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Avanti con la Cina, basta non irritare Xi

L'Accordo con Pechino, culmine della realpolitik papale, resta precario. Anche se rinnovato

Matteo Matzuzzi

L'intesa tra la Santa Sede e la Cina comunista è stata rinnovata per altri quattro anni. Accanto agli aspetti positivi, restano le ombre. Che, da Hong Kong agli uiguri, non sono poche

Roma. E’ stato rinnovato per un quadriennio l’Accordo segreto e provvisorio fra la Santa Sede e la Repubblica popolare cinese relativo alla nomina dei vescovi nel paese asiatico. Prima novità: non più due anni è la durata, ma quattro. Era l’auspicio di Roma, che cercava di dare più solidità al patto allungando i tempi per trattare e apportare le eventuali e necessarie migliorie. Resta in ogni caso un accordo precario, che vede Pechino in una posizione di forza: più volte, infatti, il regime cinese ha nominato vescovi senza il previo consulto con la Santa Sede che, dopo aver espresso delusione e rincrescimento, ha di fatto “regolarizzato” le scelte fatte dalle autorità cinesi. Il tutto rientra a pieno titolo nella realpolitik di Papa Francesco: mettere da parte gli ostacoli (di qualunque natura essi siano) e guardare solo gli aspetti positivi o che tali sembrano. Non a caso, il comunicato diffuso dalla Sala stampa vaticana sottolinea “i consensi raggiunti per una proficua applicazione dell’Accordo provvisorio” e chiarisce che “la Parte vaticana rimane intenzionata a proseguire il dialogo rispettoso e costruttivo con la Parte cinese, per lo sviluppo delle relazioni bilaterali in vista del bene della Chiesa cattolica nel paese e di tutto il popolo cinese”.

 

Gianni Valente, direttore dell’Agenzia Fides, ha scritto che “oggi tutti i vescovi cattolici della Repubblica popolare cinese sono in piena e pubblica comunione gerarchica con il vescovo di Roma. Nel contempo, non sono più avvenute in Cina ordinazioni episcopali illegittime, cioè celebrate senza consenso papale: eventi che per decenni, dalla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso fino al 2011, avevano ferito la comunione ecclesiale e aperto lacerazioni tra i cattolici cinesi”. Dall’altro lato della medaglia, però, emerge la debolezza della Santa Sede, che di fatto è impedita dal commentare alcunché riguardi quelli che vengono considerati “affari interni” della Repubblica retta da Xi Jinping. A Hong Kong i cattolici finiscono nel mirino e un cardinale viene arrestato? Dal Vaticano, silenzio. Qualche governatore locale fa demolire le croci sulle chiese perché ree di deturpare lo skyline cittadino? Da Roma, non una parola. Solo una volta Papa Francesco ha alzato la voce, peraltro in un discorso più ampio, definendo gli uiguri un “popolo perseguitato”. Immediata fu la replica di un funzionario cinese, che accusò il Papa di non conoscere la situazione e di aver espresso dichiarazioni “senza alcun fondamento”. Da quel momento, Francesco ha solo speso parole al miele nei confronti di Pechino, fino al punto di dire (lo scorso settembre, di ritorno dal viaggio in oriente) che “io ammiro la Cina, rispetto la Cina. E’ un paese con una cultura millenaria, una capacità di dialogo, di capirsi tra loro che va oltre i diversi sistemi di governo che ha avuto. Credo che la Cina sia una promessa e una speranza per la Chiesa”. Non solo: la Cina, ha detto il Pontefice, è un “esempio per capacità di dialogo”.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.