FACCE DISPARI

Massimo Faella: storia di un teschio celebre tra turismo e devozione

Francesco Palmieri

Migliaia di visitatori ogni anno per scoprire l'antico "teschio con le orecchie" e un culto che unisce fede, arte e inclusione sociale. Intervista

Fate bene alle anime del Purgatorio. Ve lo restituiranno con le loro intercessioni, quando grazie alle cure e alle preghiere dal di qua “possano uscire a le stellate ruote”. Anche al mattino della vigilia di Natale, nella città che più di tutte ha corrisposto all’esortazione dantesca, un gruppo di turisti osserva i crani e gli ex voto esposti nell’ipogeo della chiesetta di Santa Luciella, a Spaccanapoli, con il partecipe rispetto dovuto a un luogo cultuale o la curiosità distante che il fervore devozionale suscita nei laici.

Sulle “terresante” che accolgono le ossa di defunti accumulatesi nei secoli sono deposte monete, lumini, immaginette sacre, coroncine ma anche libri universitari a testimonianza di esami superati (un compendio di diritto del lavoro, un voluminoso codice penale e di procedura penale). Non solo i vecchi dunque, ma i giovani credono, come ci credettero quelli che hanno riaperto dal 2019 questa chiesa dopo quasi quarant’anni di abbandono, anzi di scempio, recuperando agli sguardi dei visitatori e alle preci di chi lo ricordava anche il cosiddetto teschio con le orecchie, la più famosa delle anonime “capuzzelle” di Santa Luciella ai Librai.

 

Massimo Faella, trentottenne dall’aspetto gioviale, una formazione storico-artistica e da manager del patrimonio culturale, è stato con Angela Rogliani e Simona Trudi il fondatore dell’Associazione Respiriamo Arte, costituita nel 2013 per salvare la chiesa di cui ha assunto dalla Curia napoletana, nel 2016, il comodato d’uso.

 

Come scopriste Santa Luciella?

Grazie a un libro di Paolo Barbuto che raccontava di quel teschio con le orecchie. Decidemmo di appurare se fosse vero e chiedemmo alla Curia il permesso di visionare la chiesa, che versava in condizioni disastrose. Era diventata una discarica abusiva, lo sversatoio di immondizie di ogni genere. Persino il pavimento maiolicato del primo Ottocento era invisibile sotto la polvere e i detriti, eppure ci parve subito un luogo fascinoso.

 

E quel teschio?

C’era davvero nell’ipogeo, l’ambiente più devastato. Fu tremenda e surreale la visione di ossa e crani fra i mucchi di spazzatura.

 

Da quando era chiusa Santa Luciella?

Almeno dal terremoto del 1980.

 

Perché quel cranio ha ricevuto tanta devozione?

Per una singolare deformazione, le ossa temporali si sono aperte dando l’impressione di essere orecchie. Perciò i devoti ritenevano, e ritengono, che quest’anima abbia maggiori facoltà di ascoltare le richieste e di intercedere.

 

A quando risale?

Tra il Sei e il Settecento. Era un uomo e morì attorno ai trent’anni.

 

Come riusciste a ristrutturare la chiesa?

Con donazioni generose. Il Pio Monte della Misericordia, grazie al soprintendente di allora, il barone Alessandro Pasca di Magliano, sostenne i costi senza nulla in cambio. Aprimmo il 5 aprile 2019, ma nemmeno un anno dopo la pandemia ci costrinse a fermarci. Restammo aperti solo per smistare con la Comunità di Sant’Egidio generi di prima necessità durante il lockdown. Le attività ripresero a giugno 2020, poi un reportage di Alberto Angelo rese popolare la chiesa.

 

Nell’ipogeo ci sono cestini colmi di foglietti con richieste alle anime purganti. Chi li lascia?

I visitatori e i devoti locali. Chi entra solo per pregare ovviamente non paga il biglietto.

 

Domanda a uso dei credenti: può riferire di una grazia ricevuta da qualcuno?

Uno zampognaro venne a suonare in chiesa e quando gli porsi un’offerta rifiutò. Disse che tempo prima era passato a chiedere un’intercessione perché stava perdendo l’udito. Ed era stato esaudito.

 

Gli ex voto d’argento sono vecchi o nuovi?

Gli uni e gli altri. Quelli antichi li rinvenimmo dentro buste sepolte tra le macerie, che li avevano nascosti ai ladri. Sono stati ricollocati alle pareti.

 

Perché l’intitolazione a Luciella?

È il diminutivo di santa Lucia, perché la chiesa era piccola. Fu fondata nel 1327 ma dal Settecento ospitò l’Arciconfraternita dei pipernieri, tagliamonti e fabbricatori. Lavoravano di scalpello e le schegge rappresentavano una insidia costante per gli occhi, perciò si affidarono alla santa protettrice della vista.

 

Quanti visitatori contate?

Tra i 60 e i 70 mila all’anno tra questa chiesa e quella dei Santi Filippo e Giacomo, dove lavoriamo dal 2015: ospitava la ricca corporazione dell’arte della seteria, risalente al ’400. Come parrocchia ha sempre funzionato, ma abbiamo reso fruibili dopo più di trent’anni l’antica sacrestia, i resti archeologici, le parti dell’ex conservatorio della seta recuperando dai depositi molti tesori, per esempio l’unico paramento sacro secentesco con lo stemma dell’arte.

 

Nel 1969 un decreto del tribunale ecclesiastico proibì il culto “a resti umani di persone ignote”. Cosa pensa di questa forma di devozione?

Mi limito a considerare che come abbiamo restituito dignità a quei resti, finiti nella spazzatura, così per questo impegno abbiamo ricevuto la dignità di un lavoro. Oggi a noi soci si sono aggiunti otto operatori. E il lavoro consente di formarsi una famiglia, una casa, di sviluppare progetti sociali. Nelle visite guidate, per esempio, ci aiutano i ragazzi disabili dell’associazione La Scintilla diventata nostra partner. Nel 2021 l’arcivescovo Mimmo Battaglia festeggiò con noi il nostro riconoscimento tra i “Gesti Concreti” di lavoro dignitoso della diocesi.

 

Cosa colpisce di più i visitatori?

La constatazione di un certo modo di affrontare la morte. Le anime del Purgatorio danno ancora qualcosa perché sono parte della vita.

 

C’è davvero un problema di overtourism a Napoli?

Il problema è nella gestione dei flussi. Bisogna migliorare i servizi perché la città venga preservata e non consumata.

 

Di più su questi argomenti: