il ritratto
Schönborn, l'incrollabile ratzingeriano che divenne il più disciplinato bergogliano
E' finita l'èra del cardinale che ha governato Vienna per trent'anni. Con la fama di “allievo prediletto” di Ratzinger, divenne alfiere di tutte le svolte riformiste sulla famiglia. Favorevole pure alle diaconesse
Il cardinale ha compiuto ottant'anni. Fuori dal conclave, non è più arcivescovo di Vienna. E' sempre stato inclassificabile, nonostante la fama di conservatore dovuta al suo essere stato accanto a Ratzinger. Soprattutto nell’ultima fase del suo episcopato, è stato tra i portabandiera delle svolte riformiste più o meno manifeste
Mercoledì ha compiuto ottant’anni e dunque, per le regole di Santa Madre Chiesa, non entrerà più in conclave, quando sarà. Christoph Maria Michael Hugo Damian Peter Adalbert Schönborn, arcivescovo di Vienna dal 1995 prorogato sine die dal Papa, ha già salutato tutti con una messa nella cattedrale di Santo Stefano, ripassando i momenti significativi della sua vita e di quelli – non senza tormenti – del suo lunghissimo episcopato viennese: trent’anni. Sostituirlo non sarà semplice, tant’è che solo allo scoccare dell’ottantesimo genetliaco Francesco l’ha congedato, lasciando però la sede vacante e nominando un semplice amministratore in attesa di tempi (e candidati) migliori. Si vedrà. Lui, il nobile von Schönborn, aria da aristocratico perché aristocratico lo è davvero, nato in un castello boemo e con un albero genealogico pieno di vescovi, arcivescovi, cardinali e grandi costruttori del Barocco mitteleuropeo, la lettera di dimissioni l’ha presentata cinque anni fa, ricevendo come risposta un convinto “vada avanti”, sancito dal Pontefice. Nonostante i tre decenni a capo della più grande diocesi austriaca, il cancro alla prostata da lui confessato pubblicamente – “La gente sopravviverà, e spero di farlo anche io” –, lo sfinimento della Chiesa locale dove si vende tutto quel che si può vendere, mancando preti, fedeli e soldi per tenere aperte le gloriose chiese che fecero grande Vienna: “Da noi, in Austria, basta andare da un magistrato e non sei più cattolico. Qualcuno lo fa perché non vuole più pagare le tasse, altri perché già da tempo non partecipano alla vita della Chiesa cattolica. Ogni anno perdiamo l’uno per cento di cattolici, gente che defeziona. Non dico che è apostasia, ma è drammatico”.
Campane a morto echeggiate anche sabato scorso, davanti ai quattromila prenotati che assistevano alla messa d’addio, con il presidente Alexander Van der Bellen che lo ringraziava e gli conferiva il titolo di Pontifex austriacus. Nell’omelia, il cardinale segnalava il contrasto fra “la gioiosa festa di ringraziamento che celebriamo e il grande addio che così tante persone nel nostro paese danno, per lo più tacitamente, alla Chiesa”. Contrasto rafforzato dal paradosso secondo cui mentre i cattolici si riducono, i due terzi della popolazione desiderano che l’Austria resti un paese cristiano. “Come si fa a mettere insieme le due cose?”, s’è domandato Schönborn. E poi l’interrogativo: “L’Europa delle cattedrali sarà un grande museo all’aperto per i turisti di tutto il mondo?”. Angoscia che diventa speranza, guardando alla storia, anche quella più recente, con la parigina Notre-Dame rifatta dopo il rogo, in tempi di secolarizzazione elevata a dogma. Dopotutto, la speranza – specie nell’anno giubilare che a essa è votato – non può lasciare spazio a dubbi: i cristiani saranno pochi, ridotti a enclave nel mare magno del disinteresse per le cose di lassù, ma resteranno linfa vitale nella società. Sono le minoranze creative di ratzingeriana memoria, dopotutto.
Il cardinale ottantenne si prepara al dopo, quel tempo in cui i vescovi emeriti si ritrovano di colpo senza udienze a chierici o funzionari governativi, privi di problemi da risolvere o note da diramare alla stampa. Un tempo sospeso, che per i profani è quello della pensione, ma per un vescovo non lo può essere. Lui si dice tranquillo: “Non ho pianificato nulla. Voglio affrontare la nuova situazione e poi plasmarla. Per questo motivo ho scelto consapevolmente di non fare piani. Spero di avere più tempo per gli incontri personali e più tempo per la preghiera”. In ogni caso, niente bottiglie da stappare: quella del vescovo ordinario è sì “una vita molto, molto intensa, ma il mio compito mi ha sempre dato gioia, nel complesso e in sostanza. Mi è sempre piaciuto farlo”. A Roma ci andrà un po’ meno, benché il Pontefice gli abbia già fatto sapere che per un biennio potrà restare membro del Dicastero per le chiese orientali e presidente della Commissione cardinalizia di vigilanza dello Ior, anche perché la nomina risale solo allo scorso maggio. La curia vaticana la conosce benissimo, tanto da essere stato ritenuto papabile per ogni conclave del Terzo millennio, da quello del 2005 a quello del 2013. Lui però nel 2005 scrisse una “letterina” all’allora decano, Joseph Ratzinger, recapitatagli mentre questi dirigeva le congregazioni cardinalizie. Fu lo stesso Benedetto XVI a raccontarlo, pochi giorni dopo l’elezione, senza però svelare il nome del mittente. L’ha fatto due anni fa Georg Gänswein e Schönborn l’ha confermato: “Finora ho deliberatamente taciuto, ma sì sono stato io”. E il contenuto della lettera definita “di sicurezza”? Parola a Ratzinger: “Egli mi ha ricordato che avevo collocato l’omelia della messa per Giovanni Paolo II sotto la parola che il Signore disse a Pietro sul mare di Galilea: Seguimi! Ho descritto come Karol Wojtyla abbia ricevuto questa chiamata dal Signore più e più volte e abbia dovuto rinunciare a molte cose e dire semplicemente: ‘Sì, ti seguirò, anche se mi condurrai dove non voglio andare’. Il confratello mi scrisse: ‘Se ora il Signore ti dicesse Seguimi, ricordati di ciò che ha predicato. Non rifiutare! Sii obbediente, come hai detto del grande Papa scomparso’. Questo mi ha colpito al cuore. Le vie del Signore non sono comode, ma noi non siamo fatti per la comodità, ma per la grandezza, per la bontà”.
Schönborn e Ratzinger si conoscevano da decenni, dai tempi di Ratisbona. Nel 1980, giovanissimo e brillante domenicano, entrò a far parte della Commissione teologica internazionale. L’anno dopo, il maestro divenne prefetto dell’allora congregazione per la Dottrina della fede, recuperando una consuetudine nei rapporti che s’era parzialmente interrotta nel breve periodo che vide Ratzinger arcivescovo di Monaco. Intanto, c’era da scrivere il nuovo Catechismo e Schönborn fu nominato segretario della commissione incaricata di elaborare il testo, sotto la supervisione ratzingeriana. Come riconoscimento per il buon lavoro fatto, nel 1991 fu nominato vescovo ausiliare di Vienna e quattro anni dopo apparve la naturale scelta per la sostituzione del cardinale Hans-Hermann Groër, accusato di abusi sessuali su minori e costretto a ritirarsi in monastero. Non fu semplice: ci fu chi lo accusò di aver tramato contro il predecessore, di aver spinto Roma a costringerlo al ritiro, nonostante Groër si fosse dichiarato innocente (anni dopo, altre accuse gli piovvero addosso, e l’episcopato austriaco definì credibile quanto gli veniva addebitato). Intanto, lui faceva strada: nel 1996 fu chiamato a Roma per predicare gli esercizi di quaresima a Giovanni Paolo II, che gli chiedeva conto dello stato della Chiesa in Austria, lacerata e già allora in crisi di fede. Lui però ha sempre detto che i legami più forti li ha avuti con il primo e l’ultimo Papa che ha servito, Benedetto – al quale dava del tu, fra i pochissimi a poterlo fare – e Francesco.
Non è stato, però, tutto un idillio, anche durante il pontificato del suo maestro. Nel 2009, mentre Benedetto XVI si preparava a varare la commissione Ruini per discutere e valutare i fenomeni di Medjugorje, lui al santuario bosniaco ci andò. E invitò a Vienna i veggenti, presunti o tali. L’anno dopo, l’incidente con l’ex segretario di stato, il cardinale decano Angelo Sodano. Davanti allo scandalo mondiale per gli abusi in Germania di decenni prima, con i giornali che tiravano per la talare il Papa, Sodano irritualmente prese la parola al termine della messa della Domenica delle palme, liquidando il tutto come “chiacchiericcio”. Schönborn replicò subito, ignorando la richiesta di silenzio giunta dal Vaticano e accusando il già segretario di stato di aver contribuito a coprire i delitti di Groër. Benedetto fu costretto a far da paciere fra i due, convocando l’arcivescovo di Vienna a Roma e obbligandolo a scusarsi.
Schönborn è sempre stato inclassificabile, nonostante la fama di conservatore dovuta esclusivamente al suo essere stato accanto a Ratzinger. Per il resto, soprattutto nell’ultima fase del suo episcopato, è stato tra i portabandiera delle svolte bergogliane più o meno manifeste. Al drammatico e lacerante doppio Sinodo sulla famiglia d’inizio pontificato fu lui, con intelligenza, a vestire i panni del mediatore, proponendo la soluzione che poteva passare il vaglio dell’Aula, seppur con una conta all’ultimo voto sul riaccostamento alla comunione dei divorziati risposati: niente muro contro muro, ma comprensione dei punti di vista di tutti, considerato che “non esistono soluzioni semplici e generali”. Una relazione, la sua, che fu approvata all’unanimità nel circolo minore in lingua tedesca, dunque con il placet sia di Reinhard Marx sia di Gerhard Müller, per dire i due estremi ideologici del Collegio. Schönborn metteva in luce “alcuni criteri che aiutano a discernere”, facendo appello alla giovanpaolina Familiaris consortio, dove si spiega che il pastore deve valutare ogni singola situazione per quello che è, caso per caso. Ecco le premesse dalla famosa nota numero 351 a piè di pagina di Amoris laetitia, con cui si dava il via libera alla svolta attesa dai riformisti. Seppur non dicendolo chiaramente. E quando al Papa si chiese di illuminare con la sua sapienza l’intera faccenda, la risposta fu tranchant: “Raccomando a tutti voi di leggere la presentazione che ha fatto il cardinale Schönborn, che è un grande teologo. Lui è membro della congregazione per la Dottrina della fede e conosce bene la dottrina della Chiesa. In quella presentazione la sua domanda avrà la risposta”. Da quel momento, Schönborn divenne l’alfiere teologico del nuovo corso, soppiantando anche il primo amore d’inizio pontificato, Walter Kasper. Il Vaticano dice no alla benedizione delle coppie omosessuali? E lui fa sapere di non essere d’accordo. Al Sinodo sull’Amazzonia c’è chi fa notare che non è tempo né modo di parlare di diaconesse? Lui risponde che si tratta di discussioni “obsolete”, sostenendo che è possibile vedere prima o poi le donne sull’altare. E chissà cosa deve aver pensato, dall’eremo nei Giardini vaticani, il suo antico mentore, quel Joseph Ratzinger che sul tema aveva le idee chiarissime (così come sul riaccostamento alla comunione dei divorziati risposati).
Parlando ai preti di Milano, in una mattinata di più di dieci anni fa, chiarì il suo punto di vista sul tema: “Che bella la gioia di una famiglia credente. Ma oggi la famiglia è patchwork, è una famiglia fatta di divorziati, risposati. E’ tutto complicato. Come siglare un’alleanza tra la verità che libera e salva e la misericordia? Questa è la grande sfida della nuova evangelizzazione”. Una convinzione profonda che derivava dalla propria esperienza personale, altro che dottrina, prassi e teologia: “Provengo da una famiglia di genitori divorziati. Mio padre si è risposato. I miei nonni erano già divorziati. Perciò ho conosciuto molto presto la situazione del patchwork”, disse in un’intervista alla Civiltà cattolica: “Sono praticamente cresciuto in questa realtà, che è la realtà di vita di tante persone di oggi. Ma ho fatto anche esperienza della radicale bontà della famiglia. Nonostante tutte le crisi, tutte le ideologie che occorre denunciare e chiamare in modo chiaro per nome, malgrado tutto ciò, il matrimonio e la famiglia restano la cellula fondamentale della vita umana e della società”. I suoi amici di un tempo, quelli che invece al Sinodo sulla famiglia avevano dato battaglia, restavano sbigottiti dal cambiamento: “Non lo capisco più”, confidò a chi scrive il cardinale Carlo Caffarra, come se si percepisse nelle parole del principe viennese un tradimento di quel che sempre aveva detto e pensato negli anni in cui lavorava a stretto contatto con Ratzinger come “allievo prediletto”. Un tradimento a tratti forzato, che arrivava al punto di far sapere al mondo la sua soddisfazione per la vittoria della drag queen Conchita Wurst all’Eurovision del 2014, occasione per ribadire “rispetto” verso le persone queer.
L’ultimo atto, di pochi giorni fa: attorno a un tavolo lui, assieme al rabbino capo della città e al presidente della comunità religiosa islamica in Austria, ha firmato la “Dichiarazione di Vienna, Religioni per la pace”. Il compimento di quello che è stato forse il suo più grande interesse, il dialogo interreligioso. E, in particolare, il dialogo con il mondo ebraico. Scrisse nel 2007 che “non c’è niente di essenziale nel cristianesimo che non abbia le proprie radici nell’ebraismo”. Chissà cosa avrà pensato, mentre preparava gli scatoloni in arcivescovado, della linea papale sul tema espressa ai maggiorenti iraniani ricevuti in Vaticano. Lui che, a Teheran, nel 2001, invitava i musulmani a prendere con coraggio la strada delle riforme e che anni dopo, Francesco regnante, sosteneva in modo sicuro che “gli attuali sanguinosi conflitti nel medio oriente potranno essere superati solo quando ci sarà un progresso nelle relazioni interne all’islam”.