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Perché i cattolici hanno votato Trump

La battaglia irrisolta e tutt'altro che finita fra senso religioso e neopaganesimo wokista. Si parte da Adorno e si arriva a Musk

Matteo Matzuzzi

Jakub Grygiel (Catholic University): “I semi del wokismo hanno creato divisioni enormi nella società e nella cultura americana. Il problema va al di là della politica”. Secondo il liberal National Catholic Reporter, "Donald Trump ha sostituito Franklin Delano Roosevelt come avatar del populismo”. Esiste ancora l’America che crede in Dio, quella del motto In God We Trust?

I sondaggi l’avevano predetto da mesi che il voto cattolico, negli Stati Uniti, si sarebbe diviso quasi equamente fra Donald Trump e Kamala Harris. Una sintesi perfetta della spaccatura profonda tra due mondi non più comunicanti, fra i cattolici liberal à la Joe Biden e quelli nostalgici della guerre culturali, pro life integerrimi e senza tentennamenti, pure un po’ “ortodossi” nel mescolare fede, nazione e bandiera. Analisi e sondaggi hanno poi lasciato spazio ai risultati veri, quelli delle urne. E qui s’è scoperto che sono sì divisi, ma che il gruppo più numeroso è quello che ha scelto Trump, come mai prima d’ora: 52 per cento contro 41. Fra i cattolici bianchi, poi, la percentuale sale al 60 per cento. Trump che, riconoscono anche i commentatori conservatori cattolici, non ha particolari né profonde convinzioni religiose. Anzi, del cattolico modello è l’antitesi perfetta. Eppure, il cattolicesimo americano, di minoranza e quindi più battagliero e convinto rispetto a quello tiepido europeo, ha preferito lui. La domanda allora diventa d’obbligo: la religione conta ancora negli Stati Uniti? Incide sulle elezioni fino a determinarne l’esito? E perché i cattolici hanno scelto proprio lui? 

 

In questa campagna elettorale, si legge sulla rivista fieramente conservatrice First Things, “si è visto il minor numero di riferimenti alla religione nella storia americana, a parte i giornalisti che hanno strombazzato i pericoli del ‘nazionalismo cristiano bianco’”. Mesi fa, il Pew Research Center rilevava che l’ottanta per cento degli americani si diceva sicuro della perdita di influenza della religione nella vita pubblica. All’inizio del millennio, i “pessimisti” erano il cinquanta per cento. Esiste ancora l’America che crede in Dio, quella del motto In God We Trust? Se lo chiedeva già il Time alla fine degli anni Sessanta, quando in copertina poneva il dubbio se Dio fosse morto. Quesito oltremodo lecito oggi che si dichiara cristiano il 64 per cento della popolazione (era il 90 cinquant’anni fa). La crisi ha travolto le chiese protestanti, con i luterani che in un decennio sono diminuiti addirittura del 25 per cento. Resistono gli evangelici e i cattolici. Un crollo evidente dovuto per lo più a cause naturali e cioè alla mancata sostituzione fra i banchi delle chiese dei vecchi bianchi che progressivamente muoiono. I loro figli, e ancor più i loro nipoti, la domenica preferiscono fare altro: il Wall Street Journal rilevava che solo il 31 per cento degli americani fra i 18 e i 29 anni d’età ritiene la religione un fattore “molto importante” per la loro vita. E se il rapporto con Dio non è significativo, poi si trova sempre qualcosa di meglio con cui occupare il tempo. 

 

Sull’America senza Dio s’è scritto e detto di tutto, fino al punto da metterne in discussione il futuro: può resistere senza quel legame viscerale con la trascendenza, con il mito della terra eletta, della città splendente sulla collina che illumina il mondo? La campagna elettorale appena conclusa pare aver riproposto quei temi culturali fondativi, e di cattolicesimo se n’è parlato, basti solo pensare a quanto sottolineata è stata la conversione del vicepresidente J. D. Vance, che ha portato Trump a parlare a quelli che in modo sprezzante fino a non pochi decenni fa erano considerati i sudditi del Papa. E’ il “momento cattolico” che auspicò alla fine degli anni Ottanta Richard John Neuhaus, mentre vedeva declinare inesorabilmente il mainstream protestante? 
Ha scritto sul Catholic Thing John M. Grondelski, già preside associato della Scuola di Teologia alla Seton Hall University di South Orange, in New Jersey: “San Giovanni Paolo II aveva ragione a insistere sul fatto che la cultura è a monte della politica e dell’economia: i valori che si sposano decidono cosa si fa con il potere e il denaro. Ecco perché le espressioni politiche di questioni come l’aborto riflettono in realtà patologie culturali. Il popolo americano sembra capirlo istintivamente. Non completamente, certo: in sette stati su dieci la maggioranza ha votato per promuovere l’omicidio prenatale fino alla nascita. Ma, nel loro intimo, gli americani riconoscono che qualcosa non va”. Grondelski cita il filosofo polacco contemporaneo Zbigniew  Stawrowski, quando osserva che la spaccatura fondamentale nel mondo contemporaneo non è costituita dall’occidente contro il resto del mondo, ma è quella che si vede all’interno dell’occidente stesso. Secondo Stawrowski, l’illuminismo ateo e secolarista ha rubato termini come ‘diritti’, ‘libertà’, ‘scelta’, ‘matrimonio’, ‘giustizia’ e li ha stravolti al punto da far loro avere un significato opposto a quello originario. E ciò ha creato un cortocircuito nella nuova “terra promessa”, che ha avuto come risultato primario e più evidente quello di irrigidire le posizioni su fronti sempre più contrapposti e arrabbiati. 

 

Dice al Foglio Joshua Mitchell, docente di Teoria politica alla Georgetown University: “La Identity politics ha conquistato le menti e i cuori di milioni di cittadini americani ed è stata motivo di allarme per milioni di altri cittadini. Si è impossessata anche di tutte le istituzioni americane: quelle educative, i media, l’industria dell’intrattenimento, l’esercito, la burocrazia governativa. L’elezione di Donald Trump rappresenta il primo serio sforzo da parte degli americani di rifiutare la politica identitaria del Partito Democratico. Se non saremo in grado di tornare all’impegno di E pluribus unum – da molti, uno solo – allora l’America è condannata. Ci vorrà una generazione per eliminare questo strato malsano, ma abbiamo iniziato questa immensa impresa”. Era lo stesso Mitchell, anni fa, a dirsi allarmato per la tenuta della frontiera: la secolarizzazione e il disinteresse per la fede dei padri erano all’origine del disordine. Un tempo, sosteneva, Martin Luther King lo capivano tutti. Oggi, quasi nessuno. 

 

“I credenti hanno tirato un sospiro di sollievo” il giorno dopo le elezioni, s’è detto sicuro R. R. Reno, direttore della rivista conservatrice First Things. Un sospiro di sollievo per la tutela della libertà religiosa che, in ogni caso, non è stata centrale nella campagna trumpiana. Con l’elezione del tycoon, però, finisce l’epoca dell’imposizione dei “dogmi progressisti”. Tuttavia, scrive Reno, “ci sono ragioni più profonde per cui i credenti sono felici circa l’esito delle elezioni: “Tre generazioni fa, Theodor Adorno e un gruppo di scienziati sociali pubblicarono La personalità autoritaria (1950), un libro che pretendeva di identificare le caratteristiche delle persone che appoggiano i demagoghi autoritari. Tra queste caratteristiche c’erano l’accettazione delle norme morali tradizionali, soprattutto per quanto riguarda il sesso e la vita familiare, e la disponibilità a seguire gli ordini delle figure autoritarie. Sebbene lo studio non abbia preso di mira i credenti religiosi, secondo questo studio un cristiano fedele che aderisce all’insegnamento morale della Bibbia e riconosce l’autorità di Dio come suprema sarebbe considerato un protofascista”. Un quadro che, aggiunge il direttore di First Things, “ha plasmato l’opinione pubblica americana d’élite. Il mainstream liberal ha accettato la tesi secondo cui un incipiente autoritarismo si annidasse nella popolazione americana. Molti adottarono la dicotomia manichea del libro di Karl Popper La società aperta e i suoi nemici (1945). L’opposizione al conservatorismo era vista come una lotta culturale decisiva tra una ‘middle America’ arretrata e chiusa, gli ‘Archie Bunkers’ (da Archie Bunker, il bigotto protagonista della popolare sit-com, degli anni Settanta ‘All in the Family’, ndr) e i progressisti aperti e lungimiranti”. In questo contesto, aggiunge Reno, “la vecchia critica razionalista secondo cui il credo religioso non ha un fondamento nella ragione ha lasciato il posto all’obiezione morale secondo cui la fede tradizionale inculca un’obbedienza servile. Essa perpetua il patriarcato, l’omofobia e altri peccati contro l’ambizione progressista di detronizzare le vecchie autorità e rimuovere le barriere tradizionali. La fede ardente venne vista come una pericolosa minaccia”. La vittoria di Trump, è la tesi di First Things, “suggerisce fortemente che il clima d’opinione che dipinge la politica come una battaglia tra la società aperta e i suoi nemici sta perdendo valore. Di conseguenza, anche la presentazione della fede religiosa come pericolosa e oppressiva da parte delle élite sta diventando poco convincente”. 

 

Interpellato dal Foglio, R. R. Reno si dice sicuro che le radici a fondamento della Nazione americana siano, nonostante tutto, ancora visibili: “Qui le divisioni sono spirituali oltre che politiche. La sinistra non promuove più gli interessi della classe operaia, come faceva nel XIX e XX secolo. Al contrario, si preoccupa di inaugurare un mondo senza confini, un’utopia di diversità e inclusione che sarà gestita da esperti che garantiranno la nostra salute, felicità e prosperità. Si tratta di una visione globalista che è del tutto in sintonia con l’ordine capitalistico globale sorto dopo la fine della Guerra fredda. In questa visione, il mondo ideale è liquido e mobile. Sebbene i sostenitori di questa nuova sinistra possano essere spirituali, tendono a essere ostili al cristianesimo (e all’ebraismo) tradizionale, che per sua natura traccia dei confini (ortodossia contro eterodossia, giusto contro sbagliato, maschile distinto da femminile, ecc.). La destra è definita dal desiderio di ripristinare vecchie lealtà e identità solide. Appoggia i confini, le frontiere e le distinzioni. Questo è evidente nel tenore nazionalistico della nuova destra. Il mondo ideale è solido e stabile. Questa mentalità che disegna confini e consolida si sposa con il cristianesimo tradizionale, anche se può essere in conflitto in particolari questioni politiche”. In questo senso, conferma che “la vittoria di Trump è stata decisiva e impressionante, soprattutto alla luce della tremenda opposizione che ha dovuto affrontare da parte di quasi tutte le istituzioni dell’establishment negli Stati Uniti (e nel mondo). A mio avviso, i risultati elettorali suggeriscono fortemente che il consenso politico-spirituale in occidente si sta spostando verso destra, come l’ho definita sopra. Con una buona leadership, questo spostamento può maturare in un consenso nuovo e unificante che spinga il wokismo ai margini e affronti la disgregazione sociale che giustamente identificata come un problema. I leader religiosi dovrebbero cercare di svolgere un ruolo positivo nello sviluppo di questo nuovo consenso”.

 

Micheal Sean Winters, sul National Catholic Reporter, liberal e quindi su frequenze opposte a quelle di First Things, ha scritto che “ora l’ira populista non è diretta agli interessi monetari, ma all’establishment culturale e politico e Donald Trump ha sostituito Franklin Delano Roosevelt come avatar del populismo. La vittoria di Trump è stata il culmine di una varietà di fattori, ma la causa più ovvia è stata la sua capacità di presentarsi come l’antipolitico in un paese che odia i politici”. Gli elettori del Midwest, ha aggiunto Winters, “sono stanchi di sentirsi dire che sono dalla parte sbagliata della storia, che sono dei bifolchi, che se non riescono a conciliare le loro prospettive economiche desolanti con le prove di aumento del pil, è colpa loro. Quando sollevano la preoccupazione, perfettamente rispettabile, che forse non dovremmo essere così veloci nel cestinare le norme tradizionali in materia di sessualità, vengono definiti bigotti. Si chiedono perché qualcuno li accusi di avere un ‘privilegio bianco’, quando di certo non si sentono privilegiati. Giorno dopo giorno, hanno visto che non sono stati solo i vescovi cattolici statunitensi a definire l’aborto la ‘priorità preminente’ delle elezioni. I democratici hanno fatto leva su questo tema, senza riconoscere le remore morali che anche molti pro choice hanno nei confronti della questione. Tutto questo ha creato la spinta che ha reso possibile la vittoria di Trump. Un candidato in grado di entrare in contatto con le persone ha identificato alcune delle profonde rimostranze dell’elettorato”. Il che, dal punto di vista del National Catholic Reporter, è assai pericoloso e problematico per il destino della Nazione. 

 

Conversando con il Foglio, il professor Jakub Grygiel, docente di Relazioni internazionali alla Catholic University di Washington, parte da un dato di fatto: “Gli Stati Uniti non sono immuni dalla grande crisi dell’occidente che vede il senso religioso (e cristiano) impegnato in una lotta con il neopaganesimo (parafrasando il saggio The idea of a Christian Society di T. S. Eliot). Forse, questa lotta si nota qui con più chiarezza perché il premio materiale, di potere, è maggiore”. In ogni caso, dice Grygiel, “questo neopaganesimo, di cui il wokismo è il sintomo più recente e virulento, non scomparirà con le elezioni. L’errore del neopaganesimo è stato quello di condurre una rivoluzione nell’ultimo decennio – ma forse un po’ di più, diciamo a partire da Obama – con troppa velocità e violenza. Da anni il messaggio del wokismo è stato che la guerra è finita e hanno vinto loro. Il problema è che sono stati un po’ troppo frettolosi nell’accreditare la vittoria. Il risultato, ora, è un tentativo di fare una controrivoluzione, di cui l’elezione di Trump è solo un piccolo, anche se rumoroso, sintomo. Ma i semi del wokismo restano e hanno creato divisioni enormi nella società e nella cultura americana. Il problema va al di là della politica, nel senso che se la cultura è stata corrotta, la politica può solo mitigare i danni, ma non più di tanto”. 

 

Che fare, dunque? “La variabile da osservare per vedere se la nazione si rigenera o se continuerà a sfasciarsi è quella tradizionale: la famiglia (il matrimonio) e, di conseguenza, la crescita demografica. La prima variabile, anche qui, è in netta crisi. La seconda è migliore rispetto all’Europa, ma solo perché in gran parte la situazione demografica è aiutata dall’immigrazione. E’ interessante notare che anche personalità come Elon Musk sono divenute quasi ossessionate dal calo demografico, avvertendolo come un problema economico, sociale ma soprattutto culturale e quindi politico. Io leggo questo – osserva Jakub Grygiel – come un ritorno a un senso religioso (che lo stesso Musk in alcune interviste ha accettato. Si è definito “culturalmente cristiano”). C’è, a mio avviso, un ritorno – soprattutto nelle generazioni più giovani – a un senso di tradizione e a un desiderio di radici che crescono in famiglia: ecco un’altra controrivoluzione opposta all’idea di un individualismo sfrenato, senza limiti e responsabilità, che ha elevato ‘l’auto-definizione’ all’unica virtù. Questo non significa che gli Stati Uniti torneranno all’èra pre 1968, quando In God We Trust era il motto di unità. Significa solo che la lotta tra il senso religioso e il neopaganesimo non è per niente finita”.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.