Lo scandalo del Papa invisibile

Mai in epoca contemporanea il Pontefice s'era negato al suo popolo così a lungo. Un'assurdità in un mondo che fa dell'immagine l'unico vero dogma

Matteo Matzuzzi

Due anni fa, Francesco disse che “la malattia e la finitudine nel pensiero moderno vengono spesso considerate come una perdita, un non-valore, un fastidio che bisogna minimizzare, contrastare e annullare a ogni costo. Non ci si vuole porre la domanda sul loro significato, forse perché se ne temono le implicazioni morali ed esistenziali. Eppure nessuno può sottrarsi alla ricerca di tale perché”.

Il Papa non s’è trasferito a Zagarolo, come il Giovanni XXIV immaginato da Guido Morselli mezzo secolo fa nel suo Roma senza Papa. Non è silenziosamente rassegnato dinanzi allo sfascio d’una Chiesa in cui anche il Credo è messo in dubbio, tra affermazioni così dotte e al contempo lontane nel tempo. Francesco è in un appartamento del Policlinico Gemelli da un mese, combatte contro una polmonite, tra crisi respiratorie, affanni e lievi miglioramenti. Attorno al suo capezzale, soprattutto nei primi giorni in cui i bollettini parlavano di trasfusioni e broncoscopie, alti prelati discettavano sui giornali e in televisione di dimissioni, di corvi infidi, di malelingue che già preparavano il Conclave. Loro no, naturalmente. E’ un po’ come la storia delle due bisacce di Esopo: si denuncia sempre il fardello di vizi e peccati altrui, mentre il proprio non lo si vede mai. Ammesso che discutere del dopo sia un attentato a qualcuno o all’Istituzione: lo si è sempre fatto. Hanno dimenticato, le eminenze reverendissime et purissime, la copiosa saggistica sui papabili che inondò le librerie dalla metà degli anni Novanta, Giovanni Paolo II felicemente – ancorché acciaccato – regnante? Qualcuno, molto in alto, avrebbe parlato di ipocrisia, con tanto di dito accusatore e, chissà, frusta di cordicelle in mano. 

 

Francesco manca al suo popolo, a quello infallibile in credendo che riempiva le piazze al suo passaggio, che lo osannava con murales e riviste personalizzate, che l’aveva idealizzato come l’uomo che avrebbe rimesso in piedi la vecchia Chiesa scossa da scandali, anticaglie e corto respiro. L’hombre del pueblo, appunto. E per uno identificato come il prodotto migliore della Teologia del pueblo, dove tutto è rimesso al popolo senza bisogno di intermediari, portavoce e addetti alla parafrasi del verbo papale, non è cosa da poco. Ha scritto sul Grand Continent Alberto Melloni che “la malattia del Papa è per la vita vissuta del popolo cristiano una preoccupazione di tipo squisitamente ‘famigliare’. Da un lato, come in ogni famiglia, si chiede ai medici una verità e una speranza; dall’altro nessun figlio o figlia ama che gli estranei chiedano dettagli e ai curiosi rispondono con frasi generiche o monosillabi”. Lo si vede in queste settimane: il Papa malato è invisibile, per sua scelta. Né una foto né un video. Solo un audio lungo una manciata di secondi in cui si sente tutta l’umana fatica, tra ossigeno ad alti flussi e parole mozzate dall’affanno. Quando l’hanno fatto sentire in piazza San Pietro, prima del Rosario recitato per la sua guarigione, è scoppiato l’applauso. Sincero e commosso. Prima che l’audio partisse e subito dopo il “gracias” finale. Perché non ce lo fanno vedere? si chiedono fedeli fuori dalle chiese la domenica mattina, in un misto di fraterna vicinanza e – ça va sans dire, i tempi sono quelli che sono – complottismo. Basterebbe una piccola foto senza troppe pretese, magari mentre “lavora” o prega in cappellina. Di spalle, senza indugiare troppo sulla scontata sofferenza del viso, sulle flebo e le cannule che i bollettini tecnici descrivono quasi ogni sera. E perché non un’apparizione silenziosa, la domenica prima o dopo l’Angelus: un salutino con la manina alla maniera della regina Elisabetta, da dietro il vetro. Due-tre secondi, sarebbero più che sufficienti per soddisfare l’umana bramosia. E la folla applaudirebbe, magari intonando cori ritmati nello spiazzo del Gemelli e regalandogli una dimostrazione di ballo con i tangheri venuti apposta a Roma per stargli accanto. Sarebbe una liberazione per le folle disorientate, precipitate nel limbo dal giorno del ricovero, incapaci di pensare all’assenza fisica del Papa malato. S’è perfino sentito parlare di “tragedia” per il quasi novantenne Francesco ricoverato per problemi respiratori, in un crescendo d’ansia e angoscia che bene testimonia il rapporto con la morte (e anche con la vita) di questi tempi moderni dove l’unico dogma che realmente conta è che “andrà tutto bene”. Quanta ragione aveva Etty Hillesum a scrivere nel suo diario che “l’uomo occidentale non accetta il dolore come parte di questa vita: per questo non riesce mai a cavarne fuori delle forze positive”. 

 

Qualcuno ha sostenuto che l’audio della scorsa settimana voleva essere la prova che è vivo, per troncare subito i deliri complottardi che in rete hanno conquistato ben più d’un adepto e che hanno portato due tiktoker a intrufolarsi al Gemelli per dimostrare che Bergoglio non è più in vita. Hanno sbagliato padiglione. Ci sono anche immagini realizzate con l’intelligenza artificiale: si vede un Papa somigliante a Francesco disteso su un letto d’ospedale con mascherina a coprirgli naso e bocca. Tra i commenti, dolore sincero e preghiere. Qualcuno, ma solo qualcuno, avanza dubbi: ma come? Ha sei dita. E poi si sta in ospedale a letto con la talare, lo zucchetto e la croce pettorale. Che sia un’immagine artificiale, un fake pure fatto male, è un dubbio che non passa neanche per l’anticamera del cervello. 
Il fatto è che è inimmaginabile non vedere il Papa. In questa epoca di fisicità e di connessioni integrali e totalizzanti, non è accettabile che il Vicario di Cristo in terra sia appartato, lontano dagli sguardi di chi ha il bisogno vitale di avere conferme visive che lui c’è ed è qui. Nanni Moretti aveva capito tutto un paio di decenni fa, quando fece urlare di angoscia e disperazione l’eletto Pontefice che aveva sentito il protodiacono proclamare l’habemus papam davanti alla folla che riempiva il sagrato petrino. Il discorso vale ancora di più con Francesco, che del contatto con le folle ha fatto un tratto saliente del pontificato. Il “Papa come noi” si sente dire per le strade, il Papa che va dall’ottico e nel negozio di dischi. Che va guardarsi la Crocifissione bianca di Chagall in via del Corso. Che va in gita dalla cugina piemontese. Che si rammarica di non potere più andare a mangiarsi una pizza in qualche ristorante di Roma, camminando – lui callejero – per le vie del mondo senza dare troppo nell’occhio. Come faceva “nell’altra diocesi”, in quella Buenos Aires percorsa in lungo e in largo con i mezzi pubblici. Gli interminabili giri di piazza in papamobile prima e dopo le udienze o le messe ne sono testimonianza: un ok con il pollice dato a qualche giovane, lo scambio di zucchetto, la degustazione di un po’ di mate non sempre di altissima qualità. Le battute, gli inviti alla preghiera reciproca. I buon pranzo e gli arrivederci al termine degli Angelus domenicali, lassù alla finestra di quel Palazzo apostolico da lui lasciato vuoto: meglio vivere in mezzo alla gente, in un hotel invece che in quelle stanze cui si accede “come da un imbuto”. “Senza gente non posso vivere. Ho bisogno di vivere la mia vita insieme agli altri”, disse nella sua prima intervista alla Civiltà Cattolica, pochi mesi dopo l’elezione nel 2013. 

 

Tutto è questo, di colpo, è finito. La piazza, centro del mondo, è rimasta vuota ed è la prima volta. Anche quando tutte le strade del globo erano senza anima viva, cinque anni fa, lui c’era. Da solo a pregare e a benedire la città con il Santissimo in mano, con il sottofondo dell’Adoro te devote disturbato dall’incessante e sgradevole suono delle sirene delle ambulanze. E c’era quando in una Roma deserta si recò a San Marcello al Corso a pregare davanti al Crocifisso miracoloso. C’era sempre, insomma. Non si poteva andare a messa e allora tutti alle sette del mattino si collegavano con la tv dei vescovi per sentire le sue brevi omelie da Santa Marta.  Sette minuti al massimo, non di più. Unico leader mondiale portatore di speranza, si disse e si scrisse. L’unico a non parlare di lockdown, mascherine, vaccini e orari per andare a fare la spesa al supermercato.  Ora la piazza è vuota. Si prega su quel sagrato ogni sera per lui, il rosario recitato a turno dai cardinali di curia. Ma lui è presente solo spiritualmente. Vent’anni fa la piazza era gremita, gente di tutte l’età seguiva dal mattino alla notte l’agonia di Giovanni Paolo II, che se ne stava andando pochi metri più su. Gli sguardi su quelle tre finestre illuminate, il campanone della basilica con i suoi lugubri rintocchi. Il silenzio e gli applausi, suore e preti, turisti e Papaboys. Stavolta è diverso: il Papa infermo è lontano chilometri, appartato al decimo piano d’un ospedale. E Roma ne risente, anche se in anno giubilare. Lo si vede proprio in quella piazza, dove di code interminabili verso la Porta Santa non v’è nemmeno l’ombra. E le celebrazioni, anche quelle in cui s’attendevano masse di partecipanti, lasciano buona parte del sagrato vuoto. Chiedendo il perché al primo che passa di lì, la risposta non va a indagare ragioni sociologiche né si impelaga in discorsi sulla fine della cristianità o sul solito tramonto dell’occidente che però a quanto pare non tramonta mai, visto che è declinante da decenni. No, la risposta è sempre la stessa: non c’è il Papa. Come se fosse il Papa, qualunque Papa, il richiamo unico per andare lì. Non si va per la tomba di san Pietro o per ammirare il Baldacchino berniniano restaurato. Si va per il Papa. E quando lui non c’è, si preferisce magari una gita a Villa Pamphili o una sosta in qualche bar acchiappa turisti dove il caffè lo fanno pagare quattro o cinque euro. In questo, il lungo pontificato di Giovanni Paolo II ha cambiato la Storia: sempre in prima fila, a roteare il bastone davanti al popolo che lo acclamava, a battere il tempo sulle note di “Jesus Christ you are my life” a Tor Vergata, anno 2000. A mostrare la malattia fino all’ultimo, con quella mano sbattuta sul leggio mentre constatava che non riusciva più a parlare. La sua salita al Calvario in diretta televisiva, con lui ritratto di spalle mentre guardava e baciava il Crocifisso, Redemptor hominis. Ha scritto il direttore dell’Agenzia Fides, Gianni Valente, che “le fragilità e vulnerabilità umane dei vescovi di Roma non sfigurano il volto della Chiesa: anch’essi invece suggeriscono qualcosa del mistero che la fa vivere e camminare nella storia. La salvezza di Cristo abbraccia gli uomini e le donne così come sono, feriti dal peccato originale, esposti alla malattia e alle cadute, e questo vale per tutti, a cominciare dai Successori di Pietro. E da San Pietro fino a oggi, a mettere in pericolo la Chiesa non sono fragilità e limiti umani dei Papi”. 

 

Fu proprio Francesco, un paio d’anni fa, a toccare l’argomento, delicatissimo in un’epoca dove la morte è il grande tabù anche per chi crede (o dovrebbe credere) nella vita eterna e considera quest’esperienza terrena solo un breve passaggio. Prendendo la parola davanti alla Pontificia commissione biblica, disse che “la malattia e la finitudine nel pensiero moderno vengono spesso considerate come una perdita, un non-valore, un fastidio che bisogna minimizzare, contrastare e annullare a ogni costo. Non ci si vuole porre la domanda sul loro significato, forse perché se ne temono le implicazioni morali ed esistenziali. Eppure nessuno può sottrarsi alla ricerca di tale perché”. “Anche il credente  – aggiungeva il Pontefice – talvolta può vacillare di fronte all’esperienza del dolore. E’ una realtà che fa paura e che, quando irrompe e assale, può lasciare l’uomo sconvolto, fino a incrinarne la fede. La persona allora è posta di fronte a un bivio: può permettere alla sofferenza di portarla al ripiegamento su di sé, fino alla disperazione e alla ribellione; oppure può accoglierla come un’occasione di crescita e di discernimento su ciò che nella vita conta veramente, fino all’incontro con Dio”.

 

Parole da mettere per iscritto e diffondere ai fedeli angosciati che domandano foto e video. Sono più utili, anche per la propria anima, di bollettini che registrano l’andamento degli scambi gassosi. Riflettendo sul fatto, chissà, che l’appartenenza alla Chiesa non si esaurisce nel vedere il Papa.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.