le due religioni

Il dialogo fra ebrei e cattolici è compromesso, ma in Vaticano pare non se ne siano accorti

Alle rimostranze da parte ebraica, la reazione è minima: "No all'antisemitismo". In gioco, però, c'è molto di più: l'eredità conciliare

Matteo Matzuzzi

Eliezer Simcha Weisz, membro del Gran Rabbinato d’Israele, ha detto che "attraverso il suo vasto pulpito digitale, la Chiesa è diventata un megafono globale per coloro che armano l’antisemitismo con la scusa di sostenere gli oppressi”. Solo due anni fa era stato ospite in Vaticano 

Roma. “La guerra che si è scatenata dal 7 ottobre del 2023 ha avuto tra le sue vittime il dialogo ebraico-cristiano”, ha detto il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni intervenendo alla Lateranense in occasione della trentaseiesima Giornata per il dialogo tra cattolici ed ebrei, di cui il Foglio ha dato conto ieri. “Il momento che viviamo – ha aggiunto – è quello in cui sembra che la Chiesa stia di nuovo cedendo alla tentazione di tagliare i ponti con l’ebraismo”: “Con l’appoggio mediatico della Chiesa, Israele, nel senso originario del popolo ebraico, e poi dello stato che ha questo nome, è tornato sul banco degli imputati”. Frasi, queste, che smentiscono le considerazioni svolte dal Papa all’inizio dell’anno nell’udienza concessa all’ayatollah Seyed Abu al Hassan Navab, presidente dell’Istituto iraniano per il dialogo e l’incontro tra religioni e culture: nella ricostruzione fornita dall’agenzia di stampa iraniana Irna (e mai smentita dal Vaticano), Francesco avrebbe infatti detto che “il nostro problema è con Netanyahu, non con gli ebrei”, trovando l’interlocutore d’accordo. 

 

La convinzione del Papa lascia perplessa la controparte ebraica, come si vede dalle dichiarazioni di Di Segni, che anche un anno fa aveva già detto che c’è “un problema di teologia regredita e di incomprensione sostanziale” e che “sono stati fatti molti passi indietro nel dialogo ed è necessario riprendere il filo del discorso”. Filo che evidentemente non è stato ripreso. Anzi, le posizioni si sono ancor più irrigidite, con il sospetto che dalle parti del Vaticano si sia sottovalutata la marea montante che metteva in pericolo sessant’anni di dialogo e di tentativi di avvicinamento e riconciliazione. Si era arrivati al Papa che definiva gli ebrei “fratelli maggiori”, oggi si  farebbe fatica a invitare il Pontefice in sinagoga, come detto dalla presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, Noemi Di Segni, a questo giornale il 2 gennaio. Insomma, se per il Papa il problema è solo Netanyahu e non gli ebrei, gli ebrei rispondono che invece il problema sono proprio loro, con Francesco che “ha prestato l’autorità papale al moderno antisemitismo”, come scritto in una lettera aperta da Eliezer Simcha Weisz, membro del Gran Rabbinato d’Israele.

 

Weisz è considerato un uomo del dialogo, il 10 gennaio del 2023 è stato ospite in Vaticano dove ha firmato il documento Rome Call for AI Ethics, insieme allo sceicco al Mahfoudh bin Abdallah del Forum per la pace di Abu Dhabi e a mons. Vincenzo Paglia. Sul problema segnalato dal rabbino capo di Roma, però, è chiarissimo: “Attraverso il suo vasto pulpito digitale, la Chiesa è diventata un megafono globale per coloro che armano l’antisemitismo con la scusa di sostenere gli oppressi”. Ancora, “mentre le comunità cristiane sono decimate in tutta la regione, voi riservate le vostre critiche amplificate digitalmente all’unica democrazia mediorientale in cui i cristiani praticano liberamente il loro culto”. 

 

Da parte cattolica, finora, le reazioni sono state minime, quasi che il problema non fosse avvertito in tutta la sua potenza e pericolosità. Si ribadisce che il Pontefice denuncia l’antisemitismo (l’ha fatto anche durante il discorso al Corpo diplomatico, la settimana scorsa), il segretario di stato assicura che “la posizione della Santa Sede è chiara” sia su quanto accaduto il 7 ottobre sia sull’ipotesi di indagare su un eventuale genocidio commesso a Gaza, diversi esponenti delle gerarchie parlano di amicizia solida con le comunità ebraiche, ma insomma. Qui in gioco c’è la Nostra aetate, la dichiarazione conciliare sul dialogo con le religioni non cristiane e in particolare sulla relazione unica con l’ebraismo, non i pareri d’oltretevere sul numero di ospedali rasi al suolo nella Striscia o sulle soluzioni politiche del domani, uno stato-due stati, ruolo dell’Onu e delle sue agenzie. Perché non si è neppure aperto un canale di dialogo simile a quello che ha portato al grande riavvicinamento tra la Chiesa cattolica e l’islam sunnita, dopo gli anni di gelo seguiti alla lezione di Ratisbona di Benedetto XVI e all’incidente diplomatico del 2011 con al Azhar? Ahmed al Tayyeb, che all’inizio del secolo, da Gran muftì d’Egitto, diceva che “la soluzione al terrorismo israeliano sta nella proliferazione degli attacchi di martirio che terrorizzino i cuori dei nemici di Allah”: con lui, Francesco ha firmato ad Abu Dhabi il documento sulla “Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune”. Possibile che con le comunità ebraiche non si sia trovato uno spiraglio di confronto che salvi quel che non è stato compromesso del sessantennale dialogo? Che la Chiesa cattolica sia contro l’antisemitismo, oggi, non dovrebbe fare notizia. Ci vorrebbe qualche passo ulteriore.
 

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.