto va dall’ottico o a comprarsi un disco. Uno come noi, che va al Congresso degli Stati Uniti non con il macchinone d’ordinanza ma con la Punto. Massimo D’Alema arrivava a dire che “Papa Francesco è il più grande leader della sinistra”. Certo, Francesco ce ne ha messo di suo per creare questa allure. Da quando teorizzò  con Scalfari la necessità di “bastonare i cardinali” (il Vaticano disse che non s’era pronunciato proprio in tal modo, ma insomma) a quando esaltò Emma Bonino come “grande italiana”. Chissà se oggi, a distanza di anni da quell’encomio  che commosse la leader radicale, il Papa – tra una frase tranchant su “quelli che uccidono i bambini” e i medici che si prestano all’aborto definiti “sicari” – riproporrebbe tale elogio. Cattolici dalla fede tiepida e un po’ woke che tanto in alto l’avevano portato per un decennio, elevandolo a simbolo della nuova Chiesa che vuole stare al passo con i tempi, che non condanna e non giudica ma che tutto sommato benedice ogni cosa e lascia libertà – salvo poi definirsi subito “non praticanti” – oggi lo riducono a monumento dell’oscurantismo. E solo perché lui ha fatto il Papa. Sono proprio tempi difficili.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.