La santa e cordiale freddezza: il Trump 2 alla prova del Papa

Il dossier che più avvicina The Donald al Papa è quello che più aveva diviso il Pontefice da Biden: l'Ucraina. Sul resto, si naviga a vista

Matteo Matzuzzi

Francesco in tv ha  definito “una disgrazia” le annunciate misure sui migranti. Il messaggio per l’insediamento. Secondo Massimo Faggioli, il ritorno di Trump  è anche “il sintomo di una mutazione  nella cultura delle élite cattoliche statunitensi”

Lame che s’affilano, al di qua e al di là dell’oceano, in previsione di quel che accadrà nel prossimo quadriennio. Dai saloni di Mar-a-Lago, Donald Trump spedisce in Vaticano come ambasciatore Brian Burch, che con la sua Catholic Vote non ha risparmiato critiche a Francesco. Da Santa Marta, il Papa ricambia con la nomina ad arcivescovo di Washington (cappellano della Casa Bianca) della più anti trumpiana delle sue creature cardinalizie, quel Robert McElroy che durante il primo mandato di The Donald da San Diego guidava  processioni contro il presidente e la sua agenda. Francesco, nel messaggio inviato per l’insediamento trumpiano, ha scritto: “Spero che sotto la Sua guida il popolo americano prosperi e si impegni sempre nella costruzione di una società più giusta, in cui non ci sia spazio per l’odio, la discriminazione o l’esclusione”

 

Nei mesi della campagna elettorale, Trump ha evitato il più possibile di attaccare le alte gerarchie cattoliche, preferendo invece coltivarne in qualche modo l’appoggio – tacito o esplicito – e conquistare il favore dei fedeli al Papa di Roma, che infatti nel segreto dell’urna lo hanno premiato come di rado accade per un repubblicano. L’establishment intellettuale conservatore e cattolico non ha mai avuto dubbi nell’appoggiare la crociata che ha visto nel vicepresidente, il convertito JD Vance, il punto di riferimento. All’indomani del voto, Joshua Mitchell, docente di Teoria politica alla Georgetown University, diceva a questo giornale che “la Identity politics ha conquistato le menti e i cuori di milioni di cittadini americani ed è stata motivo di allarme per milioni di altri cittadini. Si è impossessata anche di tutte le istituzioni americane: quelle educative, i media, l’industria dell’intrattenimento, l’esercito, la burocrazia governativa. L’elezione di Donald Trump rappresenta il primo serio sforzo da parte degli americani di rifiutare la politica identitaria del Partito democratico. Se non saremo in grado di tornare all’impegno di E pluribus unum – da molti, uno solo – allora l’America è condannata. Ci vorrà una generazione per eliminare questo strato malsano, ma abbiamo iniziato questa immensa impresa”. Più netto ancora era stato R. R. Reno, direttore di First Things, punto di riferimento dei catto-conservatori americani: “I credenti hanno tirato un sospiro di sollievo”: è finita l’èra dell’imposizione dei “dogmi progressisti”. Tutti, a ogni modo, segnalavano che a differenza di altre campagne elettorali, nell’ultima la questione della libertà religiosa non era stata affatto centrale. Di più: proprio First Things sottolineava che stavolta “si è visto il minor numero di riferimenti alla religione nella storia americana”. 

 

E allora cosa accadrà ora che alla Casa Bianca torna Trump, quello dei muri e delle barriere, dei confini e delle deportazioni, del carbone e delle trivelle messe all’opera un po’ ovunque? Quale sarà il rapporto fra la sua Amministrazione e la Santa Sede? Joe Biden, primo cattolico a essere stato presidente dopo John Fitzgerald Kennedy, al crepuscolo del suo mandato ha riconosciuto a Francesco meriti e onori, conferendogli la Medaglia della libertà, massima onorificenza che un presidente americano possa dare: “La sua missione di servizio ai poveri non è mai cessata. Pastore amorevole, risponde con gioia alle domande dei bambini su Dio. Insegnante stimolante, ci comanda di lottare per la pace e proteggere il pianeta. Leader accogliente, si rivolge a fedi diverse. Primo Papa dell’emisfero australe, Papa Francesco è diverso da chiunque sia venuto prima. Soprattutto, è il Papa del popolo: una luce di fede, speranza e amore che brilla intensamente in tutto il mondo”, è stata la motivazione. Si scorge già un refolo di nostalgia, anche se i punti di divergenza non sono mancati affatto negli ultimi quattro anni, anzi. Basti solo citare l’Ucraina, sul cui dossier le posizioni di Biden e Bergoglio non sarebbero potute essere più lontane. Il primo, fautore della resistenza a tutti i costi contro l’aggressione di Mosca, con pacchetti di aiuti militari varati a cadenze più o meno regolari (nonostante gli ostacoli posti dai Maga repubblicani al Congresso), il secondo che tra un attacco alla Nato “che abbaia ai confini della Russia” e un invito ad alzare “bandiera bianca quando vedi che sei sconfitto”, non ha mancato di manifestare la sua insofferenza per i piani militari dell’occidente a guida yankee. Ed è paradossale che sul punto su cui più evidente è stato l’attrito fra Santa Marta e la Casa Bianca, ora si potrebbe assistere a una forma di distensione, i cui contorni rimangono precari e non bene definiti, ma insomma: che Trump condivida con Francesco il principio di chiuderla con il conflitto in Ucraina è assodato, così pure con l’impacchettamento e l’invio di cannoni, razzi e mine da dispiegare sul territorio fra il Dnepr e il Mar Nero. Ma, per ora, non si vede su quale altro dossier Roma e Washington potrebbero trovare un accordo.  

 

Uno dei primi ordini esecutivi del rieletto presidente ha a che fare con i migranti, “i criminali” da deportare, ed è proprio il tema su cui il Papa s’era soffermato a settembre rispondendo a chi gli domandava se fosse meglio votare Trump o Harris: “Sono ambedue contro la vita”, disse, aggiungendo che se la democratica risponde all’identikit di quella che “uccide i bambini” (aborto), il repubblicano è colui che “butta via i migranti”. Già nel 2016, in piena campagna elettorale, Francesco disse che “non può dirsi cristiano chi costruisce muri”. Se Trump facesse quello che ha promesso, ha detto Francesco ospite di Fabio Fazio, sarebbe “una disgrazia”.  Rispetto alla Cina, i disegni restano imperscrutabili: il volto dell’Amministrazione americana sarà quello dell’altra volta, quando il segretario di stato Mike Pompeo pubblicamente deprecò l’Accordo segreto stipulato fra la Santa Sede e Pechino sulla nomina dei vescovi? O sarà invece più pragmatico e in linea con l’invito recapitato a Xi Jinping affinché partecipasse alla cerimonia di insediamento? Ancora di più: siamo sicuri che in un mondo dove tutto cambia con imprevedibile rapidità, interconnesso e non più dominato né dai blocchi né dal dominio dell’unica superpotenza rimasta, sia necessario che i rapporti fra la Santa Sede e gli Stati Uniti si mantengano stretti, dopo il riavvicinamento sancito dall’abbraccio fra Giovanni Paolo II e Ronald Reagan negli anni Ottanta? 

 

Il caso americano è particolare: l’episcopato è diviso fra una “alta” gerarchia per lo più progressista promossa da Francesco (in questo senso si leggono le creazioni cardinalizie del già citato McElroy, di Cupich a Chicago, di Tobin a Newark e di Gregory a Washington, senza che alla controparte conservatrice fosse data neppure una berretta rossa) e una base che comprende nostalgici delle guerre culturali (i conservatori “muscolari” di cui Timothy Dolan, arcivescovo di New York, è l’elemento di spicco) e, soprattutto fra i più giovani, tradizionalisti legati alle forme e ai riti pre conciliari. Più il Papa indicava una strada alternativa a questi ultimi due segmenti, più questi si rafforzavano, fino al punto da eleggere – senza interruzioni e mediazioni – presidenti della  Conferenza episcopale tutti in linea con un’agenda “pre francescana”. Insomma, a Trump non verrà a mancare il sostegno dei vertici cattolici, anche se da Roma dovessero piovere strali contro le sue politiche anti migratorie. 
Massimo Faggioli, ordinario nel dipartimento di Teologia e Scienze religiose alla Villanova University di Philadelphia, scrive in Da Dio a Trump. Crisi cattolica e politica americana, appena edito da Scholé, marchio di Morcelliana (240 pp., 19 euro), che la rielezione di Trump “ha messo in scena un riallineamento nella politica americana in cui il cattolicesimo gioca un ruolo unico e particolare, ben più complesso dello ‘scisma liquido’ in atto da tempo e amplificato dalle reazioni ostili, fin dall’inizio, al pontificato di Papa Francesco da parte dell’episcopato, del clero e del laicato militante di tendenze conservatrici e tradizionaliste”. E’ indubbio che dal marzo 2013, da quando cioè Jorge Mario Bergoglio è stato eletto Pontefice, il rapporto con l’America cattolica si è fatto sempre più “complicato e distante”, scrive Faggioli, e “la presidenza di Joe Biden non è riuscita, e non ha neanche mai provato, a gettare un ponte verso i vescovi. Il dogmatismo pro choice del Partito democratico usciva rafforzato, per reazione, dalle nomine di giudici cattolici conservatori da parte di Trump alla Corte Suprema. L’abrogazione della legalizzazione dell’aborto allo stesso tempo ha privato di una agenda il movimento pro life a cui ora i repubblicani addebitano anche alcune sconfitte in elezioni locali”. Il populismo trumpiano, nota l’autore, “ha fatto emergere all’interno della Chiesa spaccature che non sono più politiche o teologiche, ma di civiltà, che sono penetrate nel sentire dei membri di questa comunità ecclesiale e culturale al suo interno, ma anche nella sua percezione all’esterno”. In sostanza, il cattolicesimo americano “non è più soltanto il rifugio per gli ideologi del conservatorismo sociale come lo era tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila. Ora è un brand, un marchio in vendita sul mercato del miglior offerente”. E’ un populismo in cui convivono “’il post cristianesimo’ e il ‘cristianismo’ etno-nazionalista”. Sullo sfondo, la considerazione che “la secolarizzazione negli Stati Uniti non è un ripiegamento in buon ordine della religione, ma una trasformazione della fede in forze ed energie che sono diverse, contraddittorie e violente”. 

 

Il ritorno di Trump, osserva Faggioli, è “il prodotto di una crisi che è anche religiosa”. Siamo davanti a una crisi ben più profonda di una semplice quanto banale antipatia fra il Papa e i vescovi americani: “E’ il sintomo di una mutazione in corso nella cultura delle élite cattoliche statunitensi. E’ la crisi dell’ultramontanismo classico in una Chiesa globale di ‘credenti senza frontiere’, nella quale il cattolicesimo americano mostra le tendenze a una nuova fase di nazionalizzazione dell’identità confessionale in un rapporto dialettico e polemico con Roma che era impensabile nei pontificati precedenti Francesco”. 
E’ in questo quadro, insomma, che si svilupperà la relazione fra Roma e Washington. Un quadro dove la sinistra pare disorientata, persa fra le nostalgie per la tenda progressista del cardinale liberal Joseph Bernardin e incapace di rispondere alla svolta impersonata, da ultimo, da Trump. “Sono mancate, nella sinistra cattolica, le distinzioni e i distinguo tra liberalismo-progressismo politico e teologia conciliare: non solo in termini di posizionamento sulle questioni sociali divisive, ma come rinuncia a una lettura religiosa e spirituale del momento presente che non fosse al traino del performative outrage popolare nei social media”, nota ancora Faggioli: “Di fronte alle sfide della secolarizzazione e della diversificazione del paesaggio religioso, la sinistra politica e cattolica è passata dal cattolicesimo del dissenso a quello della trasgressione e del decostruzionismo post modernista, dove la vera fede è oggi quella nella cultura come identità particolare di gruppo”. Una manna, per gli altri.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.