L’arcivescovo di Parigi, mons. Laurent Ulrich, durante la celebrazione di domenica 8 dicembre, nella restaurata cattedrale di Notre-Dame (foto LaPresse) 

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Le due Chiese. Parigi non val bene una messa per Papa Francesco

Matteo Matzuzzi

Il Pontefice al tappeto rosso di Notre-Dame preferisce un viaggio in Corsica. In sua assenza, migliaia di preti e decine di vescovi sfilavano in abiti griffati tra le navate restaurate

Il Papa preferisce le periferie, si sono affrettati – e un po’ affannati – a dire nunzi apostolici e cardinali, giustificando l’assenza di Francesco alla solenne riapertura di Notre-Dame dopo il rogo che cinque anni fa distrusse buona parte della cattedrale parigina. C’erano tutti, potenti in carica e in procinto di diventarlo, Jill Biden e Donald Trump, presidenti e re, governanti di alto e medio rango. Autorità civili e vip di nome più o meno conosciuto. A officiare la rinascita, Emmanuel Macron, il presidente che ha voluto imprimere un marchio d’orgoglio all’evento che catalizzava gli occhi del globo. Tra le garguglie che scrutavano dall’alto, il suono dell’organo invocato dall’arcivescovo in una specie di recto tono, la Francia si ritrovava – laica e cristiana, doppia anima sempre riaffermata – nella celebrazione organizzata fin al minimo dettaglio.

 

Qualcuno, mesi fa, aveva forzato la mano al Pontefice: “Sarà a Notre-Dame”, si disse sul declinare dell’estate e oltralpe lo si dava per certo. Con la bianca talare papale tirata a più non posso. Poi, alla prima occasione utile, a bordo d’un aereo che lo portava in oriente, Francesco disse che lui a Parigi non ci sarebbe andato. “No”, fu la sua risposta secca, a ribadire una certa fatica a mettersi in posa nelle photo opportunity con i “grandi” nelle “grandi” capitali europee. Niente Londra né Berlino, niente Parigi né Madrid: il Papa viaggia fin quasi allo sfinimento, ma nel suo peregrinare tocca gli estremi, le periferie. E ci tiene a ribadirlo. Così, a Londra preferisce Lampedusa, e poi Lesbo e il Caucaso, l’Albania e Sarajevo. Eccezione alla regola, Budapest, dove s’è recato due volte. Ma anche quella è a suo modo periferia: dell’Europa che a giudizio di Francesco ha perso la sua anima e del mondo in pace talvolta troppo distratto per accorgersi che a pochi chilometri dai suoi viali fitti di vetrine ricolme di beni da trasformare in regali natalizi ci sono le code per il pane, le case al buio e il boato dei missili che cadono regolarmente. 

 
Ma la Chiesa, dall’ultimo dei battezzati al primo dei cardinali, segue ancora il Papa preso dalla fine del mondo nel suo viaggiare agli estremi confini della Terra? E non si tratta, qui, solo di geografia. La Chiesa predicata di Francesco è quella povera, per usare un aggettivo che nei primi anni del pontificato passava di bocca in bocca e di penna in penna, quando si stendevano le eulogie del pontificato (ora il termine è stato soppiantato da “sinodalità”, che va bene per tutto come negli anni Ottanta il dado da cucina). Quella di Jorge Mario Bergoglio è la Chiesa delle lavatrici per i senzatetto installate a pochi metri da piazza San Pietro, dei dispensari e dei dormitori. La Chiesa che accoglie pure sotto il colonnato berniniano, tra stracci e sacchi a pelo infilati fra uno scalino di marmo e uno stemma papale barocco. Quella Chiesa che manda il cardinale elemosiniere a riallacciare la corrente elettrica in un palazzo occupato, che porta i clochard a pranzare nei Musei Vaticani. La Chiesa che cerca a tutti i costi di cambiare la propria immagine, anche quella superficiale che tanto piace agli estensori di articolesse, editoriali e argute riflessioni: via i troni dalle liturgie, al bando il rosso “rinascimentale” o forse costantiniano (del colore dei martiri neppure si parla più) dalle vesti papali, mai più scarpette rosse. E i riti, quelli del commiato: il Papa che da morto è come tutti gli altri, niente più catafalco (che da decenni era comunque ridotto a portantina) né le tre bare una dentro all’altra: camera ardente semplice come il nonno quando muore in casa.

 

Semplificazione, riduzione al minimo degli apparati. Roma non deve essere più il centro del mondo e il suo vescovo non è il faraone, ma è solo uno dei tanti, magari con qualche facoltà e potere in più. Nel nome della sinodalità e della collegialità, che non sono sinonimi ma vallo a spiegare al laico che si vorrebbe tanto coinvolgere nei processi di cambiamento, fra tavolate organizzate nelle chiese per discutere e confrontarsi, sperando che l’Onnipotente faccia il miracolo e da questi fitti conciliaboli fra commensali non esca soltanto l’ennesimo illeggibile documento buono per gli archivi, per l’analisi di qualche vaticanista rassegnato all’immutabilità degli eventi, per uno o più convegni diocesani in cui il tal vescovo può estrarre un passaggio per costruirci una riflessione o perfino un’omelia. 

  

     

Francesco come Magellano, s’argomentava agli albori del pontificato: navigatore indefesso e curioso, instancabile nel cercare mete ignote e a portare nel cuore della Chiesa popoli e storie da sempre trascurate o sconosciute. E così il viaggio in Indonesia e poi in Papua Nuova Guinea, fino a Timor est, con l’avviso di stare attenti ai coccodrilli minacciosi (metafora che andava ben oltre il mero significato faunistico). Quindi s’arriva all’Immacolata e alla riapertura di Notre-Dame, tra i fasti e le fanfare e la sfilata dei leader globali tra le navate, senza tappeto rosso ma è come se ci fosse stato. Tutti, meno che lui, il Papa. È dovuto intervenire il nunzio a Parigi, mons. Celestino Migliore, a spiegare le ragioni del rifiuto, con i soliti accenni alla povertà e a tutto il resto. Il cardinale Bustillo ha aggiunto che non si tratta di insensibilità, quanto di – appunto – preferenza per le periferie. E mentre Bergoglio si prepara ad andare sì in Francia, ma nella ribelle Ajaccio, che Parigi mai ha amato (la cosa è ricambiata), nella vecchia cattedrale rimessa in sesto sfilava il mondo. Francesco con le scarpacce nere che prepara la borsa per il breve tragitto in terra corsa, e lì decine di vescovi e duemila preti vestiti con paramenti nuovissimi, disegnati da stilisti di fama, dal gusto discutibile e dal colore liturgico ignoto: qualcuno ha scritto che pareva un prodotto sponsorizzato da Google Chrome (i colori sono i medesimi), altri che l’arcivescovo Laurent Ulrich sembrava la sintesi umana del cubo di Rubik. Circolano anche gif sui social che vedono mons. Ulrich picchiare con il pastorale kitsch – scontatissimi i paragoni con vari personaggi del tolkieniano Signore degli Anelli – non sul portale della cattedrale ma sulla porta scorrevole di un supermercato Lidl. In effetti, il piviale ricordava nei toni tutto quanto ipotizzato. Ovviamente, dati i tempi correnti, c’è chi s’è scatenato con ipotesi complottiste che hanno tirato in ballo l’esoterismo e il deep state: su X c’è chi ha visto stelle a cinque punte con interpretazioni escatologiche secondo cui ciò starebbe a significare che “l’inferno è vuoto e tutti i demoni sono qui” (cioè lì, a Notre-Dame, fra Macron e Trump). Vi è chi non concorda e si domanda se invece quella stella non rimandi ai massoni, che in ogni complotto vero e presunto c’entrano sempre, come noto. È dovuto intervenire lo stilista autore del set paramentale, Jean-Charles de Castelbajac: le casule sono bianco-vaniglia “come la pietra della cattedrale” e gli altri colori (giallo, verde, blu, rosso) si rifanno alle vetrate colorate della cattedrale. Non è meglio precisato se quelle ottocentesche o quelle moderne, volute dai maggiorenti pro tempore. Di sicuro, qualche storico dell’arte avrebbe qualcosa da obiettare in proposito.

 

Sull’armocromia si può discutere. Sulla riconsacrazione del tempio, cerimonia sacra e anche un po’ profana (siamo in Francia, dopotutto), s’è scritto e detto di tutto. C’è chi ha commentato l’operazione di recupero, il colore chiaro delle colonne così distante dalla cupezza gotica voluta da Viollet-le-duc. Chi ha avuto da ridire sui marmi, chi sulle vetrate e chi ancora sull’altare moderno che poco avrebbe a che vedere con l’ambiente circostante. Pareri, disquisizioni sulle quali non si troverà mai un accordo e una quadra. 

    

    

È stata una celebrazione di massa, dove per massa s’intende pure il popolo, che come nel medioevo finanziava con quel che poteva la costruzione delle cattedrali. E poi naturalmente i grandi marchi, i finanziatori miliardari. E il clero, quello contraddittorio della Francia divisa fra un tradizionalismo roccioso e numericamente importante e un nord sensibile ai refoli dello Zeitgeist tedesco, belga e olandese, era lì. Altro che periferie, altro che sedia vuota lasciata mentre archi e organi celebravano l’avvenimento. Pochi mesi dopo l’elezione, la poltrona preparata per il Papa invitato a seguire un concerto nell’Aula Paolo VI fu lasciata in bella vista senza nessuno seduto: aveva di meglio da fare che ascoltare musica, si disse. Ironia della sorte, si era fermato a parlare di questioni importanti con mons. Carlo Maria Viganò, allora nunzio negli Stati Uniti. 


È solo un elemento, l’esempio di Notre-Dame, della distanza che s’avverte fra la Chiesa predicata e quella per così dire “praticata”. Francesco lo sa bene e non a caso è su questo terreno che ha cercato strenuamente di inserire i piloni della sua vera rivoluzione. Che non è quella delle strutture curiali – sì, vanno bene le costituzioni apostoliche che cambiano nome alle congregazioni trasformandole in dicasteri, ma c’è ben altro –, ma è quella degli atteggiamenti, dei costumi se si vuole. Andare avanti su questa strada anche a costo d’essere tacciati di populismo, come quando si presentò al Campidoglio di Washington su un’utilitaria anziché sulla macchina d’ordinanza con le bandierine su ambo i lati. O come quando ha scelto di non usare la pedana mobile utile ai predecessori che, per età e malattia, non erano più in grado di solcare le decine di metri in processione nella basilica vaticana. No, basta e avanza la sedia a rotelle. Come quella che usano tutti gli altri che ne hanno bisogno. E allora perché mai il Papa avrebbe dovuto andare a sfilare, fra Trump e Macron, a Notre-Dame? Basta un messaggio letto dal nunzio. Quel che conta è il senso dell’accadimento, non l’apparenza. Francesco è uno che eviterebbe la Prima della Scala se invitato. Ci andrebbe dopo, in mezzo alla settimana, quando gli esperti d’opera per una notte all’anno – munitissimi di smartphone accesi anche durante l’esecuzione dell’Inno nazionale, come s’è visto una settimana fa – sono tornati a occuparsi di reality show e cene post vernissage. Mai e poi mai sarebbe andato a una cerimonia che usava un tempio cristiano per quella che percepiva come una parata laica dei sordi al grido dei popoli affamati da guerre e carestie.

 
Ma la sua Chiesa, è sintonizzata sulle medesime frequenze? Non è che il “No” papale alla sua presenza a Parigi era un segnale anche per gli altri che invece in cattedrale ci sono andati, lieti e baldanzosi? Forse Francesco voleva ricordare alla teoria di vescovi e alle migliaia di sacerdoti che il principio evangelico del dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio è sempre valido? Dietro quella frase del cardinale Bustillo sulla preferenza per le periferie c’è molto di più di quanto possa sembrare: le parole sono solo apparentemente banali, se lette e meditate con attenzione. Il Papa sembra dire che il cuore della Chiesa non è lì, fra i potenti seduti sui loro troni che si ricordano della sposa di Cristo solo quando c’è da tagliare nastri e mostrare la propria magnificenza. Con Macron, si sa, Bergoglio non ha mai legato più di tanto. Gli scontri sulla bioetica sono lì a dimostrarlo, la foga bellicista sul dossier russo del capo dell’Eliseo è sempre stata vista con orrore a Santa Marta. Ai disegni europei e neoeuropei del presidente transalpino, Francesco preferisce quelli di Viktor Orbán, come più volte ha fatto capire tra abbracci calorosi e chiarissimi discorsi in terra ungherese. Se Benedetto XVI andava a Parigi a parlare del canto orante che fece grande l’Europa, lui riceve in Vaticano i vertici comunitari e li scuote constatando che l’anima europea s’è smarrita tra le scartoffie di una burocrazia ben radicata a Bruxelles e che – come disse in una dimenticata intervista d’inizio pontificato – a questa Europa mancano i leader. Chissà se la Chiesa viva presente in Notre-Dame s’è ricordata di questi pregressi papali.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.