L'editoriale dell'elefantino
Bene la porta nel carcere, ma al simbolismo manca l'incanto del difficile e del misterioso
Una splendida idea quella di Papa Francesco a Rebibbia, ma mancava qualcosa. Niente sacro giubilare. Differenze tra il piviale del 2000 e l’aria dimessa di oggi, la custodia liturgica è svanita
Il papato mi è un po’ caduto dal cuore, forse ero solo un turista romano, un conformista della gerarchia angelica senza la stoffa dell’uomo di fede, ma è anche vero che non sono stato l’unico a percepire come uno strano, estremo, insostituibile gigantismo dello spirito e della carne cattolica, un grandissimo nel minuscolo, il lungo ciclo di san Giovanni Paolo e di Benedetto, e un’amica mi scrive a tutt’altro proposito, ma a proposito, citando un bel verso di Aragon: “Il n’y a pas d’amours hereux”. Il Giubileo però è parola d’oro e di velluto, vive di secoli viandanti e del ricordo del 2000, anno fatale e santo di millenaria speranza con la sua indimenticabile calda estate di confessioni pubbliche nelle piazze romane e di fantastiche, allegre adunate della gioventù.
Giubilare, inteso come verbo, è variante quasi mondana di “adorare”, è uno dei fervori cattolici più belli che parlano effettivamente a tutti. Ora si moltiplicano devozioni anche atee o miscredenti o semicredenti, e vedo che fioriscono tra i dotti tendenze alla conversione e al riconoscimento, quantomeno, del cristianesimo come fattore di comunione anche laica, civile, e di speranza, che è poi il titolo del presente anno pellegrino. Jon Fosse dedica al tema la sua intelligenza un po’ cupa di letterato e la sua vanità orante in uno scritto impegnativo. Cacciari, sceso dalla cattedra dello Steinhof, lamenta il fatto che del vangelo ci sia inaudita penuria e nessuno di noi cuori impietriti sia più assetato di quell’acqua. Da rallegrarsi, che si sia infine intuita la connessione di cristianesimo e libertà, ma qualcosa non va.
Un quarto di secolo dopo il piviale inginocchiato e la folla di Tor Vergata, al simbolismo del Giubileo universale manca qualcosa di importante. Certo è stata una splendida idea, paradossale nello stile migliore del cristianesimo, quella di aprire una porta santa in quel luogo di benedizione maledetta, a porte rigorosamente chiuse, che è il carcere. Eloquente anche quell’aria stanca e parrocchiale dei saluti papali a detenuti parenti e “operatori carcerari”, l’arrivo con il piccolo corteo delle vetturette, i sorrisi di circostanza e le strette di mano solidali.
Non so se la modestia sia un carisma, una dote o un talento paragonabile per analogia al sacro dell’umiltà, ma è sicuro che Francesco abbonda di questa umana qualità. Eppure alla messa, all’omelia, alle processioni, alle parate delle porpore e delle mitrie, al classico scenario berniniano di San Pietro tra baldacchino e piazza, tra gerarchia e folla, mancava qualcosa. Non saprei dire che cosa, ma qualcosa mancava. Non c’era la distanza, la separazione, l’incanto del difficile e del misterioso, di una custodia anche dottrinale e liturgica dell’annuncio giubilare. Come tutto il resto, anche questo lo hanno voluto così, lo hanno espresso in un linguaggio terragno di buona e solidale volontà di pace. Comprensibile. Forse perfino inevitabile. Magari anche giusto. Ma il sacro è un dono complicato da confezionare e da offrire, implica un tono, una risonanza che tendono a scomparire quando lo si amministra come un rito di tutti i giorni, come una replica del quotidiano, come una attestazione di bene sociale e di buone intenzioni ideologiche.
Il Giubileo, anche e sopra tutto se intenda infondere speranza, vaste programme nel mondo com’è, dovrebbe forse sovvertire le abitudini del calendario ordinario, sospenderlo, sostituirlo con quella straordinaria e fatale invenzione papale, per tanti secoli protetta dai gesuiti, che è la pratica dell’indulgenza, cioè l’idea del riscatto dai peccati, del giudizio cristiano nelle mani autorevoli e distanti della successione apostolica, che è parte senza esaurirla della gente evangelica di buona volontà. A un Papa nella tempesta non si può che augurare ogni bene possibile, e gli si può anche chiedere sommessamente una più indefinita lontananza, una testimonianza dell’essere ecclesiastico e cristiano superiore al fare e al buon fare.