Foto LaPresse

il concilio

Il Sinodo è finito e i vescovi già si dividono sull'interpretazione del risultato

Matteo Matzuzzi

Dal documento finale della riunione emergono aperture chiare e l'esigenza di una Chiesa missionaria, specialmente sulla volontà di dare più spazio e responsabilità alle donne nella Chiesa, nonostante l’assenza di ogni riferimento all’accompagnamento delle persone lgbtqi+

Nei 155 paragrafi del documento finale del Sinodo non v’è nulla di imprevisto o di eclatante, benché quello più contestato – che ha ottenuto 97 non placet a fronte di 258 placet – è molto chiaro nel delineare l’esigenza di dare più peso e responsabilità alle donne nella Chiesa. Dopotutto, si legge, “non ci sono ragioni che impediscano alle donne di assumere ruoli di guida nella Chiesa: non si potrà fermare quello che viene dallo Spirito santo”. Un paragrafo non frutto di un compromesso, anche quando – nonostante il no papale espresso durante un’intervista alla Cbs – afferma che “la questione dell’accesso delle donne al ministero diaconale resta aperta”.

Il resto è un invito affinché i laici si diano da fare e siano anch’essi posti al centro del villaggio – benché si comprenda chi siano i laici oggi, non volendo immaginare che siano solamente gli addetti all’animazione liturgica durante le celebrazioni e alle letture all’ambone – e la proposta di “precisare l’ambito della competenza dottrinale e disciplinare delle Conferenze episcopali. Senza compromettere l’autorità del vescovo nella Chiesa a lui affidata né mettere a rischio l’unità e la cattolicità della Chiesa”. Si parla anche di istituire “dei concili particolari, sia provinciali che plenari” al fine di “realizzare una salutare decentralizzazione e un’efficace inculturazione della fede”. Sono aperture chiare, ma sarebbe stato strano se dopo tre anni di lavoro sinodale realizzato proprio per favorire certe “novità”, il documento finale non ne avesse fatto parola.

Semmai, colpisce l’assenza di ogni riferimento all’accompagnamento delle persone lgbtqi+, nonostante il battage mediatico e parasinodale fatto in tal senso, con tanto di appelli e foto e uso sapiente dei social. Tenendo presente poi che sui temi più controversi e delicati s’era già abbattuta la mannaia di Santa Marta, togliendo dal tavolo dei lavori ciò che avrebbe potuto portare al fallimento dell’assemblea, il risultato è quello previsto. La fotografia è quella di una Chiesa che approva quasi all’unanimità gran parte del documento, ma che non appena s’accenna a riforme importanti e profonde, si divide: i 97 contrari sul ruolo delle donne sono l’esempio evidente di una resistenza notevole, non limitabile superficialmente ai soliti conservatori o ai prelati africani. Quel che resta di questo triennio di discussione che pochissimo ha coinvolto il Popolo di Dio e che ha faticato a uscire dai conciliaboli per pochi eletti – Enzo Bianchi ha scritto una settimana fa su Repubblica che “non è possibile neppure il conclamato ascolto. Nella comunità cristiana mi chiedono che cosa si sta elaborando ma non posso dare una risposta. E non solo c’è un mutismo sull’evento, c’è stato tanto invito all’ascolto ma si può ascoltare solo se c’è chi prende la parola pubblicamente, con responsabilità e discernimento” – è la scelta di rendere permanente la sinodalità. L’ha detto il Papa in persona, decidendo di non scrivere un’esortazione apostolica post sinodale ma di usare come ultimo documento proprio quello prodotto dall’assemblea. Sarà uno strumento di lavoro che ora dovrà essere adattato alle varie realtà e implementato. Non solo, perché Francesco ha detto che “alla luce di quanto emerso dal cammino sinodale, ci sono e ci saranno decisioni da prendere”.

Nel Documento finale, ha aggiunto il Pontefice, “ci sono già indicazioni molto concrete che possono essere di guida per la missione delle Chiese, nei diversi continenti, nei diversi contesti: per questo lo metto subito a disposizione di tutti, per questo ho detto che sia pubblicato”. Nulla di sorprendente, è il compimento di Evangelii gaudium, il programma del pontificato, riassumibile nell’immagine della Barca che va al largo, senza una rotta prefissata, ma che non sta ferma. Francesco l’ha detto anche nell’omelia della messa conclusiva, domenica nella basilica vaticana, davanti al Baldacchino del Bernini restaurato: “Non una Chiesa seduta, una Chiesa in piedi. Non una Chiesa muta, una Chiesa che raccoglie il grido dell’umanità. Non una Chiesa cieca, ma una Chiesa illuminata da Cristo che porta la luce del Vangelo agli altri. Non una Chiesa statica, una Chiesa missionaria, che cammina con il Signore lungo le strade del mondo”. Si vedrà ora come le Chiese locali, ciascuna con le proprie priorità e le proprie istanze portate a Roma, sceglieranno di interpretare le risultanze sinodali e le indicazioni papali. Un segno in tal senso lo si è già avuto dai vescovi tedeschi. Se il presidente della locale conferenza episcopale, mons. Georg Bätzing, ha giudicato “timido” il passaggio sul diaconato femminile pur plaudendo, invece, alla scelta di consentire ai laici un peso maggiore, il confratello conservatore di Passau, mons. Oster sottolinea che ogni scelta resterà in capo alle gerarchie costituite. E in ogni caso, dice il presule di Passau, gestire il tutto sarà complicato.
 

Di più su questi argomenti:
  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.